16 mar 2015

VED BUENS ENDE.....: LE DERIVE "POST" DI UN TRIO IMPREVEDIBILE




I MIGLIORI 10 ALBUM DI BLACK METAL NORVEGESE

10° CLASSIFICATO: "WRITTEN IN WATERS"

Mi accingo a parlare dei Ved Buens Ende..... con lo spirito di rivalsa del giocatore di calcio che, ancora scottato per aver sbagliato il rigore decisivo nella competizione precedente, si presenta per primo al dischetto per esorcizzare l’errore del passato.

Guardate un po’ cosa scrivevo su “Written in Waters” il 5 novembre 2006 sulle pagine di Debaser (per leggere l’intera recensione cliccare qui):

“Ci sono dischi che cambiano il corso della storia, altri invece che, pur essendo fenomenali, nessuno si caga, e per questo condannati irrimediabilmente a sprofondare nell'oblio della dimenticanza. Di certo "Written in Waters" dei norvegesi Ved Buens Ende..... appartiene a questa seconda categoria.”

E leggete ora con quali parole concludevo la recensione:

Questo "Written in Waters", insieme "Filosofem" di Burzum, e "Heart of Ages" e "Omnio" degli In the Woods, rimarrà un episodio isolato che non apporterà sostanziali novità alla scena, ma che costituirà per sempre un importante patrimonio per tutti coloro che ragionano fuori dagli schemi ed apprezzano la musica in quanto veicolo emozionale ed espressione artistica.”

Cazzate! Mi viene in mente quel discografico geniale che disse ai Rolling Stones: “Cambiate cantante o non farete mai successo!” Il fatto è che sul finire degli anni novanta persi interesse per il black-metal, ritenendolo (erroneamente) un filone esaurito. Semplicemente non credevo più in una sua evoluzione, ingannato dalle tendenze di fine millennio in cui certi guardavano indietro in direzione Motorhead e Celtic Frost (è il caso del black’n’roll reazionario di Darkthrone, Satyricon e Carpathian Forest), mentre altri uscivano direttamente fuori dal genere (gli Ulver approdavano all’elettronica, gli Emperor non so a che cosa).

Ma mi sbagliavo: un po’ per ignoranza, un po’ perché i tempi non erano effettivamente maturi, non avevo previsto che l’evoluzione del black metal avrebbe effettivamente ripreso il suo corso, dopo qualche anno di assopimento.

Quando nel 2006 scrissi la recensione di “Written in Waters” ignoravo l’esistenza della sotto-categoria “depressive”, ed ignoravo che sia in Europa (Shining, Silencer) che negli States (Xasthur, Leviathan) proliferasse un numero sempre maggiore di adepti del Conte che vedevano nel suo epitaffio artistico (pre-carcere) “Filosofem” una fonte di ispirazione. E così la velocità si stemperava in tempi lenti ed ossessivi; i riff al vetriolo affogavano nella rifrazione riverberata di arpeggi elettrificati; lo screaming malefico si tramutava in un singulto di sofferenza ed agonia.

Ma è anche vero che nel 2006 molte cose non erano ancora successe. Per esempio l’etichetta Cascadian Black Metal non era stata coniata (gli Wolves in the Throne Room, avrebbero debuttato proprio in quell’anno con l’acerbo “Diadem of 12 Stars”). I francesi Deathspell Omega avevano fatto il salto di qualità appena due anni prima con il capolavoro “Si Monvmentvm Reqvires, Circvmpisce” del 2004; i connazionali Alcest, paladini del rinnovamento “blackgaze”, avrebbero invece pubblicato il loro folgorante esordio “Souvenirs d'un Autre Monde” un anno dopo, nel 2007. Dall’altra parte dell’oceano, i newyorkesi Krallice ancora non esistevano, visto che avrebbero debuttato nel 2008. Questi ultimi e i Deathspell Omega, in particolare, avrebbero riverniciato a nuovo il vetusto black-metal con una formula a base di dissonanze e destrutturazioni ritmiche.   

Un po’ quello che facevano i Ved Buens Ende….nel 1995 in occasione del loro unico parto discografico “Written in Waters” (se non si considera la ristampa del demo “Those who Caress the Pale”). “Written in Waters” è il tomo “post black metal” per eccellenza, in anni in cui l’etichetta “ post” non era così in voga. E proprio con questo album intendo inaugurare questa mia disanima dei dieci album più significativi del black metal norvegese (per vedere l’introduzione clicca qui). Godibilissimo fin dalla sua uscita, ma ignorato dai più in quanto “troppo avanti”, “Written in Waters” ha gettato semi i cui frutti solo molti anni dopo sarebbero stati raccolti: un potenziale che tutt’oggi non è stato ancora completamente esplorato (se il tempo mi darà nuovamente torto, mi riservo di riscrivere un’altra recensione fra dieci anni!)

Come la Firenze del Rinascimento, la Norvegia degli anni novanta è stata un luogo di incontro-scambio in cui gli artisti hanno potuto godere di un terreno di interazione privilegiato per sviluppare idee e stilemi. Se nel 1994 Mayhem e Darkthrone, rispettivamente con “De Mysteriis dom Sathanas” e “Transilvanian Hunger”, definivano gli standard del nuovo black-metal, già nel 1995 usciva “Written in Waters” a distruggere tutto.

Se il black-metal, come ce lo descrivevano Mayhem e Darkthrone, era qualcosa di tremendamente veloce, minimale, feroce, ecco che i VBE trasfigurano questi elementi per svilupparli, senza rinnegarli, verso i lidi della psichedelia, del noise e dell’avanguardia. I VBE ci insegnano dunque che il black metal è sostanzialmente un linguaggio ed in quanto tale può essere declinato come meglio si crede. Un confronto utile, per capire questo concetto, è quello con i Therion, che suonano originali ed innovativi solo per aver operato un inedito incrocio fra heavy metal e musica operistica, facendo combaciare questi mondi apparentemente inconciliabili, ma senza variarne le caratteristiche intrinseche. Il black metal, invece, forgia un linguaggio essenzialmente nuovo, non più riconducibile al punk, al thrash metal, al death metal da cui esso indubbiamente deriva. All’epoca in pochi se ne rendevano conto, considerandolo come una dei tanti distretti del regno del metallo, quando invece, con il senno di poi, il black metal avrebbe rappresentato l’ultima vera grande rivoluzione stilistica del metal. Dalla fine degli anni novanta in poi, con l’avvento del post-hardcore prima, e del post-metal successivamente, il metal si riciclerà attraverso l’equalizzazione dei suoni e l’espansione della durata dei brani. Da un certo punto in poi, l’evoluzione del metal sarà solo una questione di distorsioni e diluizione.

Il modus operandi dei VBE, per quanto destrutturante, è invece principalmente progressivo (qualcuno addirittura ci vede del jazz), in quanto costruisce, o meglio, smembra, disseziona, rimodella la materia per ricomporla in qualcosa di nuovo, senza trucchi e senza andare a pescare altrove. Quello che poteva essere un semplice interludio, qui diviene corpus sonoro: un arpeggio, un riff in tremolo, se sviluppati, portano a suite complesse. Il basso di Skoll (già membro di Ulver e poi in campo con gli Arcturus) rimbomba che è una bellezza, ed agisce sull’incredibile interazione fra le architetture sonore allestite dal fantasioso Vicotnik (chitarra e voce, direttamente dagli avant-black-metaller Dødheimsgard) e il drumming dinamico di Carl-Michael (batteria e voce, cortesemente prestato dagli Aura Noir): costruzioni imprevedibili, dall’andamento sornione e dominate dalle dissonanze, che ricordano il math-rock dei Don Caballero, il “noise ante-litteram” dei King Crimson di “Red”, gli esperimenti cacofonici dei primissimi Velvet Underground. L’operazione non è banale, anche perché ciò non avviene citando l’uno o l’altro riferimento (la mia teoria rimane che certe influenze siano state indirettamente assorbite tramite l’ascolto dei Voivod, che nel metal sono stati fra i più lungimiranti ammiratori del progressive e della psichedelia), ma sviluppando il discorso in maniera autoreferenziale, attraverso il linguaggio malleabile del black-metal, che può essere scomposto e slabbrato a seconda delle esigenze. Non è un caso che proprio il black metal trovi oggi le maggiori applicazioni, sapendosi adattare al post-rock come allo shoegaze.

Certo, a tratti si pesta duro, ma ciò è un atto dovuto, forse indispensabile (come è indispensabile uccidere in una missione di pace); ben più interessanti sono quei momenti in cui i tre musicisti si perdono in jam allucinate che traslano, in una forma più meditativa e cervellotica, il classico riffing deragliante del black metal. Il tutto condito da voci cantilenanti ed oblique che conferiscono ai brani un’aura surreale e straniante (laddove le voci pulite nel black metal, alla stregua di cori di vichinghi od evocazioni odiniche, erano un fattore atto a creare un’atmosfera solenne ed arcaica).

Diremo in seguito cos’è il black-metal: per oggi ci limiteremo a dire cosa è il post-black metal come già lo concettualizzavano i VBE venti anni fa, ossia l’estensione, in senso progressivo della ferocia di uno dei generi più estremi che il metal abbia contemplato. Una contraddizione di termini solo apparente: il terzetto, nelle sue stravaganti movenze, conserva i crismi del black metal più puro (misantropia, nichilismo ecc.) tant’è che mai i tre verranno additati come poser: l’agonia e l’odio primigenio del black metal, elevati ad un livello superiore di astrazione, si fa, grazie ai VBE, atto artistico, progressione stilistica, crescita e percorso costruttivo verso qualcos’altro.

Non come il Lou Reed di “Metal Machine Music”, che era pura provocazione…