8 lug 2015

OPETH: LA CALATA DEGLI SVEDESI INTELLIGENTI




I MIGLIORI DIECI ALBUM DEL “NUOVO METAL”

4° CLASSIFICATO: “BLACKWATER PARK”

Continua il nostro viaggio alla scoperta delle opere che secondo noi incarnano le più interessanti tendenze emerse in seguito alla crisi esistenziale del metal (quella crisi che, temporalmente parlando, ha coinciso con la prima metà degli anni novanta): è la volta degli svedesi Opeth, band cardine del movimento neo-progressive, nonché fieri esponenti dell'”armata dei buoni”. Il “Nuovo Metal” non è dunque solo post-hardcore o drone-ambient, non è solo lacerazioni sonore, grida disumane e pause interminabili: come era stato per i Mastodon, torniamo dunque ad una concezione di metal meno destrutturante. Lo facciamo con artisti che hanno saputo intraprendere un'incredibile parabola artistica che dalle asperità iniziali giunge al raffinato prog dei giorni nostri.

Gli Opeth non sono stati la band rivoluzionaria che ha fatto il boom per poi durare il tempo di una scoreggia. Gli svedesi si sono imposti nel tempo, con impegno, metodo, costanza, progredendo a piccolo passi, ma in continua ed inarrestabile evoluzione. La loro storia è nota a tutti: esordirono nella seconda metà degli anni novanta all'insegna di un death/black melodico che riprendeva il discorso lasciato in sospeso dagli Edge of Sanity di Dan Swano, musicista e produttore di grido, nonché “Sindaco di Svezia” e padre putativo degli stessi Opeth, da lui scoperti e supportati, insieme ai Katatonia, altra grande promessa di quegli anni.

La genealogia di queste due importanti formazioni si ebbe all'ombra della band di Swano, che due decadi fa rivoluzionava il death metal con opere del calibro di “Purgatory Afterglow” (1994) e “Crimson” (1996). Nel death melodico degli Edge of Sanity c'era già tutto quello che Katatonia ed Opeth avrebbero sviluppato successivamente: voci pulite, ispirati intrecci di chitarra, momenti acustici e, più in generale, un approccio progressivo mediante il quale si intendeva superare il classico brano-fucilata di tre/quattro minuti (“Crimson”, addirittura, si componeva di un’unica traccia di quaranta minuti!).

I Katatonia (con i Paradise Lost ben in mente) colsero il lato più decadente degli Edge of Sanity: se il capolavoro della prima fase “Brave Murder Day” (1996) era ancora fortemente radicato negli stilemi doom/black, già con il successivo “Discouraged Ones” (1998) i Nostri decisero di abbandonare la musica estrema per addentrarsi in una sorta di emo-metal che attingerà tanto dal calderone dark (Cure su tutti) quanto dal cantautorato più esasperato (Jeff Buckley). Scommessa vinta: la band di Jonas Renkse ed Anders Nystrom diverrà presto una delle esperienze più interessanti dell'universo gothic ed indiscutibile punto di riferimento per gli anni a venire. Lo dimostra un album come “Viva Emptiness” (2003), un classico dei nostri tempi: frizzante goth-rock per adolescenti insoddisfatti, una miscela emotivamente esplosiva che seppe volgere a proprio favore persino le trame moderniste dei Tool.

Gli Opeth di Mikael Akerfeldt e Peter Lindgren ebbero meno prontezza dei loro cuginetti, e per tirarsi fuori del tutto dal metal estremo gli ci sarebbero voluti almeno sette dischi. In “Orchid”, del 1995, furono promotori di un death/black melodico assai originale, che alle velocità folli preferiva composizioni articolate ed incredibilmente lunghe (spesso oltre i dieci minuti). Con il successivo “Morningrise”, dell'anno dopo, ripresentarono la medesima formula in una veste maggiormente rifinita, non rinunciando a quelli che erano i loro tratti peculiari, lunghezza dei brani inclusa (basti pensare che l'album dura sessantasei minuti e si compone di soli cinque pezzi – con un brano, “Black Rose Immortal”, che oltrepassa addirittura i venti minuti).

Gli Opeth si sono sempre definiti progressivi, ma almeno in un primo momento il termine veniva usato impropriamente: i brani non progredivano, non accoglievano progressioni nel senso classico del termine, o meglio, non si sviluppavano secondo strategie né facevano uso di temi ricorrenti. Essi erano piuttosto un insieme di frammenti o commenti musicali legati l’uno all’altro più o meno bene. Certo, lo schema-canzone era abbondantemente superato, ma, almeno nei primi due album, gli Opeth sembravano badare più agli umori ed ai singoli passaggi, che alla strutturazione dei propri pezzi. Pesava il fatto che Akerfeldt all'epoca lavorava in un negozio di strumenti musicali: passando le giornate a strimpellare la chitarra, disponeva di una mole infinita di riff, arpeggi, materiale che puntualmente finiva rimaneggiato nei brani degli Opeth. Da questo punto di vista, le cose migliorarono con il successivo “My Arms, Your Hearse”, del 1997, che, seppur meno vario ed imprevedibile del suo geniale predecessore, sfoggiava brani più compatti e non affetti da “dispersione acuta”. I tempi si accorciavano e, di pari passo, si affievoliva la spinta progressiva, in favore di un irrobustimento del sound.

Il primo album veramente progressivo, sarà “Still Life” (del 1999): la band, oramai forte di una formazione finalmente affiatata (oltre ai fondatori Akerfeldt e Lindgren, essa prevedeva Martin Lopez alla batteria ed il nuovo ingresso Martin Mendez al basso) riusciva ad ammaestrare tutta la propria fantasia compositiva grazie alle accortezze del musicista smaliziato. I brani continuavano ad essere lunghi e tortuosi, ma rilucevano di un equilibrio intrinseco che era il frutto dell'esperienza e della finalmente raggiunta maturità artistica.

Giungiamo dunque al “Blackwater Park” in cui molti vedono il capolavoro formale della band. In questo album del 2001 gli Opeth erano ancora una squadra, e, proprio grazie al lavoro di squadra, si raggiungeva l’equilibrio perfetto fra ispirazione e forma: dopo, assisteremo ad un calo qualitativo, prima comprensibile perché fisiologico, poi inaccettabile in quanto figlio del mestiere e della cocciuta visione artistica di Akerfeldt. Le prime avvisaglie si ebbero con la doppietta composta da “Deliverance” (2002) e da “Damnation” (2003), sorta di biforcazione della natura della band (il primo tomo esprimeva il lato più feroce, il secondo quello più soft e riflessivo): due visioni parziali che tuttavia non ci consegnavano la band nella sua complessità.

Con “Ghost Reveries”, del 2005, si consumò l’ultimo atto degli Opeth intesa come band: a partire dalla fuoriuscita del membro fondatore Lindgren, s’iniziarono a perdere pezzi per la strada sotto i colpi imperiosi ed impietosi dell’ego straripante di Akerfeldt. Egli, in un imbarazzante escalation di antipatia frammista a superomismo, assumerà il controllo assoluto della band, rendendola una sorta di progetto personale e traghettandola, dopo un album di transizione non del tutto riuscito (“Watershed”, del 2008), definitivamente fuori dal metal, con lavori poco convincenti sotto il profilo dell'ispirazione, come  Heritage” (2011) e “Pale Communion” (2014), discreti dischi prog, ma oramai improntati sul revivalismo più spudorato.

E’ facile oggi spregiare quel pirla di Akerfeldt, ma ai tempi di “Blackwater Park” gli Opeth erano gli autori del “miglior metal possibile”. E questo si poteva intuire già dalla spocchia e dalla sicurezza espresse nella foto del booklet interno, che ritraeva i componenti della band tronfi e sbarazzini (camicia da dandy, giacca di pelle, occhiali da sole) perfettamente a loro agio nei nuovi panni. Questa disinvoltura si traduceva a livello musicale: perizia tecnica, idee, personalità. L’amore per gli anni settanta, sebbene presente in forma latente fin dagli inizi, era tenuto saldamente a bada, alla stregua di un bagaglio di conoscenze che fungeva ancora da mezzo e non da fine: le influenze mutuate del prog/rock degli anni settanta, infatti, erano ricondotte ad un sound brutale che per certi aspetti si avvicinava più ai Morbid Angel (per esempio) che ai vari King Crimson, Camel, Pink Floyd.

Un altro fattore del successo è stato il contributo “esterno” di Steven Wilson. “Blackwater Park” è un album formalmente perfetto e questo lo dobbiamo alla professionalità e all’equilibrio profusi dietro al mixer da Wilson, presente anche in qualità di prezioso guest-musician (alle tastiere, alla chitarra e nei cori) e di saggio consigliere. E qui si apre un capitolo importante: è universalmente noto come l’amicizia e la stretta collaborazione artistica fra Akerfeldt e il leader dei Porcupine Tree abbiano generato un fruttuoso processo di osmosi fra le due band, arrecando importanti benefici ad entrambe. I Porcupine Tree annettendo al loro sound (all’epoca “quasi pop” con album come “Stupid Dream” e “Lightbulb Sun”) degli stilemi più propriamente metal, raggiungeranno nuove fasce di pubblico pagante (ed il popolo metallico è, economicamente ed emotivamente parlando, un ottimo pubblico). Gli Opeth, dal canto loro, accelereranno sul fronte del rock progressivo, perfezionando ulteriormente la loro formula. Insieme, saranno i pilastri di quel movimento, il neo-progressive, che diverrà un fenomeno culturale dilagante negli anni recenti, sia dentro che fuori dal metal (da non confondere con il prog-metal di band come Dream Theater e Fates Warning, dato che il neo-progressive guardava con maggior devozione agli anni settanta ed al tempo stesso si apriva al mondo del pop, del folk, dell’elettronica e del trip-hop). Sebbene Wilson non abbia mai suonato metal in senso stretto, la sua diverrà una figura di primario rilievo per gli sviluppi del metal dell’ultimo decennio (basti pensare al ruolo giocato “dietro alle quinte” per molte band “illuminate”, una su tutte: gli Anathema dei fratelli Cavanagh).

Se la forma rasenta la perfezione (suoni nitidi ed al tempo stesso potenti  e profondi), la sostanza ce la mettono tutta gli Opeth, macchina rodatissima che può disporre di ottime individualità ed un’invidiabile coesione. Da sottolineare la fluidità dietro alle pelli di Lopez nel gestire i vari passaggi e dare scorrevolezza al tutto: il suo drumming non è mai eccessivamente intricato né cervellotico, ma il suo operato è oramai un tutt'uno con quello degli altri e, devo dire, senza di lui gli Opeth non saranno più gli stessi. La sinergia fra le due asce, inoltre, raggiunge vette sublimi, affrontando schemi sempre più complessi, passando da brutalità e melodia con estrema disinvoltura. La voce di Akerfeldt, infine, emerge come uno strumento sempre più accordato: il suo peculiare e profondo growl rimane brutale (considerato il contesto), ma è sul versante del pulito che egli darà il meglio di sé (grazie soprattutto alla sua bellissima timbrica, qualità rara fra gli ex-strilloni del metal).

Nel complesso i brani rimangono lunghi e ricchi di contenuti e sfumature. Continui sono i cambi di ambientazione, mentre la compenetrazione fra momenti duri ed altri soft avviene con maggiore continuità e senza traumi: in mezzo a queste imponenti architetture (perché oramai la musica degli Opeth è maestosa quanto una cattedrale) si apre un varco di lucentezza quel gioiello che risponde al nome di “Harvest”, una delle più belle ballate (e ve ne sono molte) vergate dagli svedesi.

Insomma, “Blackwater Park” è un album da avere senza se e senza ma. Quanto al valore storico, possiamo sostenere tranquillamente non solo che gli Opeth sono un punto di riferimento imprescindibile per l’universo del death metal progressivo in cui regnano, ma che l'Opeth-sound (o meglio, la loro metodologia) assumerà una valenza trasversale, divenendo standard a tutti gli effetti ed entrando di diritto in quel patrimonio generico che diverrà universale e condiviso da tutti.

Gli Opeth, dunque, hanno illuminato la via a formazioni già di per sé originali come Orphaned Land e Maudlin of the Well. Gli Opeth sono in verità ovunque, anche “laddove non batte il sole”, e sanno introdursi negli ambienti più esclusivi ed autoreferenziali, come quello del depressive black metal (si veda la svolta melodica dei connazionali Shining). Gli Opeth, inoltre, hanno la forza e la credibilità di deviare il possente cammino di eminenze quali Isis (che a partire da “Panopticon” sapranno inglobare sfumature progressive all'interno del loro imponente post-metal). La loro lunga ombra, infine, raggiungerà le gesta di band rampanti ed innovative, che diverranno a loro volta leader di settore (come gli Agalloch, sul versante post-black, e Baroness, sul versante “post-post-hardcore”).

Gli Opeth son tutto questo, ed anche di più, perché essi sono una delle poche band rilevanti dei nostri giorni che può vantare lo status di chi non è disceso né dai Tool, né dai Neurosis, dovendo tutto il proprio successo al duro lavoro (ed al massimo a qualche saggio consiglio di Swano e Wilson): il loro nome non sarà utilizzato impropriamente tutte le volte che avremo a che fare con band ed artisti che vorranno fondere metal estremo, aperture melodiche e complessità prog.

Alla faccia del post-hardcore e del drone-ambient…