20 set 2015

RECENSIONE: ALTERNATIVE 4 “THE OBSCURANTS”




Se un fan degli Anathema fosse stato ibernato nel 1998, all’indomani dell’uscita di “Alternative 4, e poi fatto risvegliare nel 2014, sedici anni dopo, facendogli ascoltare “The Obscurants” degli Alternative 4, ultimo (in ordine di tempo) progetto solista di Duncan Patterson, costui non scorgerebbe certamente una grande differenza fra i due album. Egli incontrerebbe il medesimo pianoforte claudicante suonato da ditine incerte che sono abituate a maneggiare un basso, troverebbe le stesse voci sussurrate, gli arrangiamenti minimali, le inquiete atmosfere tardo-pinkfloydiane.

Il dato inquietante è però un altro: possibile che l’evoluzione artistica dell’ex bassista degli Anathema non abbia compiuto in sedici anni un mezzo passo in avanti?

Parlare di immobilità artistica per un personaggio come Duncan Patterson è francamente ingiusto: egli è l’ispiratore primo dell’evoluzione degli Anathema, colui che li ha traghettati dal doom-death metal degli esordi ad album come “Eternity” e (appunto) “Alternative 4, opere decisive che hanno costituito delle tappe fondamentali per gli sviluppi futuri della band, oggi approdata felicemente ai lidi di un raffinato ed elegante rock progressivo. Patterson è anche colui che, una volta fuoriuscito dagli Anathema, è ripartito da zero, ha raccolto le energie e ha fondato un’altra grande band: quegli Antimatter che, dopo tre brillanti album, lo vedranno nuovamente uscire per ricostruirsi altrove. Considerata anche la breve parentesi degli Ion (progetto di musica folk irlandese), gli Alternative 4 sono stati la quarta incarnazione artistica di Patterson (che potremmo definire un vero consulente-curatore di start-up): un percorso, il suo, originato dal metal estremo e pervenuto, nel corso degli anni, ad una forma sofisticata di musica autoriale caratterizzata da umori dark e tenui venature elettroniche. Insomma, non proprio una cosa da tutti.

Qual è dunque il problema? Il problema è che Patterson, in quanto animale solitario e non di branco, non comunicando con l’esterno e quindi non recependone gli stimoli, ha finito per impantanarsi in un circolo vizioso ed autoreferenziale che lo ha condotto alla stagnazione delle sue energie vitali. Quasi venti anni fa Patterson ascoltava i Pink Floyd ed era determinato nel convogliare le istanze metalliche della sua band verso traguardi che assomigliassero in qualche modo a quello spazio musicale che sta fra “Wish You Were Here” e “The Final Cut”, passando ovviamente per l’imprescindibile “The Wall”. Oggi, lo ritroviamo nelle medesime condizioni. Solo che, finché eri un metallaro, ti piacevano i Pink Floyd, disponevi di un chitarrista fantasioso ed ispirato come Daniel Cavanagh e di un cantante espressivo come Vincent Cavanagh, passavi per un genio. Oggi, con tutta l’acqua che è passata sotto ai ponti, un giudizio del genere deve essere giocoforza ridimensionato. Dov’è che ti sei arenato, Duncan? Non ti riesce più copiarla “Hey You”?

Il fatto è che per tutta la sua carriera Patterson ha guardato a quella canzone dei Pink Floyd e proprio quella canzone, e non altre, egli ha scelto per esprimere la sua visione artistica: quel modo di cantare, quegli sconsolanti ed ipnotici arpeggi di chitarra, quei gelidi synth, quella sensazione di solitudine, di isolamento, quelle ambientazioni grigie da squallido appartamento in disordine dove fumare sigarette ed alcolizzarsi fino al decesso.

La minestra è sempre la stessa anche per gli Alternative 4 (e come poteva essere altrimenti, visto che il monicker stesso della nuova band è auto-citazionismo allo stato puro?). Essi giungono con questo “The Obscurants” alla seconda prova (avevano esordito nel 2011 con l’album “The Brink”). L’impressione però è che da un lato Patterson sia stanco, molto stanco; dall’altro che, immutata la formula, non vi siano musicisti in grado di rinvigorirla, che non vi sia un chitarrista (ah, il mio buon vecchio Daniel Cavanagh!), né un cantante (un Vincent Cavanagh, o anche un Mick Moss, che, con la sua bella timbrica à la Eddie Vedder, negli Antimatter era stato un indispensabile collega). 

Cosa rimane dunque? Rimane Duncan Patterson e il suo basso, Patterson e il suo pianoforte suonato in modo elementare, Patterson e le sue chitarre ininfluenti, Patterson e i suoi tappeti di sintetizzatori in stile “Welcome to the Machine”, Patterson e le sue basi elettroniche. Vi fosse stato almeno Alan Parson alla regia, forse qualcosa di buono sarebbe uscito, ma con il deus ex machina già fiacco di suo, solo, solissimo, senza abili comprimari, il risultato non può che generare delle perplessità anche nel fan più comprensivo.

A tal proposito, vorrei spezzare una lancia a favore del nuovo cantante/chitarrista Simon Flatley, da più parti dileggiato ed osteggiato in quanto giudicato piatto ed inespressivo. Con la sua timbrica pacata e sorniona, da Gilmour invecchiato bene, riesce invece secondo me ad amalgamarsi efficacemente al tessuto sonoro allestito da Patterson. E se infine io quest’album l’ho abbastanza gradito, è anche grazie alla sua voce. Completa la formazione il batterista Mauro Frison che, come avrete intuito, non è l’uomo che cambia le sorti del progetto: i suoi sono interventi didascalici e sporadici, laddove la musica di Patterson sa fare spesso a meno delle ritmiche e qua e là contempla persino l’utilizzo di pattern elettronici.

Ma soprattutto: perché inserire un album del 2014 all’interno della rubrica “album dimenticati”? Ma perché “The Obscurants” è destinato all’oblio (lo suggerirà il titolo stesso?) già dal giorno dopo che è uscito. Niente contro Patterson, che nonostante tutto continuo a supportare, ma sinceramente, mi chiedo, dove pensa di andare? A chi pensa di piacere (tolta ovviamente gente come me che non ha più senso di esistere nel mercato discografico)?

Duncan: non hai più un tuo pubblico…
Duncan: il metallaro non li ascolta più i Pink Floyd, questa storia poteva andare bene quindici/dieci anni fa, ma per i ventenni di oggi i Pink Floyd sono superati, vecchi, noiosi, deprimenti…
Duncan: perché non inizi ad ascoltare qualcos’altro? Non ti si è ancora consumato il vinile di “The Wall”? Magari trovi qualche spunto nuovo…

Duncan, lo so, non è colpa tua, tu non c’entri, perché tu non potresti essere o fare altrimenti. E’ come chiedere a mia nonna di cucinarmi il sushi…L’ascolto di “The Obscurants”, dunque, finisce per essere un mix di compresione/incomprensione, di tenerezza e disappunto.

Tenerezza perché non può che fare tenerezza una “Paracosm” con i suoi undici minuti di “niente” che si trascina avanti zoppicando fra giri consunti di pianoforte e solenni rintocchi di basso (Patterson allo stato puro!). Oppure una “Dina” (che potrebbe benissimo essere anche una Vera Lynn): un seducente dark-ballad che continua disperatamente/piacevolmente a scimmiottare la solita “Hey You”. Cosa che del resto fanno le buone “Lifeline” e “The Tragedy Shield”, che perseverano sulle medesime coordinate di voce languida/pianoforte da terza elementare/chitarra da seconda media/denso basso ad arrotondare il tutto.

Disappunto perché francamente l’inutile introduzione “Theme for the Obscurantist”, che poi non è altro che il solito giro di pianoforte puerile che più puerile non si può, fa venire il latte alle ginocchia a partire dal terzo secondo e ti fa gridare: “No, Patterson, dai, cazzo, non posso ritrovarti in queste condizioni comatose!”. Oppure l’inutile coda della conclusiva “Closure”. Urge a questo punto una doverosa parentesi su “Closure”: se si parla di un album fatto solo ed esclusivamente di meste ballate in cui sostanzialmente non succede nulla, un brano “dark-wave” à la Joy Division come “Closure”, animato da un’incalzante base elettronica e da un ossessivo giro di tastiere, ci può stare, eccome se ci può stare. Perché allora, quando il brano era già praticamente finito (ed era perfetto così!), ti accanisci in sala di rianimazione per resuscitarlo fuori tempo massimo e dilatarlo con una superflua coda semi-strumentale che ti fa venir voglia di gettar lo stereo dalla finestra? Avevi, Patterson, i sensi di colpa perché in tutto l’album non avevi citato nemmeno una volta “Shine on you Crazy Diamond”? Ma se proprio devi saccheggiare i Pink Floyd più sontuosi e pomposi, allora per piacere non farlo con una tastiera Bontempi ed una puttana stitica al canto etereo/liberatorio, che mia nonna avrebbe fatto meglio!   

 The Obscurants”, pertanto, è un album fatto per essere dimenticato, non perché necessariamente pessimo (anche se a tratti lo sa essere), ma perché inutile nella sua vocazione di ripercorrere stancamente stilemi già abusati e venuti fondamentalmente a noia, senza per altro dire nulla di nuovo o di vagamente diverso. L’album può regalare momenti piacevoli, questo lo posso concedere, ma solo se si è dei fan alquanto fanatici e malconci di Anathema e di Antimatter. Gli stessi estimatori dei Pink Floyd potrebbero sbadigliare in più di una circostanza…