Se un fan degli Anathema
fosse stato ibernato nel 1998, all’indomani dell’uscita di “Alternative
4”, e poi fatto risvegliare nel
2014, sedici anni dopo, facendogli ascoltare “The Obscurants”
degli Alternative 4, ultimo (in ordine di tempo) progetto solista di Duncan
Patterson, costui non scorgerebbe certamente una grande differenza fra i
due album. Egli incontrerebbe il medesimo pianoforte claudicante suonato da ditine
incerte che sono abituate a maneggiare un basso, troverebbe le stesse voci
sussurrate, gli arrangiamenti minimali, le inquiete atmosfere tardo-pinkfloydiane.
Il dato inquietante è però un
altro: possibile che l’evoluzione artistica dell’ex bassista degli Anathema
non abbia compiuto in sedici anni un mezzo passo in avanti?
Parlare di immobilità
artistica per un personaggio come Duncan Patterson è francamente ingiusto: egli
è l’ispiratore primo dell’evoluzione degli Anathema, colui che li ha
traghettati dal doom-death metal degli esordi ad album come “Eternity” e
(appunto) “Alternative 4”, opere decisive che hanno
costituito delle tappe fondamentali per gli sviluppi futuri della band, oggi
approdata felicemente ai lidi di un raffinato ed elegante rock progressivo. Patterson
è anche colui che, una volta fuoriuscito dagli Anathema, è ripartito da zero,
ha raccolto le energie e ha fondato un’altra grande band: quegli Antimatter
che, dopo tre brillanti album, lo vedranno nuovamente uscire per ricostruirsi
altrove. Considerata anche la breve parentesi degli Ion (progetto di
musica folk irlandese), gli Alternative 4 sono stati la quarta
incarnazione artistica di Patterson (che potremmo definire un vero consulente-curatore
di start-up): un percorso, il suo, originato dal metal estremo e
pervenuto, nel corso degli anni, ad una forma sofisticata di musica autoriale caratterizzata
da umori dark e tenui venature elettroniche. Insomma, non proprio una cosa da
tutti.
Qual è dunque il problema? Il
problema è che Patterson, in quanto animale solitario e non di branco, non
comunicando con l’esterno e quindi non recependone gli stimoli, ha finito per impantanarsi
in un circolo vizioso ed autoreferenziale che lo ha condotto alla stagnazione delle
sue energie vitali. Quasi venti anni fa Patterson ascoltava i Pink Floyd
ed era determinato nel convogliare le istanze metalliche della sua band verso traguardi
che assomigliassero in qualche modo a quello spazio musicale che sta fra
“Wish You Were Here” e “The Final Cut”, passando ovviamente per l’imprescindibile
“The Wall”. Oggi, lo ritroviamo nelle medesime condizioni. Solo che,
finché eri un metallaro, ti piacevano i Pink Floyd, disponevi di un chitarrista
fantasioso ed ispirato come Daniel Cavanagh e di un cantante espressivo
come Vincent Cavanagh, passavi per un genio. Oggi, con tutta l’acqua che
è passata sotto ai ponti, un giudizio del genere deve essere giocoforza
ridimensionato. Dov’è che ti sei arenato, Duncan? Non ti riesce più copiarla
“Hey You”?
Il fatto è che per tutta la
sua carriera Patterson ha guardato a quella canzone dei Pink Floyd e proprio quella
canzone, e non altre, egli ha scelto per esprimere la sua visione artistica:
quel modo di cantare, quegli sconsolanti ed ipnotici arpeggi di chitarra, quei
gelidi synth, quella sensazione di solitudine, di isolamento, quelle
ambientazioni grigie da squallido appartamento in disordine dove fumare
sigarette ed alcolizzarsi fino al decesso.
La minestra è sempre la
stessa anche per gli Alternative 4 (e come poteva essere altrimenti,
visto che il monicker stesso della nuova band è auto-citazionismo allo
stato puro?). Essi giungono con questo “The Obscurants” alla seconda
prova (avevano esordito nel 2011 con l’album “The Brink”).
L’impressione però è che da un lato Patterson sia stanco, molto stanco;
dall’altro che, immutata la formula, non vi siano musicisti in grado di
rinvigorirla, che non vi sia un chitarrista (ah, il mio buon vecchio Daniel
Cavanagh!), né un cantante (un Vincent Cavanagh, o anche un Mick
Moss, che, con la sua bella timbrica à la Eddie Vedder, negli Antimatter
era stato un indispensabile collega).
Cosa rimane dunque? Rimane
Duncan Patterson e il suo basso, Patterson e il suo pianoforte
suonato in modo elementare, Patterson e le sue chitarre ininfluenti,
Patterson e i suoi tappeti di sintetizzatori in stile “Welcome to the
Machine”, Patterson e le sue basi elettroniche. Vi fosse stato
almeno Alan Parson alla regia, forse qualcosa di buono sarebbe uscito,
ma con il deus ex machina già fiacco di suo, solo, solissimo, senza abili
comprimari, il risultato non può che generare delle perplessità anche nel fan
più comprensivo.
A tal proposito, vorrei
spezzare una lancia a favore del nuovo cantante/chitarrista Simon Flatley,
da più parti dileggiato ed osteggiato in quanto giudicato piatto ed
inespressivo. Con la sua timbrica pacata e sorniona, da Gilmour
invecchiato bene, riesce invece secondo me ad amalgamarsi efficacemente al
tessuto sonoro allestito da Patterson. E se infine io quest’album l’ho abbastanza
gradito, è anche grazie alla sua voce. Completa la formazione il batterista Mauro
Frison che, come avrete intuito, non è l’uomo che cambia le sorti del
progetto: i suoi sono interventi didascalici e sporadici, laddove la musica di
Patterson sa fare spesso a meno delle ritmiche e qua e là contempla persino
l’utilizzo di pattern elettronici.
Ma soprattutto: perché
inserire un album del 2014 all’interno della rubrica “album dimenticati”?
Ma perché “The Obscurants” è destinato all’oblio (lo suggerirà il titolo
stesso?) già dal giorno dopo che è uscito. Niente contro Patterson, che
nonostante tutto continuo a supportare, ma sinceramente, mi chiedo, dove
pensa di andare? A chi pensa di piacere (tolta ovviamente gente come me che non
ha più senso di esistere nel mercato discografico)?
Duncan: non hai più un tuo
pubblico…
Duncan: il metallaro non li ascolta
più i Pink Floyd, questa storia poteva andare bene quindici/dieci anni fa, ma per
i ventenni di oggi i Pink Floyd sono superati, vecchi, noiosi, deprimenti…
Duncan: perché non inizi ad
ascoltare qualcos’altro? Non ti si è ancora consumato il vinile di “The Wall”?
Magari trovi qualche spunto nuovo…
Duncan, lo so, non è colpa
tua, tu non c’entri, perché tu non potresti essere o fare altrimenti. E’ come
chiedere a mia nonna di cucinarmi il sushi…L’ascolto di “The Obscurants”,
dunque, finisce per essere un mix di compresione/incomprensione, di tenerezza
e disappunto.
Tenerezza perché non può che
fare tenerezza una “Paracosm” con i suoi undici minuti di “niente” che
si trascina avanti zoppicando fra giri consunti di pianoforte e solenni
rintocchi di basso (Patterson allo stato puro!). Oppure una “Dina” (che
potrebbe benissimo essere anche una Vera Lynn): un seducente dark-ballad
che continua disperatamente/piacevolmente a scimmiottare la solita “Hey You”. Cosa
che del resto fanno le buone “Lifeline” e “The Tragedy Shield”,
che perseverano sulle medesime coordinate di voce languida/pianoforte da terza
elementare/chitarra da seconda media/denso basso ad arrotondare il tutto.
Disappunto perché francamente
l’inutile introduzione “Theme for the Obscurantist”, che poi non è altro
che il solito giro di pianoforte puerile che più puerile non si può, fa venire
il latte alle ginocchia a partire dal terzo secondo e ti fa gridare: “No,
Patterson, dai, cazzo, non posso ritrovarti in queste condizioni comatose!”.
Oppure l’inutile coda della conclusiva “Closure”. Urge a questo punto una
doverosa parentesi su “Closure”: se si parla di un album fatto solo ed esclusivamente
di meste ballate in cui sostanzialmente non succede nulla, un brano “dark-wave”
à la Joy Division come “Closure”, animato da un’incalzante base
elettronica e da un ossessivo giro di tastiere, ci può stare, eccome se ci può
stare. Perché allora, quando il brano era già praticamente finito (ed era
perfetto così!), ti accanisci in sala di rianimazione per resuscitarlo fuori
tempo massimo e dilatarlo con una superflua coda semi-strumentale che ti fa
venir voglia di gettar lo stereo dalla finestra? Avevi, Patterson, i
sensi di colpa perché in tutto l’album non avevi citato nemmeno una volta “Shine
on you Crazy Diamond”? Ma se proprio devi saccheggiare i Pink Floyd più
sontuosi e pomposi, allora per piacere non farlo con una tastiera Bontempi ed
una puttana stitica al canto etereo/liberatorio, che mia nonna avrebbe fatto
meglio!
“The Obscurants”, pertanto, è un album
fatto per essere dimenticato, non perché necessariamente pessimo (anche se
a tratti lo sa essere), ma perché inutile nella sua vocazione di ripercorrere
stancamente stilemi già abusati e venuti fondamentalmente a noia, senza per
altro dire nulla di nuovo o di vagamente diverso. L’album può regalare momenti
piacevoli, questo lo posso concedere, ma solo se si è dei fan alquanto
fanatici e malconci di Anathema e di Antimatter. Gli stessi
estimatori dei Pink Floyd potrebbero sbadigliare in più di una circostanza…