6 dic 2015

HELLOWEEN: "KEEPER OF THE SEVEN KEYS"


I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL CLASSICO

2° CLASSIFICATO: “KEEPER OF THE SEVEN KEYS” (HELLOWEEN)

I frutti da noi raccolti lungo la scalata verso la vetta dei migliori brani lunghi del metal si fanno prevedibili e scontati, ma a certi livelli non lo si può che essere: la “Keeper of the Seven Keys” delle nostre simpatiche Zucche, dall’alto della sua durata di 13 minuti e 38 secondi, non solo è una delle migliori composizioni di estesa durata che il metal ha saputo partorire nella sua lunga storia, ma è anche uno dei migliori momenti vissuti dal metal in generale...


Essa diverrà la quintessenza del brano lungo nel power metal, venendo a costituire l’idealtipo a cui ambiranno in molti, Stratovarius e Tobias Sammet’s Avantasia in testa (si guardi rispettivamente ad una “Visions (Southern Cross)” per quanto riguarda i primi, e ad una “The Seven Angels” per quanto riguarda i secondi).


Scindere fra canoni classici del power metal e Helloween è del resto difficile: tutto o quasi ha avuto origine da quell’incredibile triade che furono “Walls of “Jericho” (1985) e la leggendaria accoppiata “Keeper of the Seven Keys – part I” (1987) e “Keeper of the Seven Keys – part II” (1988), i quali, presi insieme, compongono i tre tomi del Vecchio Testamento del Power Metal. Almeno per quanto riguarda quel power metal melodico che poi fu ironicamente definito Happy Metal per distinguerlo da quello più ruvido e granitico di colleghi teutonici quali Running Wild e Grave Digger. In quei tre album gli Helloween delineavano con grande chiarezza di intenti i Nuovi Stilemi del Metal Classico, destinati successivamente a divenire standard: cliché stilistici (voci da eunuco, cori da osteria, refrain ultra-melodici, doppia cassa imperante ecc.) che diverranno i tratti distintivi di un vero e proprio movimento che nel corso degli anni novanta avrebbe costituito un fronte di rinascita per il metal dopo gli sbandamenti di inizio decade.

Il sound dei primi Helloween derivava chiaramente dagli insegnamenti di Judas Priest ed Iron Maiden, ed in particolare dall’approccio complesso con cui quest’ultimi avevano modellato il nascente verbo metal. Geniali fin dai primi due album, gli Irons sarebbero rimasti intrappolati nello status minoritario dei coevi Saxon, Angel Witch, Tank, Raven e Diamond Head, se non vi fosse stato, oltre ad una intelligente gestione manageriale della band da parte di Harris, l’ingresso di un cantante come Dickinson che con la sua versatilità vocale seppe supportare i compagni nella direzione di un sound più articolato e per certi aspetti progressivo, che si smarcava nettamente dalle influenze punk/hard-rock che avevano caratterizzato lo sviluppo della N.W.O.B.H.M. E proprio dall’heavy metal epico e sfaccettato dei Maiden, mischiato alla velocità dell’allora emergente speed-metal, e sotto l'ombra lunga dei connazionali Accept, la musica degli Helloween prenderà piede per svilupparsi ed affermarsi fin da subito in modo inconfondibile.

Quali erano i meriti dell’ensemble tedesco? Sicuramente una elevata preparazione tecnica, la quale riguardava tutti e cinque i musicisti. Poi sicuramente il songwriting fantasioso di due chitarristi creativi come Kay Hansen e Michael Weikath, penne ispirate capaci di scrivere con estrema disinvoltura melodie destinate a rimanere stampate in testa già al primo ascolto (cosa non di poco conto - e ve lo dice uno che il power metal non gli piace neppure). Dulcis in fundo, l’ingaggio di un cantante fenomenale come Michael Kiske, che a partire dal secondo full-lenght costituì la classica marcia in più. Sicuramente da annoverare fra i più illustri esponenti dello stile di canto del power metal (caratterizzato dal massiccio impiego di tonalità alte: il canto-stile-sirena-di-ambulanza, tanto per intenderci), egli in realtà si impose come un ottimo interprete che, pur guardando probabilmente alle gesta del grandissimo Geoff Tate (che aveva esordito qualche anno prima con i suoi Queensryche), seppe sviluppare una propria identità grazie ad una vastissima ampiezza vocale e ad un talento fuori dal comune nell’indovinare d’istinto il ritornello orecchiabile ma mai banale.

Mi scuso con i lettori se spesso mi perdo in lunghi preamboli sulla storia (nota) o sulle caratteristiche (note) di un gruppo (noto), ma questo è un approccio che mi torna utile per descrivere un brano quando esso non comporta un’eccezione nel modus operandi di una band, ma anzi ne esprime l’apoteosi. “Keeper of the Seven Keys” non è un esperimento anomalo per gli Helloween, i quali non stravolgono la loro metodologia, ma semplicemente la applicano ad una dimensione più estesa, di lunghezza doppia o anche tripla rispetto al loro format tipico.

C’è da dire inoltre che i Nostri non erano nuovi alla soluzione del brano di ampio minutaggio: in “Keeper of the Seven Keys – part I”, infatti, si siamo imbattuti in “Halloween” (13:18), anch’essa mirabile nelle sue imprevedibili evoluzioni. Tuttavia preferiamo eleggere la “Keeper of the Seven Keys” che spadroneggia nel lato b della seconda parte della “saga”. Perché?

Anzitutto per la tematica affrontata. Contrariamente al testo della citata “Halloween”, che come suggerisce il titolo verteva su atmosfere da “notte delle streghe”, quello di “Keeper of the Seven Keys” mette in campo quell’immaginario fantasy che è tipico per il genere. Al centro di tutto vi è la figura del mitico Custode delle Sette Chiavi, sorta di “eletto” a cui viene affidato il compito di salvare il mondo. Si tratta di un “conferimento di incarico” con il quale al nostro eroe viene richiesto di abbandonare la quiete di un'ordinaria esistenza per “armarsi” ed affrontare le forze oscure del male. Seguirà dunque una sequela di cliché (demoni, nani, profeti, incantesimi, prove da superare ecc.), fino all’inevitabile happy ending. Che dire: un testo un po' banalotto che ci parla della sempiterna lotta fra Bene e Male, ma senza mai scendere in dettagli intriganti, né divenire veramente avvincente, se non nel ricreare un senso di “comunione” con l’ascoltatore (a cui maliziosamente si strizza l’occhio per tutto il tempo, dato che il testo è scritto in seconda persona e questo escamotage potrebbe innescare un processo di identificazione dell’ascoltatore stesso con il Custode delle Sette Chiavi). Senso di comunione che peraltro finisce per assomigliare a quella mitica “fratellanza” a cui il metal inneggia da sempre.

Come viene reso musicalmente tutto questo? Intanto c’è da dire che il pezzo è scritto da Weikath e non da Hansen, comunemente considerato il genio artistico della formazione, vuoi per la fase di disorientamento che la band visse appena dopo il suo abbandono, vuoi per le ottime cose combinate successivamente con i Gamma Ray. E' invece opportuno ricordare che Weikath era già all’epoca una testa pensante negli Helloween e che portano la sua firma classici del calibro di “Eagle Fly Free” e “Dr Stein”. Ma “Keeper of the Seven Keys” non è solo Weikath, bensì il prodotto di un ensemble affiatato che vedeva tutti i suoi componenti ingaggiati con passione nella buona riuscita dell'impresa.

Se ho intitolato questo post “Verso la perfezione” è proprio perché siamo di fronte ad un metal al top della sua forma: una perfezione classica, plastica, figlia di un equilibrio in cui tutte le componenti si bilanciano e sono collocate nel punto giusto.

Il brano esordisce con un bell’arpeggio che ricorda i Led Zeppelin più bucolici (quelli di “Stairway to Heaven” o di “Babe I’m gonna Leave You”: riferimenti che una band heavy metal classica non può non ospitare all'interno del proprio DNA). Kiske, dal canto suo, sfoggia circospette tonalità basse molto à-la Tate: una quieta introduzione che viene assalita presto dalla solenne esplosione delle chitarre, squarciate a loro volta dagli acuti inarrivabili del cantante.

Nei minuti seguenti il brano si sviluppa con un susseguirsi serrato di strofe e bridge, dinamica che palesa una maggiore complessità nello svolgimento del discorso, pur in un contesto di schema-canzone. Molti sono i meriti di una sezione ritmica impeccabile composta da un dinamicissimo e coinvolgente Ingo Schwichtenberg dietro alle pelli e da un solido Markus Grosskopf alle quattro corde. Il resto è affidato alle sapienti mani di Hansen e Weikath, che si intrecciano in fraseggi melodici come solamente loro sanno fare. Gli Helloween si pongono alle nostre orecchie come un’orchestra perfettamente affiatata, figlia di una sinergia che fiorisce definitivamente in uno dei ritornelli più plateali di sempre: un momento “da accendini” (o dovremmo dire da cellulari?) in cui le chitarre si aprono, i cori vi si spalmano sopra e le ritmiche riprendono fiato e scaricano la tensione accumulata fino a quel momento, con ovviamente un Kiske elegante e misurato a fare da protagonista.

La parte centrale (ben sette minuti!) è invece un avvincente susseguirsi di ambientazioni: this is not prog-metal, bensì metal dinamico, tosto e suonato come si deve! Parti speed, epiche cavalcate, rallentamenti densi di pathos, ripartenze con il pepe al culo: la sezione ritmica fa miracoli nello spianare di volta il volta il terreno ad un Kiske in stato di grazia, le cui vocalità si integrano perfettamente all’evolversi strumentale del brano. Il tutto illuminato dall’estro di un duo chitarristico con l’argento vivo addosso: riff intricati, soli che si inseguono, si agguantano e si dividono nuovamente in un tour de force imprevedibile quanto ponderato (beh, si parla pur sempre di teteschi di cemmania, che pur nella frenetica rincorsa ci tengono a riporre ogni tassello al posto giusto). Nel mezzo troviamo anche un interludio acustico impreziosito da raffinatissimi assolo che condensano tutta la classe del duo Hansen/Weikath, veri padroni della scena.

Da copione, invece, la chiusura: le ritmiche serrate collassano finalmente nell’ennesimo slow-motion solcato da un epico recitato che tanto odora di anticamera dell’epilogo. Ed infatti è solo la premessa per il ritorno in pompa magna del ritornello, che giunge appena in tempo sortendo un benefico effetto liberatorio. Il commiato è dunque affidato all’arpeggio iniziale che conferisce unità tematica all'intera composizione.

E' sempre noioso stare a descrivere la musica, ma era mia premura sottolineare i punti di forza del brano, che sarebbero:
1) una struttura perfettamente bilanciata nelle sue parti;
2) una scrittura superlativa che si traduce in linee melodiche e vocali azzeccate ed un ritornello a dir poco leggendario;
3) tonicità “fisica” ed interpretativa dei musicisti, che per giunta godono di una fortissima coesione.

Questi tre elementi messi insieme (e raramente riscontrabili contemporaneamente) fanno sì che “Keeper of the Seven Keys” possa guadagnarsi, per meriti sia formali che sostanziali, lo status di “brano perfetto”. Lasciamo dunque le Zucche al secondo posto della classifica e procediamo verso l'ovvia conclusione del nostro viaggio…