10 feb 2016

KATATONIA: "BRAVE" vs OPETH: "ADVENT"




I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL ESTREMO

3° CLASSIFICATI EX AEQUO: “BRAVE” (KATATONIA) e “ADVENT” (OPETH)

Li abbiamo già incontrati entrambi: gli Opeth che stracciavano i Katatonia in tema di “Nuovo Metal”; i Katatonia a trionfare impietosamente sugli Opeth nella nostra rassegna dedicata ai migliori album non-metal realizzati da band metal
 

Per quanto riguarda la classifica dei migliori brani lunghi, abbiamo dunque deciso di fare giustizia e metterli gli uni accanto agli altri, riconoscendo ad entrambi l’ambizioso terzo posto: un po’ per tributare la pari grandezza di queste due importanti entità del metal estremo; un po’ per ricordarci che in fin dei conti non vi fu mai vera rivalità fra due band che hanno condiviso la “culla”. Non solo perché germogliate dalla stessa terra (la Svezia) ed entro i confini del medesimo contesto culturale (quello della prima metà degli anni novanta), ma anche perché cresciute a braccetto sotto l’egida di un unico mentore: il grande Dan Swano (produttore di grido, nonché leader degli Edge of Sanity), la cui mentalità aperta e la sensibilità progressiva furono certamente di ispirazione per le due formazioni.

La scelta dei brani avviene dunque in un’ottica quasi speculare: abbiamo infatti optato per le rispettive opener (“Brave” e “Advent”) di due album (“Brave Murder Day” e “Morningrise”) usciti nello stesso anno (il 1996). Due opere seconde che segnarono la maturità per due giovani band che per l’occasione, oltre che il produttore, condividevano anche il cantante: i Katatonia, infatti, dopo che Jonas Renkse ebbe deciso di dedicarsi esclusivamente a vocalità pulite, necessitando essi di uno screamer, ricorsero al buon Mikael Akerfeldt, che certo non si tirò indietro innanzi alla possibilità di dare una mano ai colleghi.

Capitolo I: Katatonia, “Brave”

Brave Murder Day” comportò un notevole salto di qualità per i Katatonia, che venivano dall’acerbo debutto “Dance of December Souls”. Gli svedesi si presentavano dunque al loro secondo appuntamento discografico in forma smagliante, asciutti, focalizzati, pronti a consegnare al mondo il loro capolavoro, almeno per quanto riguarda la prima fase artistica. Pochi riff ma ben pensati, una batteria dall’incedere ossessivo, vocalità efferate volte ad esprimere un’angoscia esistenziale che pochi altri sapevano trasmettere con tanta credibilità. L’album più che altro brillava per un’attitudine melodica straordinaria, frutto senz'altro dell’affiatamento fra i due chitarristi, Anders Nystrom, fondatore della band e compositore principale, e il compare Fredrik Norrman, non da meno quanto a capacità di descrivere scenari di incomparabile decadenza.

L’album si apriva con "Brave", un brano di dieci minuti e sedici secondi: scelta coraggiosa, se si pensa che la musica dei Nostri non è certo un’esplosione di energia e di colpi di scena! E’ il “batterismo” essenziale e reiterativo di Renkse, settato ostinatamente su perenni tempi medi, a zavorrare ulteriormente una proposta che probabilmente, in un'ottica più fruibile, guardava al minimalismo burzumiano.

Per descrivere “Brave” non occorrono dunque voli pindarici: essa si compone di tre/quattro sezioni che si dispongono in ferrea sequenza, presentando più o meno le stesse caratteristiche. Ogni volta sono le chitarre ad aprire le danze, presto raggiunte dalla batteria metronomica. C’è forse del post-punk nella sensibilità dei Katatonia (e questo lo vedremo con maggiore evidenza nel prosieguo del loro cammino artistico), i quali conservano la loro natura ibrida a metà strada fra black metal (per i riff circolari, per la loro ossessiva ripetizione) e gothic/doom (per l’alto tasso di melodia e i continui rimandi ad un album come “Gothic” dei Paradise Lost, a detta degli autori, una fondamentale fonte di ispirazione).

Brave” è la dimostrazione che se si è ispirati non c’è bisogno di fare i salti mortali per reggere dieci giri di orologio. Lo si capisce dalla partenza del brano, che attacca senza troppo indugi: dieci secondi di feedback di chitarra ed uno di quei riff che nel metal estremo faranno la Storia.  Il growl sofferente di Akerfeldt è il compendio perfetto ai soffocanti scenari tratteggiati dal trio: il leader degli Opeth si cala perfettamente nella parte, scandendo con calcolata desolazione i versi poveri di Renkse, votati alla descrizione di una insensata e disperata quotidianità.

Un rallentamento improvviso e bum!, si riparte: un ipnotico assolo di tapping e tutti dietro, chitarra ritmica, batteria e voce. Poco dopo il copione di ripeterà: altra pausa, altro giro, è la volta di un arpeggio distorto, ancora feedback, nuove linee di chitarra e ripartenza in pompa magna. E che brividi quando le parole “Whatever You Are…I Am Not” vengono ripetute con sofferenza prolungata da un Akerfeldt in stato di grazia!

Sembra che i musicisti, grazie ad una attenta ricerca, abbiano condensato la parte migliore delle loro idee, scongiurando il fantasma della dispersione che aveva infestato il debutto, pregiudicandone la buona riuscita. Con l’impiego del minimo delle risorse e disponendo di un bagaglio tecnico tutto sommato contenuto, i Katatonia fanno leva sull’ispirazione e sul rigore per confezionare uno dei brani più coinvolgenti del loro repertorio.

Discorso diametralmente opposto va invece fatto per gli Opeth, i quali sono tutto tranne che minimali.

Capitolo II: Opeth, “Advent”

Nella loro carriera gli svedesi hanno scritto praticamente solo brani lunghi, si pensi anche solamente al qui presente “Morningrise”, il quale si compone di cinque tracce per una durata complessiva di sessantasei minuti! Un album in cui tutti i brani superano i dieci minuti e che uno in particolare, “Black Rose Immortal”, ne conta addirittura venti! Per questo motivo gli Opeth non potevano non essere interpellati: nel loro repertorio la composizione di elevata durata è praticamente la regola. E gli ottimi esempi si sprecano.

Solo da “Still Life” e “Blackwater Park” (i lavori della maturità) potevano essere scelte le bellissime “The Moor” e “White Cluster”, per quanto riguarda il primo, e “The Leper Affinity” e “The Drapery Falls”, per quanto riguarda il secondo: tutti brani in cui death metal e partiture progressive, brutalità e dolcezza, elettricità e dimensione acustica, growl e voci pulite convivono alla grande.

Ma anche i lavori successivi non scherzano: “Wreath” e “Deliverance” (da “Deliverance”), “Ghost of Perdition”, “Reverie/Harlequin Forest” e “The Grand Conjuration” (da “Ghost Reveries”),  Hessian  Peel” (da “Watershed”) costituiranno le tappe di un percorso di perfezionamento che testimonierà da un lato l'affermarsi in maniera sempre più preponderante del carisma di Akerfeldt, e dall’altro il consolidarsi dell’alchimia del collettivo che gli sta dietro. Solo con il tempo, tuttavia, le composizioni degli Opeth diverranno autenticamente progressive, sospinte da un accresciuto bagaglio tecnico, arrangiamenti sempre più raffinati e produzioni certosine. Ma in principio, per quanto lunghi e tortuosi, i brani risultavano più frammentati e disorientanti.

Ai tempi di “Morningrise” il songwriting risentiva ancora del fatto che Akerfeldt, lavorando in un negozio di strumenti musicali, impiegasse i ritagli di tempo per comporre materiale: una svalanga di brandelli che poi sarebbero stati ricomposti in studio. Le composizioni, per via di questo modus operandi, procedevano per accumulo, senza che vi fosse una visione d'insieme, o ritornelli che si ripetessero, o schemi dove i temi ritornassero e/o venissero ripresi variati, come esige la migliore tradizione progressive. Sembrava piuttosto che lo sforzo dei Nostri, affezionati al passaggio più insignificante e dunque incapaci di cestinarlo, consistesse principalmente nel trovare il modo giusto per legare tutto insieme. E il tutto, beninteso, funzionava.

Da un punto di vista degli umori, vi era quel sapore di band svedese illuminata che si respirava nella metà degli anni novanta: il death progressivo degli Edge of Sanity costituiva certamente un modello da seguire, ma si facevano sentire anche gli influssi di quel melodic death metal portato alla ribalta dai conterranei In Flames e Dark Tranquillity proprio in quegli anni. Le influenze seventies (destinate in futuro a prevalere) non occupavano ancora grandi spazi.

Gli Opeth ne faranno di passi in avanti, ma “Advent”, super classico della prima ora, brilla di una verve tutta sua che lo pone ancora oggi fra i momenti più coinvolgenti dell’intera produzione artistica della band. Tredici minuti e quarantasei secondi è la sua durata e di certo descrivere le sue movenze non sarà semplice. Appena qualche istante di chitarra acustica ed ecco l’avvento dell’elettricità. Ad aprire le danze sono un bel riffone baldanzoso e doppia cassa a tutta birra: da quel momento i cambi di tempo e le ambientazioni si susseguiranno in modo mirabolante, lasciando ben poco spazio alla noia. Inutile stare a perdersi nei dettagli: basti solo dire che le due asce (Akerfeldt e Peter Lindgren) si muovono in perfetta simbiosi, non lasciando la possibilità all’ascoltatore di capire quale sia la mano trainante e quale quella di supporto.

Anders Nordin, dietro alle pelli, assicura il giusto dinamismo, senza mai strafare quanto a tecnicismi e velocità. Una menzione a parte la merita il primo bassista della band Johan DeFarfalla, il quale faceva del suo strumento (un bombatissimo fretless bass) un uso a dir poco personale, palesando una volontà, quasi patologica, di emergere in ogni singolo passaggio. Di sicuro non gli mancava la fantasia, ma io non l’ho mai potuto sopportare, e fui realmente sollevato quando in seguito fu sostituito da un più sobrio Martin Mendez. L’interpretazione sopra le righe di DeFarfalla esprimeva comunque un’attitudine condivisa dai colleghi, impegnati a dare il meglio in ogni frangente

Il growl portentoso di Akerfeldt è già un trademark inconfondibile per la band e copre quasi tutti gli “spazi” vocali richiesti dal lungo testo (tipica gothic-novel a sfondo amoroso/luttuoso à la Akerfeldt). Segnaliamo con piacere un paio di interventi di voce pulita (già verniciata dalla bellissima timbrica del cantante), cosa estremamente gradita, sebbene le quote di questi inserti rimanessero ancora fortemente minoritarie.

Sopravvive, in questo fiume in piena, quella propensione al folk “boschivo” che era di gran moda verso la metà degli anni novanta fra le band scandinave. Cosa che peraltro conferisce un discreto fascino all’operazione: nella potenza, gli Opeth non rinunciano all’atmosfera, battendo una via personale, un mood intimo e malinconico che è in grado di schivare i cliché più classicamente gothic. Forse, con il senno di poi, potremmo pensare che Akerfeldt già operasse con in testa tutto quel sottosuolo di oscure band prog/rock degli anni sessanta e settanta (fra cui quei Comus che egli stesso in anni recenti spingerà alla reunion e riporterà alla ribalta come produttore), ma all’epoca era più lecito pensare che i Nostri risentissero dell’influenza dei vicini norvegesi (chi ha detto Ulver?).

Certo l’ascoltatore potrà rimanere disorientato innanzi a cotanto riversar di note, ma la forza degli Opeth, prima che divenissero una cover band degli Emerson, Lake & Palmer, risiedeva nel far coincidere quantità e qualità: impresa non facile se si pensa all’alto minutaggio sistematicamente raggiunto dalla band.  

A voi dunque l’ardua sentenza: meglio il minimalismo ispirato dei Katatonia o la tracotanza/incontinenza compositiva degli Opeth? Per quanto ci riguarda, tale è la bontà dei frutti di questi opposti approcci, che sinceramente non ce la sentiamo di preferire gli uni agli altri…

Per questa volta, e solo per questa: promossi entrambi!

Oppure no? (to be continued...)