29 ott 2016

FRA ORTODOSSIA E INNOVAZIONE: I DIECI ALBUM CHE "RESTAURARONO" IL METAL




Se nella nostra classifica dei migliori album metal di sempre abbiamo pescato per lo più dalla decade ottantiana, ciò non equivale ad affermare che gli anni novanta siano stati un decennio a corto di creatività. Lo abbiamo già visto nella lista dei dieci album che “sconvolsero” il metal, dieci album rigorosamente usciti negli anni novanta che, forti di un approccio "crossoveristico" ed aperto alla contaminazione, hanno saputo svecchiare il metallo, la cui esistenza era stata messa in discussione dal grunge e dalle "sonorità alternative" esplose ad inizio decade.

Eppure, sempre in quegli anni, c'era chi in parallelo cercava di far progredire il metal senza bisogno di ricorrere all'hardcore, al rap o all'elettronica, ma rigenerandosi attraverso le lezioni dei grandi classici. Ecco la nostra personale visione di questa straordinaria impresa che ebbe luogo nel corso degli anni novanta!

Dream Theater, "Images and Words" (7 luglio 1992)
Apriamo la nostra rassegna con i Dream Theater, che, insieme agli oramai defunti Pantera, sono stati gli ultimi fenomeni social-popolari del metal, gli unici oggi ancora in grado di riempire stadi e palazzetti con la sola forza del proprio nome. I cinque svilupparono in modo esasperante l'approccio già tentato dai maestri Rush (quello di unire metal e prog), elevando il virtuosismo a cifra stilistica: nel metal non sono mai mancati musicisti tecnicamente dotati, ma Petrucci, Portnoy, Moore e Myung sono il non plus ultra della tecnica votata al gusto ed alla composizione intelligente ("Pull Me Under", "Take the Time", "Metropolis", "Learning to Live", tutte dotate di esaltanti parti strumentali, sono quanto di più tecnico conoscesse il metal all'epoca). E con LaBrie (qui al suo primo appuntamento in studio con i DT) trovano un interprete credibile dalla voce versatile e singolare, capace di caratterizzarli fra mille altri nel mare vasto del metal. La "rivoluzione gentile" dei DT, fra Genesis, Yes, Kansas e Metallica, si farà largo in maniera subdola, ma inesorabile: quei funambolismi che fecero tanto scalpore diverranno dei cliché in un metal dalle vedute sempre più ampie. E se oggi il neo-progressive è uno dei filoni più quotati, lo si deve anche a loro, a quasi venticinque anni dall'uscita di "Images and Words".

Mayhem, "De Mysteriis dom Sathanas" (24 maggio 1994)
Abbiamo appena visto come negli anni novanta il prog-metal sia cresciuto rigoglioso, affermandosi come genere a sé stante. A dimostrazione della fecondità artistica di quel periodo e del suo carattere disomogeneo e contraddittorio è doveroso precisare che gli anni novanta sono stati testimoni anche dell’ascesa di quel genere che costituisce la perfetta antitesi del prog: il black metal. Genere minimale e nichilista per eccellenza, così per lo meno come usciva dalle cantine norvegesi, esso intendeva superare i limiti del metal estremo (thrash, death), ma finì con il codificare un nuovo linguaggio, forse l'ultimo autentico linguaggio forgiato nella fucina del metallo. Riff inediti che evocavano il gelo scandinavo, velocità che polverizzavano la batteria, voci disarticolate, suoni confusi e produzione scarna. L'apoteosi di tutto questo è "De Mysteriis dom Sathanas" dei Mayhem, veri iniziatori del genere. In questo album postumo, uscito dopo la morte di Euronymous (ma con idee risalenti almeno a quattro anni prima!) vi è un lascito che verrà preso a modello da una miriade di band negli anni a venire, ma che non verrà mai eguagliato quanto ad intensità ed ispirazione: perché nessuno sa suonare la batteria come Hellhammer, nessuno ha l'ugola marcia quanto Attila Csihar, nessuno possiede la fantasia compositiva di Euronymous. E brani come "Funeral Fog", "Freezing Moon", "Cursed in Eternity", Pagan Fears", "Life Eternal" e la stessa title-track sono inni immortali del black metal che potevano essere scritti solo dai (True) Mayhem.

Death, "Symbolic" (21 marzo 1995)
Il death metal ha vissuto i suoi anni migliori in un breve periodo a cavallo delle due decadi: quando esce il sesto lavoro dei maestri Death, il genere ha perso le sue migliori energie, ma il genio artistico di Chuck Schuldiner continuerà persistente fino alla fine. Se il precedente "Individual Thought Patterns" è stato l'ultimo album propriamente death dei Death, "Symbolic" porta avanti una ricerca che trascenderà il genere per ricongiungersi con gli stilemi classici del metal, il tutto rielaborato dalla forte personalità di Schuldiner, che dei Death è chitarra (sempre più elaborate le sue ritmiche, più melodici gli assolo), voce (oramai un aspro screaming che poco ha a che fare con l'antico growl) e anima (sempre più raffinato il suo song-writing, profondi i suoi testi). Brani come la title-track, "Empty Words" e "Crystal Mountains" sono la brillante espressione di un metal che si rigenera dal metal stesso, incarnandone l'essenza ed al tempo stesso eludendo ogni possibile classificazione.

Blind Guardian, "Imaginations from the Other Side" (5 aprile 1995)
In anni in cui il groove-metal e il nu-metal imperversavano, e le brutture del mondo erano il tema prediletto di questa nuova ondata di band che gridavano la loro rabbia dall’altra parte dell’oceano, in Germania c'era gente che ancora venerava il metal classico e guardava in modo bambinesco al mondo fantasy. E' il caso dei Blind Guardian, musicisti sensazionali che sapranno rifondare il power metal su nuovi presupposti stilistici: il ruggito di Kursh ha poco a che spartire con le "sirene" del classico power metal teutonico, l'epicità di ritornelli e cori va ben oltre l'epic metal, gli inserti folk sono ben più che delle parentesi di pura suggestione, la complessità delle composizioni rifugge dal semplice formato canzone per farsi terreno mutevole e dissestato sotto i piedi del metallaro gaudente, guardando persino alla pomposità operistica dei Queen. Su queste fondamenta i quattro costruiranno una brillante carriera, ma il perfetto equilibrio fra la rozza genuinità degli esordi e le costruzioni artificiose della maturità lo troviamo proprio in questo gioiello che inanella pezzi epocali come la title-track, "A Past and Future Secret", "The Script for My Requiem", "Mordred's Song" e "Born in a Mourning Hall", ancora oggi riproposte orgogliosamente dal vivo.

Paradise Lost, "Draconian Times" (12 giugno 1995)
Come se non bastasse, gli anni novanta sono stati anche la decade del gothic metal. Il filone era stato avviato dagli stessi Paradise Lost con il seminale "Gothic", l'opera che prima di ogni altra aveva messo a punto una formula tanto semplice quanto efficace: un death rallentato e disperante che riscopre il doom sabbathiano, con un occhio rivolto alle atmosfere decadenti professate da certa darkwave di ottantiana memoria. Ma nello spazio di soli due album ("Shades of God" ed "Icon"), i cinque di Halifax si affrancano totalmente dalle sonorità estreme, per confezionare questo gioiello che si fregia da un lato degli intrecci chitarristici di Aaron Aedy e Greg Mackintosh (con il suo wah-wah torrenziale che farà storia) e dall'altro della voce pulita di un Nick Holmes in stato di grazia che accantona in toto il growl per avvicinarsi al timbro di James Hetfield. I brani si fanno più brevi, catchy e scorrevoli, del resto siamo negli anni del post "Black Album", quando ammorbidirsi era un trend: ma in questo caso il processo di allontanamento dal metal estremo coincide con una evoluzione melodica che detterà legge negli anni a venire (con brani come  "Enchantment" e "Hallowed Land" che prendono in prestito il pianoforte, "The Last Time" che scorre orecchiabile come una hit goth-rock da ballare in dance-floor e una straziante "Forever Failure", aperta dalle parole di Charles Manson).

In Flames, "The Jester Race" (20 febbraio 1996)
Più tradizionali di loro non c'è nessuno: l'idea degli In Flames è stata quella di unire al death metal gli stilemi del metal classico, influenza, questa, che è ben più presente rispetto ai colleghi At the Gates e Dark Tranquillity. La band di Anders Friden e Jesper Stromblad (in forza anche negli Hammerfall - ed è tutto dire!) ha incarnato più di tutti questa necessità di calore, quella voglia di revival che si aveva già a così pochi anni di distanza dalla fine dell'era gloriosa del metal. Idea semplice ma vincente: riproporre melodie tipicamente maidiane calandole in un contesto estremo. Qualcuno si indignerà e di rifiuterà di chiamare questa musica death metal (verrà tirata fuori ad hoc l'etichetta “melo-death”), ma per i più sarà difficile resistere all'appeal di brani scorrevoli e con melodie azzeccate come "Moonshield", "Lord Hypnos" e la stessa title-track, con quel pizzico di folk che il metallaro non ha mai disdegnato.

Cradle of Filth, "Dusk...and Her Embrace" (28 agosto 1996)
In ambito black si ebbe una tendenza analoga. I Cradle of Filth puntarono sul gotico e su un seducente immaginario vampiresco che fece subito presa. "The Principle of Evil Made Flesh", con le sue atmosfere romantiche, fu un fulmine a ciel sereno e l'EP "Vempire..." una straordinaria conferma, ma è con "Dusk...and her Embrace" che i Nostri toccano l'apice formale: composizioni tortuose ed imprevedibili, sontuose orchestrazioni, la performance teatrale (e i bei testi) del leader Dani Filth, ma soprattutto tanta tecnica e fantasia al servizio di un metal ancora estremo, ma che sapeva annettere nel proprio corpo elementi metal classici (dai Maiden agli Slayer - tanto che i Nostri descrissero il loro lavoro come un "Reign in Blood" in versione "colonna sonora da film horror", a dimostrazione di quanto rimanessero forti i legami con il metal della Vecchia Scuola, contrariamente a quanto teorizzato dai colleghi scandinavi), il tutto condito da lussuriose voci femminili. Verranno dai "puristi" visti come troppo "leggeri", ma la carne al fuoco è tanta e non a caso sono oggi da indicare fra i pionieri del fortunato filone del symphonic black metal. E brani come "Funeral in Carpathia", "Malice Through the Looking Glass" e la title-track sono merce davvero rara.

Stratovarius, "Visions" (26 aprile 1997)
Torniamo al power e lo facciamo con “Visions”, l'album-simbolo di questa seconda ondata di band che videro il massimo dello splendore verso la metà degli anni novanta. Certo, già con l'ottimo "Episode" i finlandesi guadagnarono la giusta visibilità, ma con questa opera della consacrazione supereranno le altissime aspettative, sfornando l'album giusto al momento giusto, destinato a divenire l’emblema di un'intera epoca. Dietro a tutto, il virtuoso Timo Tolkki, chitarrista extraordinaire che ebbe l'intuizione (e le qualità) per portare i neoclassicismi di Malmsteen nelle tipiche speed-song in stile Helloween. Ad aiutarlo niente meno che Jens Johansson (tastierista prodigio, già valida spalla di Malmsteen) e Jorg Michael (piovra umana scippata ai granitici Running Wild). A completare il quadro l'ugola cristallina di Timo Kotipelto, sulla scia del grande Kiske. Ma la faccenda non si limita ad un mero revival: ci sono ispirazione e linfa vitale. E classici come "The Kiss of Judas", "Black Diamond", "Legions", “Paradise" e la title-track (avvincente suite di dieci minuti) sono lì a dimostrarlo.

Therion, "Vovin" (4 maggio 1998)
La creatura del geniale Christofer Johnsson si era distinta fin dagli inizi per un approccio sperimentale che, sulla scia dei maestri dichiarati Celtic Frost, aveva condotto a lavori superlativi come "Lepaca Kliffoth" e "Theli", dove la componente death metal veniva erosa da agenti “estranei” quali musica classica, opera, suggestioni mediorientali ed occultismo, in un mix unico che farà proseliti. Con "Vovin", di sicuro meno sorprendente del suo predecessore, si mette ordine definitivo a questo stato di cose, con suoni limpidi, arrangiamenti elaborati ed affidando le parti vocali interamente a soprani e baritoni. Il growl viene definitivamente messo da parte e ci si fa dare una mano da Ralph Sheepers (Gammaray, Primal Fear), primo di una serie di vocalist power arruolati con sistematicità nei lavori successivi, a dimostrazione di come il metal classico rimanga centrale nella visione artistica degli svedesi. Il tutto però, rielaborato in modo estremamente personale, e brani come "Wine of Aluqa", “Clavicola Nox", “The Wild Hunt" e "Eye of Shiva", sospese fra ortodossia metallica ed atmosfere da sogno, non sono certo roba alla portata di tutti.

Nevermore, "Dreaming Neon Black" (26 gennaio 1999)
Se finora abbiamo assistito allo strapotere dell'Europa, non significa che dall'altra parte dell'oceano si abbia avuto a che fare solo con crossover e nu-metal: molti sono stati infatti i gruppi americani in grado di rileggere con inventiva la materia classica. Uno di questi sono stati i Nevermore, nati dalle ceneri dei Sanctuary, e già forti di un capolavoro come era stato "The Politics of Ecstasy" che riusciva a mettere in un unicum indistinguibile potenza thrash, epica power e le inquietudini sociologiche dei Queensryche. E proprio dai cinque di Seattle si riparte per il monumentale "Dreaming Neon Black", angosciante concept che ci consegna dei Nevermore più attenti all'atmosfera che all'impatto fisico (che certo non manca): al centro del palcoscenico ovviamente l'ugola versatile di Warrel Dane, diviso fra acuti à la Halford e languori tipici del Tate più riflessivo. Ma i suoi quattro compagni non scherzano, con il chitarrista Jeff Loomis in prima fila, fautore di un sound tanto potente quanto cupo, che prende in prestito persino qualche idea dall'amico Schuldiner.

Le band di cui abbiamo parlato oggi, come se niente fosse successo, hanno continuato a "creare metal", portando i capelli lunghi e vestendo giubbotti in pelle, non rinnegando il passato, ma anzi rifacendosi al metal nella sua forma più pura: quello dei vari Iron Maiden, Judas Priest, Helloween, Queensryche, Malmsteen, Metallica, Slayer, Celtic Frost. Forse queste opere hanno rappresentato gli ultimi flutti di una ispirazione esplosa agli albori del metallo e comprensibilmente affievolitasi con il trascorrere degli anni: come si è visto, gli anni zero tracceranno una brusca riga, dopo la quale prolifereranno le sonorità "post", che di classico conserveranno ben poco.

E’ la spietata selezione naturale, bellezza!