15 nov 2016

A NIGHT WITH...KILLING JOKE






In una ipotetica classifica dei dieci migliori album non metal che dovrebbero ascoltare anche i cultori del metallo, inseriremmo sicuramente il seminale album di debutto dei Killing Joke ("Killing Joke", appunto).

Dico seminale perché in quei nemmeno quaranta minuti si vengono a profilare con anni di anticipo almeno due generi nuovi per noi interessanti come l'industrial rock/metal e il thrash, senza contare le manciate di semi gettate su altri terreni, fra cui ovviamente la techno degli anni novanta.

Ecco, per descrivere il carattere seminale di quell'opera, basta pensare a quanto erano già "anni novanta" i Killing Joke nel lontano 1980. Ma per avere un'idea ancora più chiara di quanto il verbo dei Killing Joke sia stato importante per il rock e in particolare per il metal, basta andare su Wikipedia a leggersi la lunga lista di band che a loro si sono ispirati, fra cui spiccano i nomi di Nirvana, Nine Inch Nails, Primus, Metallica, Tool, Korn, Ministry, Prong e Napalm Death.

Non è un caso che di solito il metallaro medio viene a conoscenza dell'esistenza dei Killing Joke non direttamente ma grazie alla cover di "The Wait" rilasciata dai Metallica nel leggendario "The 5.98$ E.P.: Garage Days Re-Revisited", del 1987. Invero, la versione originale è decisamente migliore rispetto a quella dei Four Horsemen, della quale essi ci consegnano una visione sì più pesante, ma anche più lenta e con minore mordente, priva di quella verve che possiede l'originale.

Sebbene io sia fermamente convinto che il thrash metal abbia fatto la sua prima apparizione su questa terra nel 1975 con "Symptom of the Universe" (ma che grandi i Black Sabbath!), in "The Wait" possiamo trovare in embrione quello che sarà il fenomeno che verrà innescato successivamente da Metallica, Exodus, Slayer ed Anthrax.

Che poi, c'è da dire, la formula dei Nostri è semplice semplice: ritmi martellanti e riff secchi e duri di chitarra. Si potrebbe dire che i Killing Joke, radunabili ancora sotto la bandiera del post-punk di fine settanta (Joy Division, Gang of Four, primi Cure), anticipavano il thrash, non con la violenza, ma con l'intelligenza. Grazie anche a qualche incursione nell'avanguardia e all'attrazione per atmosfere oscure, tese, apocalittiche (in linea con quanto professato dai maestri Pere Ubu), essi finirono per tracciare un percorso parallelo a quello dei connazionali Motorhead, che invece ci davano di sudore, velocità e doppia-cassa.

Sul genio artistico di Geordie Walker c'è poco da aggiungere: il suo stile asciutto, privo di fronzoli e morbidezze blues, direttamente ereditato dal punk, è una fonte inesauribile di riff che cavalcano in modo ricorsivo i ritmi meccanici della batteria (lo chiameranno groove...un bel po' di anni dopo...).

Nei colpi implacabili di Paul Ferguson, nei tribalismi che rompono improvvisamente la linearità delle ritmiche, negli energici schiaffi ai piatti che trasmettono i giusti accenti senza stemperare la tensione, sono da rinvenire certi cliché del modo di suonare la batteria nel thrash metal (e, sempre rimanendo in tema di Metallica, io ci sento molto Lars Urlich).

Lungo questo asse si spianò dunque una strada che sarebbe stata poi percorsa da molti: un sound moderno ed inedito che trovava ulteriori peculiarità (come se non bastassero quelle già enunciate) nelle gesta dei due figuri che completavano la formazione originaria.

Da un lato il basso pulsante di Martin "Youth" Glover, destinato a divenire un guru negli ambienti techno-rave (ma guarda caso...), nonché produttore di grido che tutti, dai Verve ai Take That, passando per Orb e Pink Floyd, vorranno.

Dall'altro l'ugola al vetriolo del cantante (pure ai sintetizzatori) Jaz Coleman, sorta di nuovo angosciante Alice Cooper dell'era dell'alienazione post-industriale. Siamo dalle parti dei versi declamati in tipico stile post-punk: un range vocale, il suo, che va dall'urlo aizzatore al pulito che raggela i cuori, con quella propensione alla parola ripetuta che diviene giocoforza anthem. Un carisma ed una presenza scenica (leggendario l'inquietante make-up che spesso coinvolge i due occhi spiritati) che lo renderanno un'icona indiscussa del rock "alternativo".

Di recente mi è capitato di vederli dal vivo, e chi sostiene che oramai i Killing Joke siano un gruppo imbolsito sul palco si sbaglia di grosso. A partire dalla figura allucinante di Coleman, oscuro sacerdote che con pochi gesti e sguardi riesce a tenere in pugno folle deliranti. A dirla tutta il suo ingresso mi ha fatto lacrimare dalla contentezza: tripudio generale, urla, fischi, applausi, batteria, basso, chitarra a palla e poi lui, nero vestito (tenuta da Renato Zero dell'Oltretomba), fermo, immobile, quasi contrariato, non si capisce se per motivi coreografici o perché rallentato da decenni di vita da rocker.

Ma è soprattutto la Storia a parlare per chi sta sul palco. Il repertorio dei Nostri, alla fine, si compone di un'unica canzone riproposta in tutte le salse, che però, come nel caso degli AC/DC, funziona sempre: ritmo e riff, riff e ritmo, e pazienza se la voce di Coleman va e viene, l'importante è che egli sia sul palco ad ipnotizzarci con la sua presenza, tanto i ritornelli li canta il pubblico. Ed anche se le canzoni non si conoscono tutte, i ritornelli si imparano a memoria già dopo averli sentiti una sola volta.

Riascoltare "The Wait", che quest'anno compie trentasei anni, è sempre un'esperienza sconvolgente: il pogo esplode, si vedono persone che nuotano e rimbalzano sulla folla, non c'è rispetto per nessuno, nemmeno per le donne, tant'è che anche i più grossi e grezzi si indignano, respingendo con violenza i più violenti e scoordinati, che sembrano più casi umani che iper-fan dei Killing Joke. Beninteso si parla di tossici o di ex tossici sulla quaranticinquina. E poi quel ritmo e quel riff, tanto alla fine sempre là si va a cascare.

Nella sequela mozzafiato di ritmiche implacabili e riff vorticosi, si ha la conferma di quanto siano moderni ed attuali i Killing Joke, che, ripeto, potrebbero tranquillamente essere una band emersa negli anni novanta, se non fosse per le rughe sui volti dei componenti.

L'impressione generale, durante questa carrellata di classici che copre una carriera quasi quarantennale, è che costoro abbiano inventato la musica

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