26 nov 2016

AN EVENING OF SORCERY, DAMNATION & DELIVERANCE: 19/11/2016 - ANATHEMA & OPETH LIVE AT THE SSE ARENA, WEMBLEY LONDON




La Wembley Arena è un bell'auditorium di fianco al ben più noto stadio, teatro di concerti che hanno fatto epoca. Il palco è ampio: uno spreco di spazio se si pensa che gli artisti che si avvicineranno sulle "assi" non si possono definire proprio degli animali da palcoscenico.

Si parte con gli Anathema che anche stasera recitano la parte della "povera Cenerentola", visto l'ingrato ruolo di spalla con un set risicato di circa un'oretta suddivisa in soli sette brani. Personalmente parlando posso dire di aver pianto tutto il tempo, ma è anche vero che "sono di parte" essendo io da sempre un supporter incondizionato dei fratelli Cavanagh, mentre a molti non sembra interessare più di tanto quello che succede on stage. Tira infatti aria di distrazione: la gente arriva alla spicciolata, ridendo e sorseggiando birre come se in filodiffusione vi fosse musica d'ambiente. In particolare ho odiato una coppia di energumeni (non ho capito bene se fidanzati o padre e figlia) che ci hanno messo una vita a trovare posizione ed una volta sistemati si son messi a commentare ad alta voce i contenuti delle rispettive pagine Facebook sui cellulari. Fra un fattore distraente e l'altro cerco con tutta la mia forza di concentrarmi sull'esibizione.

La scaletta, si sa, pesca esclusivamente dal repertorio recente, privilegiando le ultime tre pubblicazioni e concedendosi un solo tuffo nel passato con l'immancabile "Fragile Dreams" (da "Alternative 4"). Inutile dirlo, il concerto è stato tanto breve quanto intenso, a mio avviso da pelle d'oca costante, con in prima fila Danny (a dividersi fra chitarra e piano/tastiere), Vincent (grande front-man) e Lee Douglas, oramai sempre più importante nell'economia del suono dei "nuovi" Anathema: sarà tutto suo il momento più suggestivo della serata, protagonista di una splendida e sentita interpretazione di "A Natural Disaster".

Il fatto è che i "ragazzi" non hanno solo la musica dalla loro parte, ma anche una dannata voglia di interagire con il pubblico e rendere memorabile lo spettacolo da essi offerto. E così con "A Simple Mistake" incitano a battere le mani, sfruttando uno dei brani più progressive del loro repertorio (si veda la "cavalcata porcupiana" nella seconda metà del pezzo); in "Distant Satellites" i beat elettronici prendono il sopravvento e il tutto si fa decisamente Radiohead, con Vincent nel finale a picchiare sul tamburo ad allargare a tre l'assetto dei percussionisti su questo brano; ad un certo punto i Nostri convinceranno addirittura l'intera platea ad accendere la luce del telefonino (un po' come una volta si faceva con gli accendini), creando, con l'aiuto dell'oscurità scesa in sala, un quadro a dir poco suggestivo. Menzione a parte merita "Untouchable part.1", divenuta un classico in tempi record e riproposta regolarmente dal vivo. Dolce all'inizio e travolgente poi, è un brano che ha un solo obiettivo: dare emozioni. E l'obiettivo viene pienamente raggiunto!

La scarsità di durata del set non si fa sentire, tanto l'architettura dello spettacolo è stata ben bilanciata nelle sue parti. Giusto per chiudere il cerchio: tutto era iniziato con "Thin Air" (sempre una goduria, con quel suo incedere teso ed incalzante destinato a sfociare nell'intenso finale) e tutto si è concluso con l'anticipazione di un brano inedito che verrà incluso nell’album che uscirà indicativamente in maggio 2017. Che dire a tal proposito: il percorso degli inglesi sembrerebbe proseguire verso sensuali territori depechemodiani, ma il terremotante crescendo in cui i Nostri letteralmente tirano giù il tetto dell'auditorium ci rassicura sul fatto che i fratelli Cavanagh non intendono ancora riporre le loro chitarre nelle custodie.

Bene, bravi, ma non siamo qua per loro. E' l'Opeth-event, che non equivale a dire che stiamo per assistere ad un normale concerto heavy metal. La popolazione è più variegata che mai, si va dallo sbarbatello di venti anni a signori brizzolati che sembravo reduci da altre epoche musicali: sono i fan acquisiti che gli Opeth si sono guadagnati grazie alle (ehm...) simpatie espresse negli ultimi tempi per il prog più smaccatamente settantiano. Una popolazione che accettiamo di buon grado e che nobilita l'ambiente nel suo complesso, brulicante ovviamente di truci" metallari, nerd con occhiali e capelli corti, e ragazze bellissime che esaltate si scattano selfie con la maglietta degli Opeth appena acquistata. Che le trombi tutte Akerfeldt? Questo non ci è dato saperlo, e in tutta sincerità non ce ne frega molto, il fatto è che l'atmosfera è decisamente particolare, resa ancora più particolare dalla musica diffusa nell'aere: una strana rotazione che vede convivere Celtic Frost, Black Widow e Tool, tanto che pare quasi di stare nel salotto di Akerfeldt. E poi tutte quelle "O" che ti passeggiano intorno sulle magliette e che sembrano rispondere segretamente alla stessa "O" stampata sulla cassa della batteria, lontano sul palco: e io mi rendo conto per la prima volta di quanto sia bello il logo degli Opeth.

Ma basta con i futili pensieri: le luci si spengono e dal silenzio emergono le note dei Popol Vuh a fare da introduzione e ad alzare il livello di spocchia della situazione. Irrompono le note iniziali di "Sorceress", con sul palco il solo Martin Mendez, spalleggiato da Joakim Svalberg e Martin Axenrot, rispettivamente a tastiere e batteria, che incombono dall'alto su un soppalco alle sue spalle. La platea accoglie la band con un caloroso applauso, ma la vera ovazione spetta di diritto al patron Akerfeldt, che entra tronfio come un tacchino godendosi il momento. Anche da questo dettaglio capisco il motivo per cui il Nostro ha scelto per il suo ultimo album un incipit a base di batteria/basso/tastiere: l'intento è chiaramente quello di valorizzare il suo ingresso, come chitarrista e come divo, sul palcoscenico.

"Sorceress" (il brano) rende alla grande, i suoni sono forti e chiari ed Akerfekdt sfoggia una bella voce pulita: di colpo mi ritrovo a cantare l'inutile ritornello e a mimare con le mani movenze di batteria e chitarra, sì, lo ammetto, come farebbe il peggior fan dei Dream Theater. Ma è solo una parata sfavillante, uno scenario di cartapesta che viene sgretolato dall’avvento di "Ghost of Perdition", che mostra la pasta dei "vecchi Opeth". E sì, "Ghost Reveries" è stato l'ultimo grande album degli svedesi, e son contento che questa sera sia stato tributato con ben due pezzi, questo e "The Grand Conjuration", altra mazzata infinita dai mille momenti emozionanti a cui verrà affidata la chiusura delle danze prima dei bis.

La staticità dei musicisti sul palco viene compensata da eccezionali giochi di luce e da una prestazione ineccepibile, con un dimesso Fredrik Akesson a dare continuo supporto alle sei corde a patron Akerfeldt, divisi entrambi fra chitarre elettriche e acustiche. Ognuno dei musicisti sul palco si ritaglierà i propri spazi (i solismi verranno evidenziati dai riflettori di volta in volta puntati sul virtuoso di turno), con in mezzo Akerfeldt a fungere da faro. Anche nei momenti in cui torna a fare la "voce grossa" il Nostro si difende assai bene, sfoggiando un growl profondo e corposo che non mi sarei più aspettato, sebbene sia un po' penalizzato dal mixer: del resto è ormai chiaro che la dimensione del pulito sia quella a lui più congeniale.

La discografia dei Nostri viene così percorsa in lungo e in largo con chicche come "Demon of the Fall" (devastante come sempre), "Face of Melinda" (momento di grande suggestione), "The Drapery Falls" (top emotivo della serata) ed una violentissima "Heir Apparent", scelta non scontata che ho apprezzato molto, in quanto ritengo quel brano il momento più tonico del "così così" "Watershed". Spiace constatare che un album come "Morningrise" non sia stato contemplato a questo giro, ma del resto i brani degli Opeth sono lunghi e tortuosi, e dunque non si può pretendere che vi sia spazio per tutto. Una assenza che viene comunque compensata dalla gradita mancanza di eccessivi estratti dalla discografia recente dei Nostri, rappresentata da una dignitosa "The Wilde Flowers" (sempre dall'ultimo album) e da una ben fatta "Cups of Eternity", che, nonostante rendesse molto bene, è stata da me sacrificata per andare al cesso a pisciare, visto che la quantità di birra iniziava a farsi sentire.

Si spengono le luci e rimane l'impressione che gli Opeth siano una grande band a cui però manca qualcosa, sospesa fra un passato estremo ed un presente prog che, paradossalmente, invece di integrarsi meglio, dal vivo fanno ferocemente a cazzotti. Spiegherei così il paradosso: da un lato la grandezza degli Opeth si esprime nei brani storici, i quali però soffrono un poco il fatto che la band chiamata ad eseguirli svolge il proprio lavoro un po' freddamente e in modo meccanico. E senza l'alchimia che c'era fra i musicisti che quei pezzi li avevano scritti. Del resto di quel magico periodo rimangono solo Akerfeldt e Mendez, che conta meno del due di picche (a proposito: ma quanto cazzo è basso???). Dall'altro lato, i brani più nuovi, che invece girano meglio stasera sul palco che su disco, sono penalizzati dalla fiacchezza compositiva che ha caratterizzato il cammino della band negli ultimi dieci anni.

Agli Opeth manca inoltre un front-man carismatico, perché Akarfeldt non lo è ed andrebbe ucciso per quello che combina fra un brano e l'altro, riuscendo nell'intento di interrompere quel flusso magico che la sua musica riesce a ricreare ogni volta. Al Nostro piace chiacchierare con il pubblico, peccato che dica cazzate che non sanno di niente. Eppure il pubblico pende dalle sue labbra e si sganascia dalle risate ad ogni sua battuta. E l'ego del Nostro non può che gonfiarsi in una maniera smisurata: "Come faccio ad essere umile?" si chiederà tronfio l'Akerfeldt innanzi all'ilarità suscitata da battute come "Adesso suoniamo una canzone di merda", oppure "Questa la riconoscerete perché assomiglia ai Morbid Angel", o anche "Calmatevi" (per sedare l'entusiasmo del pubblico festante) e persino "Io non so ballare...eccetto l'electric boogie…" (qui in effetti una mezza risata l'ha strappata anche a me, ma è vero che ero ubriaco e stonato dalla contentezza). Anche in questo caso ho una teoria: se come artista Akerfeldt non sa cestinare nulla di quello che gli passa per la testa (in fondo la formula-Opeth è un po' il frutto di questa sua logorrea), è inevitabile che nemmeno come uomo non riesca a fare a meno di dire tutte le cazzate che pensa (che palle dev'essere avere come padre o nonno Akerfeldt!).

Si esce dunque soddisfatti, ma senza l'impressione di aver visto il più grande gruppo metal esistente… no, aspettate, le luci si riaccendono, e quello che uno pensa sia il classico uno-due per i bis, si tramuta in un'intera sezione dedicata agli album-cugini "Damnation" e "Deliverance" (del resto, se la serata era stata battezzata "An evening of sorcery, damnation & deliverance" un motivo ci sarà stato, no?): cosa da me inaspettata e che mi dà una grande gioia, visto che fino a quel momento avevo un po' sofferto la prevedibilità della scaletta. Addirittura quattro saranno i brani estratti dal "tomo acustico", con in evidenza un'ottima "Windowpane" (fra le mie preferite del loro canzoniere) ed una coinvolgente "In My Time of Need" (dall'enfatico ritornello kingcrimsoniano). Si difendono bene anche una sempre gradita "Death Whispered a Lullaby" ("regalo" dell'amico Steven Wilson) e "Closure" (con la sua bella coda prog): qua le luci si fanno di un blu avvolgente, con sporadici fari rossi a creare contrasti psichedelici. A parere di chi scrive, la migliore fase della serata. Tre sono invece i pezzi chiamati a rappresentare "Deliverance" ("Master's Apprentice", "By the Pain I See in Others" e l'immancabile title-track), i quali costituiranno il solido sigillo apposto alla serata: forse la fatica nel governare a fine esibizione la complessità di questi brani mostruosi si inizia a far sentire, ed è comprensibile dopo più di due ore di concerto mica facile, però non si può negare che, nonostante le sbavature, "Deliverance" (il brano) rimane proprio una vagonata di belle idee...

Le luci si spengono nuovamente e questa volta è davvero la fine. Dopo l'inevitabile bagno di folla insieme al resto della band, Akerfeldt se ne va con passo da Celentano lanciando la chitarra ad un povero cristo della crew che si trova a diversi metri di distanza, dimostrando ancora una volta la sua idiozia. Viene spontaneo chiedersi: sarà mai quell'uomo all'altezza della sua musica?