22 nov 2016

RITRATTI D'AUTORE: DYLAN CARLSON




Come accennato nel report sul concerto dei Neurosis, ad aprire la serata abbiamo trovato il buon vecchio Dylan Carlson e i suoi Earth. Dato che il pezzo non era su di loro, abbiamo deciso di liquidare in poche righe la descrizione della loro esibizione, consapevoli però che ci saremmo rifatti con un post ad hoc. Perché mentre seguivo ipnotizzato i gesti lenti di quella smilza e grottesca figura (e qui mi cito: "Capello lungo ed inverosimilmente liscio (si sarà fatto la piastra?), barba crespa da tricheco, camicia attillata anni settanta, gesti plastici e ben scanditi come a volerci benedire con la chitarra, che si alza ed abbassa a tempo di musica"), mentre assistevo a tutto ciò, nella mia mente si formulavano pensieri che ho deciso di sistemare e mettere per iscritto.

Partiamo da un assunto di base. Carlson è “noto” per due cose: l'invenzione del drone-metal e l'essere stato amico e coinquilino di Kurt Cobain. A dirla tutta è stato anche colui che prestò al leader dei Nirvana il fucile con cui poco dopo si sarebbe tolto la vita. Beninteso, Carlson non è responsabile in nessun modo della morte di Cobain, il quale, ormai avviato lungo un cammino senza ritorno, avrebbe trovato altre modalità per compiere il gesto fatale. Non sappiamo nulla e francamente non ci interessa oggi intentare processi, però su un paio di punti possiamo esprimere delle riflessioni.

La prima è che perlomeno in quella circostanza, nonostante la buona fede, Carlson ha difettato in lucidità: il tuo migliore amico è depresso (e questo dovresti saperlo bene) e gli presti un'arma da fuoco?? Io ci avrei pensato due volte, ma quello che per noi può sembrare una leggerezza, evidentemente per Carlson è stata una cosa normale. Complice probabilmente il fatto che Carlson è figlio di un ufficiale militare, e per lui maneggiare armi, che sia per caccia o per difesa personale, dev’essere un atto di ordinaria quotidianità, come lavarsi il viso la mattina.

Un'altra riflessione, che si lega direttamente alla prima, è di natura artistica, ed è la dimensione che più ci interessa. Gli Earth sono nati prima del suicidio di Cobain e l'idea di esplorare territori estremi del rock era sicuramente nell'indole del Nostro, che indica fra le sue influenze principali compositori minimalisti come La Monte Young e Terry Riley, e band come Melvins, che peraltro rientravano nel bacino di interessi degli stessi Nirvana.

L'America dei primissimi anni novanta era in pieno fermento: si tornava alle sonorità ruvide degli anni settanta, raccogliendo le migliori energie del rock alternativo ed indipendente degli anni ottanta. Prima che si venisse a parlare di grunge, quel manipolo di band che poi ne diverranno il simbolo si muovevano in territori di confine fra hard-rock, punk, metal, indie-rock, noise e cantautorato à la Neil Young. E gli Earth erano sicuramente figli di questo periodo. Con la differenza che il genio autistico di Carlson, incurante del successo, era proiettato verso lidi avanguardistici. Basti pensare agli intenti manifestati scegliendo come monicker la parola “Earth”, che era stata il primo nome, poi scartato, dei Black Sabbath.

L’arte di Carlson, già nei propositi, si pone infatti come opera di riciclaggio di rifiuti, e non è un caso che le prime creazioni degli Earth assomigliassero ad un insieme di scarti, riff incompleti, abbozzi di canzoni di Iommi e soci, il tutto contornato da feedback e il ronzio di amplificatori imponenti (i celeberrimi Sunn) lasciati a friggere con gli strumenti accesi di fronte. Attenzione però, con un ordine ed un rigore marziale dovuti sicuramente all'educazione "militare" ricevuta.

La musica degli Earth, almeno agli inizi, era inascoltabile e verrà rivalutata solo in seguito grazie alla promozione fatta dai Sunn O))), che indicheranno Carlson fra i loro maestri (di fatto riproponendo paro paro quanto già contenuto in "Earth 2: Special Low-Frequency Version", del 1993, ma con qualche accortezza in più a livello di marketing che varrà il loro successo).

Poi c'è la morte di Cobain, qualche altro album uscito nel semi-anonimato e sei o sette anni di assoluto silenzio che verranno giustificati da Carlson con generici motivi legati a droga e a problemi con la Legge.

Quando gli Earth si riaffacceranno sul mercato discografico nel 2005, ormai come nome di culto pompato dall'ascesa dei discepoli Sunn O))), il loro sound sarà molto diverso. Dietro al minaccioso titolo "Hex (or Printing in the Infernal Method)” ed alla inquietante copertina (una fotografia ritraente, in un suggestivo bianco e nero, un lugubre edificio in legno sperduto nel deserto) troviamo un rock metafisico che rinuncia quasi del tutto ai riffoni ed alle distorsioni per farsi desolata e lisergica psichedelia, a metà strada fra gli incubi di Angelo Badalamenti e il Neil Young della colonna sonora di "Dead Man". Spruzzi di droni e note al minimo, reiterate fino alla sfinimento, ricordano l'antico modus operandi, ma la musica degli Earth del nuovo millennio è decisamente più accessibile che in passato.

Attenzione però: Carlson rimane un artista avulso dai suoi tempi, autoreferenziale, interessato a sviluppare pazientemente quei mostri che la sua mente spostata gli suggerisce. E' semmai il mondo ad essersi avvinato a lui…

Ci piace immaginarcelo solo nella sua stanza disadorna, magari seduto sul letto e con una chitarra acustica in mano, che sfiora con gesti lenti il suo strumento, in attesa della giusta vibrazione. La sua musica è piena di vuoti, che egli tenta di colmare con le poche note a sua disposizione, mosso da scrupoli che solo lui conosce. Una natura parsimoniosa (dovuta ancora alla disciplina militare impartita dal padre?): il classico uomo di poche parole, chiuso in un mutismo (artistico) probabilmente reso ancora più duro da sensi di colpa che pesano, magari anche silenziosamente, sulla coscienza. Perché il rammarico per aver prestato l’arma che ha fatto fuoco contro il suo migliore amico è grande e difficile da smaltire: un “carico” che la musica degli Earth probabilmente si porta ancora oggi sulle spalle.

Gli album successivi si rivestiranno nuovamente di una potente coltre elettrica, avvolti nelle "confortevoli" spire di un evocativo doom, qua e là ricoperto di polvere e sabbia del deserto. Ma laddove il drone-metal dei Sunn O))) suona tronfio ed auto-compiacente, quello degli Earth porta con sé una velata fragilità, forse nemmeno del tutto consapevole: un viaggio introspettivo che nel suoi continuo avvilupparsi (i soliti riff circolari che si ripetono ad infinitum) non sembra trovare un punto di approdo. Il classico "girare intorno alle cose" di chi, se ci possiamo permettere una interpretazione, non ama nella vita prendere il toro per le corna.

Chi va invece dritto al punto è un'altra figura collegata a Kurt Cobain: il ben più popolare David Grohl, batterista dei Nirvana prima e leader dei Foo Fighters poi, nonché produttore e personaggio di spicco nel music business odierno.

Come non abbiamo dato colpe a Carlson, non accusiamo Grohl di aver lucrato sull'immagine di Cobain, sebbene la provenienza dai una così famosa compagine lo abbia innegabilmente aiutato nella fase di start-up della sua carriera solista. Riteniamo che, pur non essendo un artista particolarmente talentuoso o ispirato, oggi il Nostro brilli di luce propria. Del resto dal 95 ad oggi ha avuto più di vent'anni per dimostrarlo, e se i Foo Fighters sono oggi una delle band più popolari del rock mainstream, dei meriti, almeno a livello di tempismo e di lettura della realtà, glieli riconosciamo. L'ideal-tipo dell'uomo giusto al momento giusto, ma anche dell'audace aiutato dal Fato che sa volgere gli eventi a proprio favore.

Egli ha una personalità diametralmente opposta a quella di Carlson: da batterista ha imbracciato la chitarra e si è messo dietro al microfono per avanzare in prima fila e farsi front-man ed icona di una nuova band, ama apparire nei video (sfoggiando anche discrete doti attoriali), è un iperattivo e quando non compone o è in tour con i Foo Fighters, lo troviamo a suonare la batteria in album di altri artisti (Queens of the Stone Age un nome su tutti), o impelagato in qualche bislacco progetto (si pensi ai Probot, dove ebbe il privilegio di lavorare a fianco di grandi glorie del metal come Lemmy, Cronos, Max Cavalera, King Diamond, Lee Dorrian, Thomas G. Fisher ecc.), o a produrre band esordienti, sempre con l'entusiasmo di chi ama la musica ed è consapevole di averne fatto il proprio (redditizio) lavoro. Dei Nirvana egli prenderà il lato più sbarazzino; delle nevrosi di Kurt Cobain nemmeno l'ombra.

Proprio l'esatto contrario di Carlson che dell'epopea grunge ha scelto la facciata più rancida. Cowboy solitario e stralunato, apolide (per via del lavoro del padre da piccolo si è dovuto trasferire spesso) ed al tempo stesso saldamente legato alle sue radici (la tradizione americana, il country, il southern rock sono tutti aspetti che ritroviamo nel suo DNA di artista), Carlson è forse sempre stato l'uomo sbagliato al momento giusto, “figura sfasata” oggi sospinta in alto non tanto dalla sua forza interiore, quanto dalle tendenze del metal degli ultimi quindici anni ad uscire dal formato canzone (dimensione a lui da sempre estranea), a riscoprire le proprie radici più autentiche e genuine (Black Sabbath in primis) e a compiere uno scavo metafisico che va a svelare le potenzialità più spirituali del genere.

Oggi Carlson è il campione (quasi un “eroe per caso”) di questo stato di cose, maledetto ed al tempo stesso benedetto dal suo modo di essere: un qualcosa di irrisolto sospeso fra caserma, fattoria e luridi appartamenti ove ci si iniettava l'eroina nelle vene. Un personaggio alieno, forse un disadattato, in cui si scontrano un'apprezzabile intransigenza ed una tragica trascuratezza: ricetta assurda per la genesi di un artista unico