11 apr 2017

DIAMO A MARIO QUEL CHE E' DI MARIO: MARIO DI DONATO E THE BLACK, DISCOGRAFIA COMMENTATA



 
 
Dopo aver dissertato sulle carriere di Death SS, Paul Chain ed Antonio Bartoccetti (titolare delle sigle Jacula ed Antonius Rex), non ci potevamo esimere dal trattare i The Black di Mario Di Donato, nome di culto nel sottobosco metallico tricolore.

Classe 1951, per sua stessa ammissione nasce artisticamente ascoltando Jimi Hendrix e Black Sabbath, annoverando nel suo background formativo artisti sia internazionali (Alice Cooper, Led Zeppelin, Cream, Ufo, Grandfunk Railroad ecc.) che nazionali (Le Orme, I Corvi, Il Rovescio della Medaglia ecc.).

Con i Respiro di Cane, una delle sue prime band, si dilettava a velocizzare brani di Black Sabbath, Grandfunk Railroad e Il Rovescio della Medaglia, anticipando (era il 1973) lo speed metal degli anni ottanta (o almeno è quello che lui sostiene oggi).

Prima con gli UT e poi con gli Unreal Terror (con i quali pubblicò nel 1985 l'apprezzato EP "Heavy and Dangerous") egli ebbe modo di consolidare la sua posizione nel panorama italiano dell'epoca (sebbene il sound degli Unreal Terror fosse ancora molto derivativo e decisamente "priestiano"). Ma proprio quando iniziò a profilarsi il successo, decise di abbandonare la band in quanto non interessato a perseguire scopi commerciali.

Sarà con la sua band successiva, i Requiem, che si paleserà in modo compiuto quel percorso orientato verso un metal metafisico, spirituale, quel "metal dell'anima" (egli lo chiamerà "Metal Mentis") volto a sondare temi esistenziali ed in particolare le emozioni e le paure dell'uomo nei confronti della morte. Dopo un paio di demo e l'EP "Ex Voto” (poi inclusi, insieme al resto della risicata produzione discografica della band, nella raccolta "The Story 1985 - '92”), nel 1990 usciva "Via Crucis", da considerare come una pietra miliare della New Wave of Italian Heavy Metal. Dagli esordi caratterizzati da un heavy metal caotico, veloce e debitore non poco delle produzioni rozze dei Venom (disturbante la performance dietro al microfono del primo cantante Massimo "Thunder" D'Ezio), la band approdò presto ad un sound più personale che si allineava alle gesta di glorie conterranee come Death SS e Violet Theatre. Un sound malefico ed oscuro, disordinato nel suo svolgersi, vergato dalla voce raschiante del nuovo cantante Eugenio "Metus" Mucci, che fra acuti strappa-tonsille, vocalizzi disarticolati e nenie ottenebranti si muoveva come un folle attore di teatro sul macabro palcoscenico allestito dai compagni. I tempi erano ancora piuttosto sostenuti, ma il riffing tagliente e dissonante di Di Donato già presentava quelle sferzate melodiche che avrebbero caratterizzato il prosieguo della sua carriera.

Nel frattempo il Nostro, in parallelo alle attività della sua band principale, aveva avviato un altro progetto, denominato The Black, con il quale intendeva discostarsi dalle sonorità più classicamente heavy metal dei Requiem per esprimere in lungo e in largo il suo estro: un chitarrismo "free", il suo, che coniugava in modo personale furia hendrixana a magniloquenza doom. Senza ombra di dubbio egli si affermava come uno dei chitarristi più interessanti del nostro paese, fantasioso nelle ritmiche quanto dotato di gusto in tema di assolo. E la sua musica, sebbene sempre più orientata verso i territori della sperimentazione (un doom, potremmo dire, "tirato" da un lato da tentazioni progressive e "attirato" dall'altro dai fumi della psichedelia), non rinuncerà mai a quelle accelerazioni che la ricondurranno ai lidi dello speed e del thrash metal (nella misura in cui, beninteso, certi stilemi del thrash possono essere contenuti in nuce nel linguaggio sabbathiano).

Decise inoltre di rivestire il ruolo di cantante, dato che la "lingua ufficiale" del suo nuovo corso sarebbe divenuta il latino (per rafforzare l'idea di un metal che scavasse nel passato e nelle radici della tradizione italiana), lingua che egli in qualche maniera padroneggiava. Non è un cantante professionista Di Donato, anzi, non è proprio un cantante, ma le sue declamazioni in latino costituiranno un ulteriore tratto distintivo nel già personale sound della sua creatura.

Infine l'aspetto visuale (non affatto secondario nella visione artistica del Nostro): Di Donato è anche pittore, anzi, lo è almeno quanto egli sia musicista. E questo suo background (oltre al fatto che molti suoi dipinti diverranno le copertine degli album dei The Black, caratterizzandone il lato estetico), unito all'interesse per il patrimonio artistico e culturale della sua terra, l'Abruzzo, sarà parte integrante di quella "Ars Obscura", o anche "Ars et Metal Mentis", che non è altro che l'evoluzione del concetto di "Metal Mentis" (in questa nuova concezione il discorso dell'anima veniva esteso a "dimensioni sconosciute che sfiorano la storia dell'arte, la storia della musica e...il cuore", come affermato dallo stesso autore).

Inevitabile aggiungere che presto The Black sarebbe divenuto il "luogo" di espressione privilegiato per Di Donato, tanto che di lì a poco i Requiem si sarebbero sciolti...

"Infernus, Paradisus et Purgatorium", 1990.
Anticipato dall'EP "Reliquarium" (rilasciato l'anno precedente), viene pubblicato nel 1990, tramite l'etichetta Minotauro (la stessa di Paul Chain), il primo full-lenght dei The Black. Il progetto nasce come territorio di sfogo e piena realizzazione della personalità artistica del chitarrista abruzzese, sempre meno disposto a costringersi nei canoni classici del metal e più interessato, dunque, a sperimentare nella direzione di forme musicali che catturassero una certa spiritualità. Il doom pareva essere il mezzo più congeniale, con le sue lente litanie di chitarra che ben si sposavano alla musica sacra di cui Di Donato è da sempre conoscitore. Al contempo si decise di non sacrificare la passione per il rock progressivo e per quello psichedelico, che certo potevano offrire spunti utili alla causa. L'uso di tastiere, il cantato in latino completano il quadro, e "Infernum, Paradisus et Purgatorium", ispirato "con modestia" dalla Divina Commedia, diviene il manifesto artistico del nuovo corso. Esso si compone di otto tracce che in modo irrazionale e disordinato fanno convivere parti lente e momenti più caotici che qualcuno avrà l'ardire di descrivere come proto-black: definizione, questa, non del tutto azzardata, soprattutto quando il "ronzar degli spinotti" incontra voci alienanti e scricchiolanti partiture di organo. L'atmosfera infernale, sulfurea ma sacrale ed inquisitoria al tempo stesso, la voce lontana e stonata di Di Donato, il susseguirsi di brani privi di struttura e di ritornelli (sorta di confusi bozzetti accomunati da inquietanti fili invisibili) non fanno che conferire un fascino antico e misterioso a questo album anomalo per il metal underground italiano: forse non più che un laboratorio di esperimenti svolti in assoluta libertà, ma che rimane ad oggi, per la sincerità e per l'energia che si porta dentro, nonostante la produzione artigianale (o proprio per quello!) uno dei momenti migliori della saga The Black.

"Abbatia Scl. Clementis", 1993.
Dopo un album così particolare come era stato l'esordio, con questa opera seconda Di Donato sembra voler correggere il tiro, tornando ad un heavy metal classico, plasmato attorno al formato canzone e dove le componenti doom e progressive vengono ridimensionate, mentre quella atmosferica sopravvive negli interludi di tastiera e nel cantato in latino. Da segnalare l'ingresso in formazione del bassista (ex Unreal Terror) Enio Nicolini e del batterista Emilio Chella, già dedito ad un “power bello tirato” con i tedeschi Keenig (un trascorso riscontrabile nel drumming forsennato che velocizza il sound dei The Black avvicinandolo, appunto, a certo power teutonico). La palma di miglior brano spetta di diritto alla title-track, con il suo ritornello cantilenante (sconquassato dalla doppia-cassa di Chella) che riconsegna Di Donato a quell'oscura epicità che lo ha reso noto. Il titolo dell'album prende ispirazione dall'Abbazia di San Clemente a Casauria, a dimostrazione di quanto forte sia il legame fra l'artista abruzzese e la sua terra.

Refugium Peccatorum", 1995.
Questa operazione, che raccoglie brani scritti fra il 1989 e il 1992 (fra cui rivisitazioni di pezzi già editi, era-Requiem compresa), sancisce l'approdo all'etichetta genovese Black Widow, che pare garantire all'artista l'adeguata libertà di espressione e i mezzi che solo una realtà specializzata nel settore può fornire. L'album però va preso per quello che è, ossia un episodio minore nella discografia dei The Black, in quanto i brani, di per sé pregevoli, suonano scollegati fra loro: un deficit che si fa sentire considerata l'importanza che l'aspetto concettuale da sempre ricopre nel processo creativo del progetto. Ricordiamo infatti che Di Donato ama trattare temi come la Morte, il Male, il Sacro, rasentando l'Occultismo, ma mai per il solo gusto di provocare, bensì sempre con spirito costruttivo, di denuncia e persino con un "fare da bacchettone" che tradisce una "vita di parrocchia" condotta in gioventù. Come al solito la registrazione non impeccabile, la voce incerta di Di Donato costruiscono croce e delizia della release: a voi l'ardua sentenza se questa raccolta disordinata di brani (scandita da interludi strumentali tanto eterogenei da generare un "effetto accozzaglia") debba essere vista come un sublime viaggio onirico o come un semplice fastidio per le orecchie.

"Apocalypsis", 1996.
L'innesto nell'organico di un tastierista (tale Massimiliano Terzoli, che presenzierà solo in questo album) palesa la volontà della band di sviluppare un suono più "ampio" e progressivo, distanziandosi quindi dalle composizioni granitiche del recente passato. E così l'imperante organo dona ariosità ai brani di Di Donato, la cui indomita chitarra viene supportata dal basso del fido Nicolini (un po' trascurato nel missaggio) e dalla batteria del dinamico Gianluca Bracciale che diverrà membro stabile della formazione, completando così un terzetto che arriverà ai nostri giorni: il suo drumming marziale ed evocativo si cala perfettamente nelle atmosfere apocalittiche dell'opera, che trasuda sinfonismi e profezie da ogni poro. I testi, in italiano e latino, pescano infatti dalle Sacre Scritture, e su questo schema "narrativo" si dispongono i dodici brani (di cui quattro strumentali) che perdono autonomia ed identità-canzone per asservirsi alle esigenze del concept, che ha certo collegamenti con l'attualità. Ancora una volta la produzione non rende giustizia alla qualità delle composizioni.

"Golgotha", 2000.
Se l'album precedente aveva trattato in modo esplicito il tema dell'Apocalisse, il discorso in un certo senso prosegue con "Golgotha", che vede ancora al centro delle sue riflessioni la sofferenza, la violenza insensata e il caos che pervadono la storia dell'uomo, anche all'alba del terzo millennio (ci si riferiva, in particolare, alla guerra nei Balcani). Rispetto al predecessore, forte di un concept dalla "solidità biblica", questa opera si muove in modo meno compatto, riscoprendo il carattere disordinato delle prime uscite, mettendo insieme italiano e latino, pezzi originali e cover (rispolverati I Corvi e Il Rovescio della Medaglia), momenti duri e passaggi più atmosferici, brani brevi e d'impatto e suite di dieci minuti (proprio "Il Giudizio" degli appena citati Il rovescio della Medaglia, che sotto il “trattamento The Black” diviene uno sferragliante tour de force chitarristico in cui Di Donato sfoggia tutto il suo estro anarchico). Fra doom, heavy metal, progressive e sinfonismi vari, spicca la bellissima title-track, sorta di struggente ballata sulle sorti dell'Umanità che osa mettere insieme Black Sabbath e Renato Zero (nella sentitissima interpretazione di Di Donato).

Peccatis Nostris" - "Capistrani Pugnator", 2004.
Usciti in contemporanea (nel formato CD addirittura sullo stesso supporto), questi due album vanno altresì visti come entità distinte e dunque trattati separatamente.

In "Peccatis Nostris" Di Donato torna a rispolverare le atmosfere solforose dell'esordio, calandosi ancora una volta in un Inferno di Dantesca memoria. Sette peccati capitali, sette gironi da attraversare, sette brani chiamati a rappresentarli, fra riff rocciosi e suggestivi rallentamenti, il tutto animato dalla consueta perizia del chitarrista abruzzese e dal suo caratteristico recitato in latino, che conferisce un feroce sapore inquisitorio a queste nuove composizioni. Poco spazio è concesso alle sempre gradite divagazioni progressive in questo album che ci mostra il volto più duro, monolitico e minaccioso dell'heavy metal di Di Donato: peccato (scusate il gioco di parole!), perché come si è visto i The Black danno il meglio quando decidono di esprimere la loro poliedrica personalità senza porsi limiti e restrizioni di sorta.

In "Capistrani Pugnator", invece, troviamo il trio in grande forma, con solo cinque brani, ma con la title-track di ben quattordici minuti che rappresenta l'apice probabilmente di tutta l'epopea di Di Donato. Non ci perderemo in discorsi inutili, visto che di questa incredibile suite abbiamo già parlato nella nostra rassegna sui migliori brani lunghi del metal. In essa troviamo chitarre incantatrici, cruenta epicità, mesti rituali di guerra, l'imprevedibilità di un doom maestoso che si fonde al prog-rock più evocativo. I pezzi rimanenti non sono certo da meno, certificando un Di Donato più convincente del solito dietro al microfono (aiutato inoltre da Eugenio Mucci, ex Requiem, e Ben Spinazzola, ex UT) ed una compattezza strumentale mai raggiunta in precedenza e valorizzata finalmente da suoni potenti ed una produzione come si deve. Per la cronaca il Guerriero di Capestrano è una statua calcarea risalente alla seconda metà del VI secolo A.C., oggi esposta nel Museo Nazionale di Antichità di Chieti.

Gorgoni", 2010.
Mastodontico album (diciassette brani per quasi ottanta minuti di durata!), l'ultima (ad oggi) prova discografica licenziata da The Black (ma pare che vi siano già due nuovi album praticamente pronti) affonda le grinfie nella mitologia greca, andando ad “analizzare” le tre mostruose sorelle Medusa, Steno ed Euriale, non senza rimandi al presente. La musica dei Nostri si immola nel modo più assoluto sull’altare dei suoni vintage, mostrandosi pesante più che mai (efficacissima a questo giro la produzione, ruvida al punto giusto), ma non privo di quella magica atmosfera che viene assicurata da un uso misurato delle tastiere (ottimo, per esempio, l'organo sfrigolante con cui l'album si apre): dunque impereranno i Black Sabbath e tutto quel mondo doom post-sabbathiano che lo stesso Di Donato ha nutrito per almeno un ventennio, con trovate macabre degne dei Mercyful Fate più criptici e spunti prog che come al solito rimandano alla tradizione italiana degli anni settanta (sfiorando persino certe sperimentazioni del primo Battiato), senza disdegnare qualche episodio in cui i Nostri tornano a premere sull'acceleratore. Perfetto connubio fra potenza e melodia, "Gorgoni" si candida a miglior album doom del terzo millennio.