17 giu 2017

BESTIARIO METALLICO: CAVALLI D'OGNI TIPO




Cavalli e metal. Un animale inevitabile nell'epica, e anche nella mistica, se non altro per l'immagine dei quattro cavalieri dell'apocalisse. I Metallica, pur irrompendo sulla scena come i quattro cavalieri, si disinteressano di darci particolari dei cavalli. E già sono quattro cavalli di cui non sappiamo nulla, cosa che ci disturba.

Ma è con l'epica dei Manowar che i cavalli sono valorizzati. Il baio, cavallo nero, fa la sua comparsa in "Dark Avenger". Si narra di un guerriero vendicatore che ritorna dall'inferno per ripagare i nemici, ed è dotato dagli dei di due armi: una spada, dal nome di Vendetta, e un cavallo di nome Morte Nera. Un cavallo demoniaco nel senso etimologico del termine, cioè espressione di una forza sovrumana, infernale ma non malvagia. Una vis nera che esprime la distruzione e l'odio, ma non il male. Il cavallo nero dei Manowar ricomparirà in “Black wind fire and steel”, nel verso: venti neri soffiano sempre dietro alla corsa del mio nero destriero / il fuoco nel mio cuore, l'acciaio al mio fianco. Anche in questo caso farà da destriero ad un personaggio furioso, forgiato appunto coi tre elementi sopra citati: fuoco, acciaio e un alito nero di vita, il cui fine misterioso è insegnare all'umanità la via della salvezza ("Born to teach them all to heal"). Non senza prima averne fatto strage, par di capire.

Saltando di palo in frasca, ma rimanendo in un immaginario caro anche ai Manowar, ricordo che anche nella saga di Ken il Guerriero il baio trova un suo posto d'onore. Si tratta del cavallo nero di Raoul, il re di Hokuto, colui che ha il ruolo di portare a termine la pacificazione violenta del mondo, per prepararlo poi alla rinascita sotto la guida del fratello Ken. Unico amico di Raoul, per il resto chiuso nella prigione del suo destino di spietato conquistatore, è il suo cavallo, “Re Nero”.

La bardatura maestosa di Re Nero ci fa da ponte con un altro cavallo nero del metal, stavolta non in un testo ma su una copertina. Una figura che ha nel metal una sua copertina per eccellenza, "Storm of the light's bane" dei Dissection. Il cavallo su cui cavalca la morte, apparentemente. Rappresentato come un cavallo muscoloso, squadrato e con il capo rivolto lateralmente, come a riprodurre il movimento di una falce, che mentre avanza taglia da una parte all'altra il grano. Sopra, una figura ammantata, senza volto, che brandisce appunto la classica falce della morte.
Il fascino di questo disco è duplice. In primis, pur essendo un disco catalogabile nel black, è infarcito di preziosismi e orpelli di death melodico. In secondo luogo, il destino che avrebbe voluto Jon Nodtveidt al centro di episodi di cronaca nera, prima di suicidarsi dopo aver completato il suo secondo lavoro, "Reinkaos". Una vitalità talmente caotica e carica da portar con sé distruzione e morte, e da trovar la pace soltanto nel “caos di ritorno”, cioè la sublimazione verso una non-esistenza. La vita, travestita da morte, ad indicare la sua “brutta fine”. D'altra parte lo dice anche De Gregori in "Storie di ieri", con una satira sul neofascismo: "I cavalli a Salò sono morti di noia / a giocare col nero perdi sempre...".

Il cavallo nero è femmina. Non è una frase di Mussolini, ma una riflessione sul concept di "Vision of Eden", disco dei Virgin Steele che contrappone al pantheon di divinità lunari capeggiate da Lilith, prima moglie di Adamo, l'insulso mondo monoteistico e fallocratico che ha prevalso in seguito, con l'avvento dei monoteismi. L'animale nero, simbolo del divenire, dell'autonomia della vita, della partenogenesi, è reso demoniaco, è tacciato di portare malasorte. I Virgin Steele coraggiosamente raccontano questa vicenda metafisica di lotta perduta per il paradiso, e la perdita del contatto degli uomini con la parte interessante della femminilità (al di là della topa), per sostituirla con burka, vergini e streghe. Gli angeli neri cacciano Lilith dal paradiso al grido di "ecco il cavallo del nostro regno di morte", un cavallo "pallido" (pale). Il cavallo nero della femminilità vede il suo posto usurpato da quello pallido della morte, e il nero diviene un colore nefasto di cui si appropriano gli angeli di Dio per spaventare l'uomo, anziché il lato oscuro della natura. Ottima metafora, degna di una copertina come si deve. Peccato che poi De Feis, col suo narcisismo, la sciupi completamente. Forse doveva montarlo a guisa di centauro, ma invece, sdegnato di non essere l'unico protagonista, non monta il cavallone nero e addirittura si gira dall'altra parte, con la mano appoggiata sull'elsa di una spada assolutamente sproporzionata.

Il cavallo nero è in conclusione sinonimo di vita, per quanto sia portatore di morte. Esprime la furia e la rinascita, attraverso la distruzione. Il vero cavallo di morte, quello che porta la fine, è il cavallo diafano, il cavallo dell'apocalisse. La morte cavalca un “pale horse”, per gli appassionati di metal epico-mistico si rimanda al brano dei Lordian Guard “Behold a pale horse ride”. Il cavallo della morte in altre parole è un “non-cavallo”, un presagio di fine dell'esistenza terrena, un cavallo senz'anima.

Se esiste un cavallo senz'anima, esiste invece il reciproco, cioè un'anima di cavallo senza corpo? Ebbene sì, nel metal tutto è possibile. E sono sempre i Manowar che ce lo regalano. Nell'album “Triumph of Steel” i nostri iniziano con un concept sulla guerra di Troia, senza infilarci neanche un cavallo peraltro. Poi a metà disco si rompono le palle dell'argomento e virano improvvisamente in maniera sfrontata sull'epopea degli indiani d'America: lo sciamano evoca lo spirit-horse, un cavallo spirituale, una divinità animalizzata che rappresenta lo spirito del guerriero indiano. Il cavallo spirituale compare tra le fiamme del rito evocativo per confermare ai guerrieri la bontà del loro sacrificio in battaglia, e infonder loro coraggio.

Non poteva mancare il cavallo bianco, che però entra in ballo soltanto nell'ascensione al paradiso. Il cavallo bianco, in “Righteous Glory”, è quello della Valchiria, che scende a prendere il “giusto” morto in battaglia per condurlo nel Valhalla. Il cavallo bianco fa da psicopompo quindi, conduce l'anima del morto verso la sua destinazione, e divide il cielo come fosse una distesa marina, alzando due onde che liberano il sentiero verso il paradiso. E lì si tromba, presumo.

Quindi abbiamo passato in rassegna cavalli neri, bianchi, fantasma, e anime di cavallo. Ma il colpo di genio non è dei Manowar, principale fonte di figure equine, ma degli insospettabili Summoning. Questi, che si dilettano di black melodico, si cimentano anche con trovate di tipo death, perlomeno nell'illustrare l'assurda figura animale del cavallo in putrefazione che galoppa sul suolo sterile. Un'allegoria riuscitissima dello spazio-tempo, un luogo sospeso tra futuro da determinare ma soprattutto un passato concluso e archiviato, di cui rimangono al limite le spoglie. La vita è quindi un fenomeno di putrefazione organizzata, e inizialmente anche bella da vedere, che corre parallela al tempo, nel vano tentativo di riacciuffarlo. Sterile è il suolo su cui l'uomo-cavallo corre, perché non conserverà alcuna traccia del suo passaggio, se non per caso e per un tempo limitato. Il culto del passato è un'illusione d'eternità, così come la corsa è un'illusione di futuro. Le viscere del cavallo cadono una ad una durante una corsa disperata su una terra che non le ingloberà e la farà scomparire.

Sicuramente il meno maestoso e il più terribile dei cavalli, quello che unisce la vita e la morte in un'unica vis, un'unico movimento vivente, insieme di progressione e di decomposizione. Il cavallo vero, il cavallo d'arrivo di ogni altro. Carcassa di cavallo nero, negazione di ogni paradiso e cavallo bianco, che nessuno sciamano riporterà in vita come cavallo spirituale, e non tornerà neanche per annunciare un'apocalisse.


A cura del Dottore