9 ago 2017

ULVER - SPECIALE PLAYLIST: DIECI IMPERDIBILI BRANI PER CELEBRARE L'IMPREVEDIBILE VIAGGIO DEI "LUPI"



L'uscita dell'ultimo loro full-lenght "The Assassination of Julius Caesar" ci ha riportato alle orecchie gli Ulver. In realtà non abbiamo mai smesso di ascoltare gli Ulver, anzi, parliamo continuamente degli Ulver, un po' perché i Lupi sono prolifici e capita spesso di ascoltare qualcosa di nuovo da essi rilasciato, un po' perché li seguiamo da sempre e con loro siamo praticamente invecchiati.

E se è sempre una buona occasione per parlare degli Ulver, oggi vogliamo strafare ripercorrendo la loro storia con dieci brani. Non necessariamente i più belli, né quelli più significativi: una playlist da ascoltare tutta d'un fiato per rivivere lo spericolato viaggio dei Lupi che dal black metal delle origini li ha condotti ai lidi del pop più sofisticato...


"Capitel I - I Troldskog Faren Vild" ("Bergtatt - Et Eeventyr i 5 Capitler", 1995)

L’opera prima degli Ulver fu accolta come un gioiello luccicante in un contesto in cui il black norvegese si stava sviluppando e diramando in direzioni interessanti; solo successivamente questo bellissimo album sarebbe divenuto una fonte di ispirazione per coloro che sarebbero divenuti gli alfieri delle sonorità post applicate al black metal. Il primo di quei leggendari cinque brani mette subito le cose in chiaro: voci pulite, melodie struggenti e divagazioni folk al servizio di un black metal che al contempo non intende rinunciare alla ruvidità ed allo spirito più autenticamente "true". Vera marcia in più per questo ensemble composto da musicisti ispirati e tecnicamente sopra la media è la voce di Garm: in questo brano non ci imbatteremo in parti di screaming (espressivo anch'esso, come avremo modo di sentire negli altri brani), ma solo in vocalità pulite che traggono ispirazione dal folclore nordico. Le varie linee vocali si intersecano ed accavallano in intrecci da brividi che trovano un terreno congeniale nei tempi medi del brano (accelerazione finale permettendo) e nel dinamismo delle soluzioni melodiche (fra cui un paio di assoli), tutte azzeccate e ben disseminati in questi otto minuti di sublime rarefazione sonora.

"Ulvsblakk" ("Kveldssanger", 1996)

Il secondo album degli Ulver fu già qualcosa di spiazzante, sebbene il legame concettuale con il lavoro precedente fosse palese. Questo legame era il folclore e tutti gli elementi folk che avevano impreziosito e reso unico il black metal di "Bergtatt" adesso venivano espressi al massimo del loro potenziale. Abbandonato definitivamente il metal, gli Ulver si ripresentano sul mercato discografico in veste totalmente acustica. In questo caso ad essere la “voce” più eloquente nel descriverci i contenuti di questo album è il mirabile brano di chiusura, che con i suoi quasi sette minuti è anche l'episodio più lungo: un viaggio nel cuore della foresta ("Ulvsblakk" significa "Il colore del lupo"), di notte, fra solenni arpeggi di chitarra, pagani colpi di tamburo e vocalità eteree (fra cui una autorevole risata che eleva Garm, con il suo piglio teatrale, dall'anonimato folcloristico). Una musica evocativa che affonda le radici nella magia di un passato ancestrale, ma che al tempo stesso getta un ponte verso quell'intimismo che si mostrerà compatibile con le forme che il Lupo assumerà in futuro...

"Proverbs of Hell - Plates 7-10" ("Themes from William Blake's The Marriage of Heaven and Hell", 1998)

Saltiamo a piè pari il temporaneo ritorno all'ovile del black metal con il ferocissimo "Nattens Madrigal" (volendo, un altro bel colpo di scena) e passiamo al colpo di scena per eccellenza. Questo stupefacente doppio-album (che abbiamo avuto modo di celebrare nella nostra classifica dei migliori album-doppi nel metal) è quanto di più scioccante una band dedita all’Estremo abbia mai combinat: dal black metal all'elettronica in un sol balzo! Rivoluzionata per metà la formazione che aveva dato alle stampe la gloriosa "trilogia black", Kristoffer Rygg (liberatosi dal vecchio soprannome Garm ed adottato per l'occasione l’appellativo di Trickster G.) si sceglie come compagno di viaggio il sound-designer Tore Ylwizaker, e niente sarà più come prima. In quello che è un flusso pantagruelico di suoni e parole (i testi, come suggerito dal titolo, sono dei passaggi tratti dal poema di William Blake) scegliamo un episodio fra i tanti validi, ma che mette ben a fuoco la mutazione dei Lupi: nove minuti che mischiano senza troppi problemi atmosfere urban, hip-hop, metal e post-industrial. Ma l'azzardo più grande è l'idea di rivestire di cruda metropolitanità i contenuti metafisici dei versi di un poeta romantico quale è Blake. Come al solito, nella perfetta commistione fra pattern elettronici e stilemi metal che ancora sopravvivono (nel groove delle ritmiche, nei riff taglienti della chitarra, in certi suoi ricami solistici), la stella polare rimane il canto poliedrico di Rygg che, abbandonato definitivamente lo screaming black, passa con disinvoltura da distorcenti effetti vocali ad un canto pulito che sa essere passionale e sperimentale al tempo stesso. Il fantasma de "La Masquerade Infernale" (uscito l’anno precedente) degli Arcturus (di cui tre membri sono presenti in questa incarnazione degli Ulver) aleggia in ogni dove, ma qua si va davvero oltre: che la nuova Era abbia inizio!

"Lost in Moments" ("Perdition City", 2000)

Se nel doppio-album appena descritto una certa componente metal sopravviveva, con l'EP "Metamorphosis" l'approdo all'elettronica era stato totale. E con il capolavoro "Perdition City" si ha il manifesto del nuovo corso. L'iniziale "Lost in Moments" è un brano praticamente strumentale che ci conduce nelle fascinose atmosfere notturne di una metropoli alienante, fra fraseggi spezzati di beat elettronici e i volteggi di un sax che si muove con gusto squisitamente noir. In una breve parentesi Rygg si abbandona a vocalizzi incorporei che sanno di avanguardia e che costituiranno la sua nuova dimensione: la voce intesa come "suono astratto" e non come veicolo di un messaggio lirico. Il contorno invece è ricco di suggestioni, dall’avvolgente piano jazzato che provvidenzialmente va a riempire i vuoti, al massimalista finale operistico, passando per i field-recording e gli svariati cambi di tempo. Una grande prova di maturità che sa fugare ogni dubbio sulla bontà del cambio di rotta dei Lupi.

"Nowhere/Catastrophe" ("Perdition City", 2000)

Ci permettiamo di selezionare un altro brano da "Perdition City" perché non potevano ignorare quel brano che sarebbe divenuto poi un classico (forse il classico per eccellenza) degli Ulver: la conclusiva "Nowhere/Catastrophe", unico episodio propriamente cantato in un album prevalentemente strumentale. Essa, che si muove a passo di trip-hop, presenta, rispetto agli altri brani, una struttura più lineare: tutto il fascino del brano risiede semmai nel canto di Rygg, il quale sfoggerà in lungo e in largo la sua capacità di inanellare idee e  preziosismi vocali avvincenti. Concettualmente il brano si lega al resto dell’album grazie  ad un bellissimo testo surreale che va ad incarnare alla perfezione il senso di disorientamento che era stato reso dai suoni delle composizioni precedenti.

"For the Love of God" ("Blood Inside", 2005)

Dopo una serie di EP tendenti in maniera preoccupante al minimalismo, gli Ulver tornano con un full-lenght grondante di suoni e parole. La buona notizia è che Rygg torna a cantare a tempo pieno; la cattiva e che non sempre la musica convince. "Blood Inside", tuttavia, segna una tacca importante nella carriera dei Lupi in quanto sancisce l'emancipazione da certi cliché della "musica colta" e il passaggio ad una forma "totale" di espressione artistica che sa mettere insieme "sacro" e "profano", recuperando persino certi stilemi del rock. Un bell'esempio di questo nuovo approccio è "For the Love of God": essa si attacca alla coda ambient del brano precedente e, introdotta da apocalittici cori e solenni percussioni, porta con sè quei toni sacrali che si vanno a rispecchiare nel drammatico testo. Cosa rara in casa Ulver, il brano presenta un formato canzone, dove la voce obliqua di Rygg offre ancora una volta una prova di grande classe e personalità. Dissonanti sintetizzatori e ricami di chitarra elettrica (con tanto di assolo nel finale) gettano ulteriore carne al fuoco. Nel brano, in definitiva, rinveniamo quell'ambizione di voler coniugare la sensualità del pop ad un autentico spirito progressivo: un connubio che troveremo spesso in futuro nei lavori degli Ulver.

"Eos" ("Shadows of the Sun", 2007)

Con "Shadows of the Sun" si torna ai toni pacati degli Ulver più ambient, ma lo si fa con rinnovata maturità e con una ispirazione che sa mettere insieme, in modo miracoloso, cantautorato, elettronica e musica da camera. Ogni tassello si incastona alla perfezione in questo mosaico che predilige intimismo e sfumature: per questo motivo è davvero difficile scegliere l'uno o l'altro episodio. Per comodità optiamo per l'intensa opener, riproposta dai Nostri di tanto in tanto dal vivo. Priva dell'elemento ritmico, essa si muove fra struggenti tastiere e carezze di archi, mentre Rygg, a metà strada fra new wave e canto gregoriano, si erge ad etereo sacerdote di un rito che porta con sé gli umori funerei di un requiem.

"February MMX" ("Wars of the Roses", 2011)

Sebbene "Wars of the Roses" vorrebbe bissare (ma senza riuscirci) certe mosse del pacato predecessore, la nostra scelta ricade sul movimentato brano di apertura (di cui fra l'altro abbiamo già avuto modo di parlare nella nostra rassegna sui dodici mesi dell’anno). L'andamento è pop come mai gli Ulver erano stati, ma, come è noto, quanto i Nostri accelerano il passo, sembrano voler recuperare quel dinamismo che possedevano ai tempi in cui suonavano metal. Solo che adesso, al posto di un drumming imperioso e riff di chitarra che si intrecciano in sublimi melodie, abbiamo un bel piano jazzato e fiumi di sintetizzatori che percorrono in lungo in largo il brano, il quale si muove con passo scoppiettante grazie all'apporto di un batterista in carne ed ossa. Rygg, invece, senza perdere un pelo della sua voglia di salire e scendere in vocalità astratte ed oblique, sfodera in tutta la sua forza quell'epicità a cui, fra i solchi dell'avanguardia, non ha mai rinunciato.

"Son of a Man" ("Messe I.X-VI.X”, 2013)

Dopo una imprevista escursione nel mondo degli anni sessanta (la raccolta di cover "Childhood's End", che ci ha consegnato i Lupi nell'insolita veste del rock psichedelico – ottimi, detto per inciso, anche in questo frangente), i Nostri ripongono nuovamente in soffitta chitarre e batteria, per riconsacrarsi al verbo dei sintetizzatori: la Messa dei Lupi è un viaggio spirituale fra kraut-rock, ambient e musica classica che, come suggerito dal titolo, si tinge più che mai di Sacro. Altro album dalla vocazione prevalentemente strumentale, offre comunque due brani cantati, fra i quali operiamo la nostra scelta: la monumentale "Son of a Man". Potremmo definirla una ballata orchestrale, ma a guardar meglio ci renderemo conto che si tratta di molto di più. Nei suoi otto minuti e passa di durata ci mostra Rygg in uno dei suoi crescendo più riusciti: dalle parole recitate sommessamente all'inizio, fino all'arrampicata emotiva che lo vede ancora una volta, incalzato dagli archi, incarnare quell'epicità, tinteggiata di enfasi teatrale, già palesata ai tempi de "La Masquerade Infernale". La coda strumentale a base di pompose orchestrazioni e manipolazioni elettroniche è gloria che si aggiunge alla gloria.

"Nemoralia" ("The Assassination of Julius Caesar", 2017)

Eccoci dunque alla fine del nostro viaggio, che non coincide affatto con una "chiusura del cerchio", in quanto il più recente album degli Ulver, più che un punto di approdo, appare l'ennesima svolta non preventivata di un percorso che si è svolto per tappe "concettuali" piuttosto che per un'evoluzione artistica vera e propria. Resta fermo il fatto che sembra impossibile che gli Ulver di "Nattens Madrigal" e quelli di “The Assassination of Julius Caesar” siano la stessa band. Il collage di passaggi concertistici che era stato “ATGCLVLSSCAP”, rimescolando le carte, aveva comunque riaffermato l'arte ulveriana come un maelstrom che all'ambient ed all'elettronica sapeva abbinare il post-rock e la psichedelia. Da queste fucine sembra scaturire, ripulito da tutte le scorie di rumore, quel gioiello pop che risponde al nome di "Nemoralia". Qui si parla il linguaggio del synth pop ottantiano (laccato a dovere dalla bella produzione di Martin "Youth" Glover): la semplicità del brano è tuttavia compensata da linee melodiche azzeccate, preziosismi elettronici, un testo geniale che sa accostare i riferimenti storici più azzardati e la solita intelligente performance dietro al microfono di Rygg, che si muove con grande disinvoltura fra vocalizzi sensuali e falsetti patafisici.

Terminato l’ascolto di questi dieci brani che sembrano composti da almeno tre o quattro band diverse, si affaccia sulle nostre coscienze un unico quesito: quale sarà la prossima imprevedibile mossa degli Ulver?