28 set 2017

12 MESI DI METAL: "SEPTEMBER SUN" (TYPE O NEGATIVE)



Settembre ricade per due terzi nell'estate e per uno nell'autunno, ma nell'immaginario collettivo è senza dubbio un mese più autunnale che estivo. L'afa, la noia di agosto sembrano uno sfumato ricordo, riflessi di luce opaca che vengono da un altro mondo. La città riprende a brulicare, le strade si riempiono nuovamente, si torna a scuola.

Settembre è un mese decisamente attivo, tonico, vibrante, nonostante, nel procedere del "ciclo della natura" si stia andando verso il freddo, le tenebre, il letargo. Le giornate si accorciano, ma proprio perché sentiamo che la luce ci sta sfuggendo di mano, apprezziamo di più ogni singolo raggio di sole. Da un punto di vista psicologico siamo quasi contenti di ripartire, sebbene una lieve malinconia ci accompagni in questo cammino, perché le foglie iniziano a cadere e il mondo inizia a tingersi di giallo, rosso, arancione.

Settembre è il mese dei contrasti, un mese speciale, forse il più particolare e denso di significati di tutti i mesi. Quando in redazione mi è stato assegnato il compito di occuparmi di settembre e mi si è presentata l'occasione di parlarne tramite la musica e le parole dei Type O Negative, mi sono sentito eccitato all'idea, perché secondo me non vi è band che possa meglio incarnare questo mese ricco di sfumature, malinconico ma vitale al tempo stesso.

"October Rust", a scapito del titolo, fu per me un grande protagonista del settembre di quell'anno, il 1996: mi ricordo ancora di quella splendida giornata di inizio settembre (l’album uscì a fine agosto) quando montai sul treno per recarmi al negozio di dischi e poi lo comprai insieme a "Theli" dei Therion, altro "discone" dell'epoca. Ero ancora troppo succube delle atmosfere criptiche/orrorifiche di "Bloody Kisses" per farmi piacere fino in fondo il suo successore, che trovavo più leggero e dispersivo. Capiamoci: fui rapito subito dai brani di "October Rust", ma mi ci volle del tempo per comprendere l'opera in tutto il suo potenziale: un album portatore di un sound che si scrollava di dosso le varie irruenze hardcore e industrial per farsi romantico, avvolgente, introspettivo.

Emergeva, in altre parole, l'anima cantautoriale di Peter Steele, sempre meno interessato a provocare o a trattare temi sociali, e meglio disposto a denudarsi ed aprire la propria anima al suo pubblico. Le dolcezze dei Beatles confluivano nella maestosità sabbathiana, si coverizzava Neil Young (il padre dei mesti solitari) ma si guardava a quella melanconia tipica della dark-wave meno nichilista, che sapeva mettere insieme fragilità e disperazione, tristezza e fanciullesco stupore. Dico darkwave ma penso ai Cure, quelli maturi di "Kiss Me Kiss Me Kiss Me", "Disintegration" e "Wish", album in cui miele e lacrime erano continuamente mescolati e dove vi si potevano trovare brani dagli umori differenti, a volte opposti, che passavano con disinvoltura dalla disperazione all'allegria, dalla speranza alla rassegnazione, come "The Kiss" e "Just Like Heaven", "Pictures of You" e "The Same Deep Water as You", "Apart" e "Friday I'm in Love".

La band di Robert Smith non è mai stato un riferimento esplicito dei Type O Negative (che non hanno mai fatto segreto dei loro gusti musicali), ma come non ritrovarne l'attitudine, il mood, quella capacità di mischiare pesantezza e leggerezza, fragilità e vigore, voglia di smetterla e voglia di vivere? Mi riferisco a brani come "Love You to Death", "Burnt Flowers Fallen", "In Praise of Bacchus". E poi c’era "Green Man", che iniziava con chitarre acustiche e il canto degli uccellini, un brano fortemente autobiografico in cui (citazioni della cultura celtica a parte) Steele guardava con nostalgia al periodo in cui lavorava nel Parks Department.

Esiste del resto un teatro migliore di un parco per assistere allo spettacolo di settembre? Parchi, una panchina fra gli alberi, il crepitio di foglie secche calpestate in una bella giornata di autunno: questa è l'immagine ricorrente che porta con sé l'ascolto di un album come "October Rust", forse semplificando visto che momenti assai "oscuri" i quattro ne dispensavano ancora, zavorrati da quel passato ostentatamente gotico che d'altra parte li aveva lanciati alla ribalta. Ma ben più complessa e contraddittoria è la materia emotiva di un artista come Peter Steele, il cui bacino di influenze stilistiche è vario (e poco metallico) e che va a comporre un mosaico che, provocazioni ed eccessi a parte, è stato uno dei più particolari che il metal abbia mai avuto.

Quale migliore autore, dunque, per celebrare le contraddizioni, la bellezza di settembre ed attraversare il varco di foglie secche ed alberi variopinti che ci conduce all'autunno? "September Sun" è stata uno dei due singoli di "Dead Again", l’ultimo album dei Type O Negative (correva l’anno 2007). Il brano è stato editato anche in versione breve (su di esso è stato girato un video), ma per il momento ci concentreremo sulla versione originale della durata di 9:46.

Che dire, parto dal presupposto che "Dead Again" non lo avevo nemmeno ascoltato, perché i Type O Negative mi avevano da un po’ stufato. Avendolo ascoltato in questi giorni per intero, posso dire che l'intuito non mi aveva messo del tutto sulla cattiva strada: "Dead Again" (noto solo adesso il palese riferimento a "Born Again" dei Black Sabbath) non è un brutto album, ma non brilla per particolari guizzi di ispirazione e a tratti dà l'impressione di essere un interminabile polpettone con i soliti ingredienti e con le solite soluzioni. Fra le altre cose, viene resuscitato il vecchio modus operandi che prevedeva l’assemblaggio, più o meno sensato, di più brani in lunghe suite. A differenziarlo dagli album precedenti (ma "Life is Killing Me" già si avviava verso quella direzione), un ripescaggio significativo dell'attitudine hardcore delle origini che non ho mai gradito (con persino qualche growl sparso qua e là, complice la recente riesumazione dei Carnivore): un indurimento dei suoni ed un approccio "more rock oriented" che, volendo, può costituire una sorta di chiusura del cerchio, ma che, ahimè, non verrà coronato da un adeguato impegno a livello di scrittura. 

"September Sun", in un contesto di dispersione, futilità assortite e taglia-e-cuci di solite frattaglie sabbathiane/beatlesiane, è un mattone di quasi dieci minuti in cui possiamo trovare, condensati, tutti i cliché della band: l'incipit di pianoforte e voce baritonale di Peter Steel, il ritornello elettrico con voce aspra e raschiante di Kenny Hickey, l'interminabile corpo centrale con prevedibile alternarsi di vuoti e pieni, e persino uno scambio di assoli (più elaborati del solito) fra chitarra e organo, che tuttavia esplicitano la pochezza tecnica dei Nostri. Ma il peccato maggiore è che si manifesta una stanchezza compositiva ed esecutiva che giustifica quasi la fine della band, che avverrà di lì a poco.

La band, come noto, si scioglierà non per la consapevolezza di essere giunti ad un capolinea artistico, ma in seguito alla morte di Peter Steele, dovuta ad un arresto cardiaco per un'overdose che puzza di suicidio lontano un miglio. La tristezza è trovare un artista in un tale stallo creativo proprio nel momento in cui, fra le crepe di un mondo interiore in disgregazione, avrebbero dovuto divampare le ultime fiammate di talento, alimentate dalle contraddizioni della “fase terminale”, che di solito è benzina sul falò sopito dell'ispirazione. La band invece mostra poche idee, le solite, e suona stanca. Quasi come la copia sbiadita dei tempi che furono.

Il testo, da parte sua, è un chiaro riferimento ad un fatto della vita privata di Steele: la separazione con la sua fidanzata, avvenuta qualche tempo prima. Un evento che, a leggere le note biografiche del cantante, pare essere stato vissuto decisamente male e sfuggito un tantino di mano, visto che il Nostro arrivò, complice l'uso crescente di droghe, ad aggredire il nuovo compagno della stessa: da qui la diffida, la successiva violazione della libertà vigilata e la reclusione (un mese di galera). Eppure, sebbene il carico emotivo messo sul tavolo fosse stato notevole, sicuramente il Nostro si è rivelato, come paroliere, più incisivo altrove: le parole, i concetti sembrano uscirgli a fatica dalla mente, evidentemente appannata dall’abuso di droga (ma io vi percepisco anche aria di resa, una mancanza di motivazione e di energie).

Il "sole di settembre" si limita a simboleggiare, come nel più scontato dei copioni, il travaglio interiore del cantante: da un lato uno sguardo nostalgico ad un passato radioso (il primo verso recita "September sun glowing golden hair"), dall’altro la consapevolezza che questo stesso passato stia marcendo per lasciare spazio a qualcos'altro (successivamente verrà detto: "September sun rotted Flatbush porch").
L'ambivalenza settembrina finisce così per ospitare i vettori contrastati di un faticoso percorso di accettazione e a rappresentare dunque un presente in cui sono ancora vivide le tracce del passato e nel quale, al tempo stesso, il processo di deterioramento è già in atto. Del resto, come successo altre volte, per Steele dedicare un brano ad una ex è un modo per apporre un sigillo finale su una persona ed un periodo turbolento, per lasciarsi tutto alle spalle e procedere oltre.

Il video, che ovviamente non fa testo perché confezionato a scopo promozionale, ci racconta, sulla stessa falsa riga, la storia di una giovane coppia che si sta separando: lei che va via di casa (fra l’altro sosterà su una panchina in un parco) e lui che si reca sul tetto per suicidarsi. In realtà, una volta sopra, troverà i Type che suonano (ancora un richiamo ai Beatles?) ed un bambino che provvidenzialmente, prima del salto fatale, gli farà capire (forse) che il suicidio non è la soluzione migliore. Un segnale di speranza che contraddice la tragica morte di Steele, ma non ci stupiamo se pensiamo al nerboruto cantante come ad un uomo affetto da depressione che per molti anni, a fasi alterne, ha pensato di farla finita ed alla fine (direttamente o meno) ci è riuscito.

In tutto questo c'è però uno scoop e non c'entra nulla con settembre: i Black Sabbath hanno rotto i coglioni. Attenzione a cosa sta dietro a questa provocazione: i grandissimi e seminalissimi (e da noi amatissimi) Sabbath saranno per sempre una fonte di influenza per il metal e per il rock in generale. Il fatto è che negli ultimi cinque lustri, dall'esplosione dello stoner in poi, è stato un inarrestabile crescendo di uso ed abuso di stilemi sabbathiani, in particolare nella loro accezione settantiana: con lo sludge, il post-hardcore, il post-metal, il drone-ambient di marca Sunn O))), fino al dilagare dei riff sabbathiani in un contesto di ricerca che ha visto molte giovani band abbracciare il verbo doom-psichedelico. Ma ad ascoltare questo "Dead Again", ormai vecchio di dieci anni, a sentire questi riffoni elefantiaci fra l'acido e l'oppressivo (buona comunque la produzione, fatta finalmente di suoni vivi e meno artefatti), mi rendo conto che l'era del sudore e della sporcizia sonora sta forse per finire. Chissà, magari per lasciare spazio a suoni più puliti, patinati e la riscoperta di una ricerca che si fa tanto concettuale quanto melodica. Che sia questo (il presente che stiamo vivendo) il settembre a cavallo fra due ere musicali? Che Peter Gabriel (non Steele…) possa divenire il nuovo nome di riferimento anche per il metal, sempre più orientato verso un neo-progressive sofisticato e dai profili minimali? Il guru Steven Wilson, con il suo ultimo lavoro "To the Bone", sembrerebbe indicarci questa direzione...