26 ott 2017

L'A.O.R. 2.0 DEI TEN


I 10 MIGLIORI ALBUM A.O.R.

CAPITOLO 11 (fuori classifica): TEN - "SPELLBOUND" (1999)

Avremmo potuto chiudere la nostra Rassegna sui 10 migliori album AOR con i Giant. E sarebbe stata comunque una chiusura in bellezza.

Ma, chi ci conosce lo sa: siamo degli inguaribili perfezionisti. E dieci album non ci bastavano. Mancava qualcosa. Mancava capire che fine aveva fatto l’AOR nelle decadi post-grunge. Era sparito, morto, kaput

No, ovviamente no. Ha continuato a vivere. Un po’ malandato, questo è vero. Senza rinverdire i fasti della c.d. Sunrise Era ottantiana.  Ma tutte quelle sonorità che abbiamo imparato a conoscere nei quasi quindici anni di musica trattata (1976-1989) erano sopravvissute. Rimodellate dalle tendenze, con un sound e produzioni in studio al passo coi tempi.

E allora ci siamo detti: qual è la band che può riassumere, se non le tre decadi trascorse dal 1989, almeno quella di fine millennio? Quella che ha raccolto in modo più convincente l’eredità delle grandi band degli eigthies rimodellandola in modo personale e credibile, filtrandola con una visione moderna della musica rock?

In realtà la cernita, almeno per il sottoscritto, è stata facile. E quindi immediata: i Ten di Gary Hughes. E scegliamo all’interno della loro discografia l’album della maturità, quel “Spellbound” simbolicamente uscito a fine millennio.

Hughes, fresco cinquant'enne, è uno di quei personaggi che definirei “totali”, “a tutto tondo” del rock: cantante, polistrumentista, songwriter, impegnato in mille progetti e caterve di collaborazioni. Un’iperattività che, almeno nella prima fase di vita della band, andava a braccetto con una qualità notevolissima delle sue produzioni. Presenza glamour (bionda criniera riccio-cotonata, camice sgargianti, pose da sciupafemmine) capace di “bucare” al primo impatto, ma anche notevole capacità di scrittura nonchè voce calda e sensuale, capace di graffiare alla bisogna. 
Il merito per la qualità delle uscite dei Ten è però da spartire equamente con il suo fido compare di tutta la prima parte di carriera, quel Vinny Burns che è personaggio fondamentale di tutto l’hard rock/AOR (il nome Dare vi dice qualcosa?). E, guarda caso, anch’egli polistrumentista e songwriter dotatissimo.

Ma torniamo a bomba su “Spellbound”: se è vero che il modello principale seguito da Gary sono i Magnum (con Catley, Hughes collaborerà a più riprese, scrivendo per la carriera solista di Bob una marea di brani), è altrettanto vero che qui ogni sfaccettatura dell’AOR è rappresentata a livelli altissimi. Perché “Spellbound” è la marzialità sinfonica di “March of the argonauts” (che insegna ai più come vada fatta un’intro se si vuole che non sia un banale riempitivo ma costituisca un valore aggiunto al tutto); “Spellbound” è l’ hard n’ heavy  a sfondo fantasy dell’opener “Fear the Force” o di “The alchemist”, che vi immergeranno in un mondo dove Bene e Male sono in perenne lotta e in cui trovano spazio unicorni, draghi e maghi veggenti; “Spellbound” è il torrido rock blues di “Inside the pyramid of light” nonchè il rock pomposo della title track che consolerà gli orfani delle sonorità dei Magnum con i suoi cori anthemici; “Spellbound” è l’epica guerriera di “We rule the night” (la canzone che i Manowar avrebbero voluto comporre negli ultimi vent’anni senza riuscirci…) e la teatralità folk dell’accoppiata “Remembrance for the brave/Red” (se qualche regista si vorrà cimentare con un nuovo “Braveheart”, cui la song è ispirata, avrà già la colonna sonora pronta…); ma “Spellbound”, come canovaccio AOR pretende, è anche la pura dolcezza delle sue power ballad (e per chi scrive, “Wonderland” è la più emozionante della decade).

E anche quando il disco scende dalle sue vette e si fa più “ordinario” (“Eclipse”, “The Phantom”) sono gli arrangiamenti complessivi e il tocco chitarristico di Burns a non far calare l’attenzione dell’ascolto e ad evitare l’effetto-filler. Il chitarrista di Oldham spazia in lungo e in largo con fraseggi e assoli di gusto assoluto prendendosi la scena spesso e volentieri, anche a scapito di Hughes.

Ma in tutto questo, “Spellbound” è anche un album tosto, con parecchie connessioni al metal tout court. Ed è quindi probabilmente il miglior esempio di album adult-oriented capace di incontrare i gusti del pubblico metallico.

E se anche questo non scalfirà pregiudizi e ostilità verso le sonorità AOR…beh…allora davvero mi arrendo!

For now the last cry of battle has returned to the glens
The clan fires are burning in the highland again
We’ll fight ‘till the flag of freedom flies overhead
Till the evil-hearted tyranny is dead
And the colour of the battlefield…is RED!

A cura di Morningrise