10 nov 2017

I 10 MIGLIORI ALBUM A.O.R. - CONCLUSIONI (Parte II)


Ci eravamo lasciati ieri, al termine della prima parte delle conclusioni, a metà decade ottantiana.

Ripartiamo perciò dal 1985. Altro anno mica da ridere. Tra i tanti, escono tre album AOR da menzionare obbligatoriamente.

Perché non possiamo lasciare fuori un personaggio fondamentale come Joe Lynn Turner. Rainbow, Malmsteen’s Rising Force, Deep Purple, Brazen Abbot…and many more. Ugola straordinaria ma anche musicista di livello. Il suo album solista d’esordio, “Rescue you”, è un mirabile esempio di AOR americano (da evidenziare che il risultato è dovuto alla partecipazione in fase di scrittura di un certo Alan Greenwood, che abbiamo già conosciuto nei Foreigner).

E poi: Seattle, stato di Washington. Prima della calata barbara delle truppe flanellate, la città cascadica aveva dato i natali ai Q5 di Jonathan Scott e Floyd Rose. Memorabile il loro “When the mirror cracks” in cui atmosfere cinematografiche e hard n’ heavy di classe si mischiano in un tutt’uno formalmente perfetto. L’AOR più metallico di tutti…

E ancora: Donny&Johnny. In ricordo del compianto Ronnie. La saga dei fratelli Van Zant non si esaurisce con i Lynyrd Skynyrd, ma prosegue con il duo omonimo. E il loro debut “Van Zant” è una gemma da riscoprire nel panorama AOR di metà decade (e poi “I’m a fighter” quanto pompa??).

Per il 1986, ci spostiamo in Europa. Anche perché esce il pluriacclamato “The final countdown” degli…Europe! A me fanno alquanto cagare, ma la title track ha segnato un’epoca (ricordo che la cantavamo in classe coi compagni…ed ero ancora in 4° elementare!). Norum comunque sapeva il fatto suo e la presenza di Tempest dava quell’aura glam al gruppo che gli consentì di sfondare nelle charts di tutto il mondo. Impossibile non menzionarli…

Ma in Europa quell’anno avrebbe dovuto avere maggior fortuna gli Outside Edge che diedero alle stampe quel discone che risponde al nome di “Running hot”. Mi piace definirli gli Ayreon dell’AOR, che fa pure una discreta assonanza…Infatti la band di Birmingham, città così cara ai metallari di tutto il mondo, guidata dal cantante Tom Farmer, si esprimeva in questo disco al suo top, tra arrangiamenti robusti e originali, mettendo in evidenza un approccio spaziale, quasi siderale direi. Ma mantenendo un mood caldo e intrigante. Band da riscoprire.

Ma torniamo a bomba negli USA: 1987, anno di uscita di “Once Bitten…” dei Great White. E’ un AOR molto hard, nerboruto, davvero vicino al metal, quello della band capitanata dal fenomenale Mark Kendall (chitarrista da rivalutare assolutamente). L’ugola di Jack Russell è suadente e ammalia nelle hits che costellano il platter (dalla celebre “Lady red light” al prog-blues di “Rock me” fino alla conclusiva immancabile power ballad “Save your love”). E, una volta morsi, non potrete dimenticare il Grande Squalo Bianco

1988: l’abbiamo citato nel post sui Ten. Vinny Burns è un autore decisivo per l’intero hard rock. I suoi Dare ne sono la lampante dimostrazione e “Out of silence”, grazie all’apporto decisivo della voce e della tastiera di Darren Warthon (ex Thin Lizzy) è un disco da avere, memorabile miscela di folk, hard n’ heavy e venature epiche (ascoltatevi “Into the fire” o “The raindance” e capirete). Assieme agli stessi Ten, i migliori figliocci dei Magnum e di papà Catley.

E chiudiamo la nostra carrellata “riparativa” con l’ultimo anno della decade: nel 1989 esce l’omonimo debut dei Bad English. Come detto per gli Asia, nonostante il disco sia di pregevole fattura e avrebbe meritato maggior spazio, abbiamo deciso di non inserirlo nella nostra top ten per la natura di “supergruppo” dei B.E. Quando metti assieme dei fenomeni come Jonathan Cain e Neil Schon (Journey), John Waite (The Babies) e Deen Castronovo (uno dei più grandi session drummer del mondo) il risultato è troppo facile da raggiungere…ci rimane la curiosità di chiedere a Cain e Waite cosa intendessero però con “The price of love”…

Ecco…ora mi sento un po’ più a posto con la coscienza. Per i metallari che ne hanno voglia, adesso ce n’è davvero abbastanza per approcciarsi, come detto, più che a un genere vero e proprio, ad un modo di intendere il rock e la creazione di un full lenght. E che racchiudeva in sé dicotomie tipiche del periodo: una sfrontata positività alternata a malinconie dell’anima; una concezione edonistica e individualistica della vita ma anche l’attenzione a quegli elementi comuni della socialità (pur non avendo la carica dissacrante e anti-sistema del Glam).

Quello che ci premeva trasmettere con la nostra Rassegna era semplicemente passare una realtà difficilmente opinabile: e cioè che dietro le tastiere cristalline, le produzioni laccate, le power ballad ruffiane, la struttura accessibile delle canzoni, i testi spesso banalotti, ecco, dietro a tutto questo, il vasto ed eterogeneo mondo AOR, nelle sue espressioni migliori, è stato creato da grandi musicisti, di grande preparazione non soltanto esecutiva, ma anche compositiva. E che, conseguentemente, hanno dato vita a grandissimi dischi Rock.

Ci sarebbero in realtà moltissime altre considerazioni da fare sull’Album Oriented Rock. Dal contesto storico in cui proliferò (la Guerra Fredda in atto e la american way of life degli USA reganiani, che avevano già tratteggiato durante la Rassegna sul Glam) al ruolo fondamentale, e invasivo, delle case discografiche e dei produttori di grido; dal ruolo di successo dei session men (molti dei quali riuscivano a garantire una professionalità difficilmente riscontrabili in tante band che non avevano fatto gavetta nell’underground); dalle influenze dell’industria cinematografica (che vedeva nell’AOR il miglior veicolo sonoro per i blockbuster dell’epoca) alla decadenza, accompagnata anche a volte da un incomprensibile stigma, di tutti quei gruppi che negli ’80 avevano avuto masse adoranti di fan all’indomani della Caduta del Muro di Berlino e all’avvento di una musica ruvida e disturbante come il grunge e l’alternative.

Ma saremmo troppo didascalici e pedanti. E quindi ci fermiamo qui. Sperando di aver dato una rapida e il più possibile esaustiva panoramica su queste sonorità che, se da un lato hanno già consegnato alla Storia la sua eredità e dato ad essa i suoi frutti migliori, possono comunque essere ancor oggi riscoperte. Anche se le radio ormai sono state soppiantate da internet e dalla musica digitale, coi suoi i-pad e i formato mp3, sostituendo vinili e musicassette (pur non avendone lo stesso fascino).

“AOR my love” avevamo scritto nell’Anteprima.

Ecco, dopo questo viaggio di oltre tre mesi, vi lascio e vado a spararmi in cuffia l’intera discografia dei Destruction

A cura di Morningrise