7 nov 2017

PARADISE LOST / PALLBEARER / SINISTRO: LIVE AT ELECTRIC BALLROOM, LONDON - 03/11/2017: UN RITRATTO ESPRESSIONISTA IN TRE CAPITOLI


1) I Sinistro manco sapevo chi fossero (mi sono ascoltato su YouTube qualche pezzo tanto per capire cosa mi sarei trovato sul palco); 2) Dei Pallbearer avevo sentito parlare un gran bene, ma anche di loro mi son dovuto ascoltare qualcosa in rete per farmi un'idea; 3) I Paradise Lost, modestamente, li conosco dal 1993, ma è anche vero che sono praticamente vent'anni che ho smesso di seguirli (solo perché dovevo vederli dal vivo mi sono ascoltato l'ultimo "Medusa", che a dirla tutta mi ha pure fatto schifo).
Chi dunque può essere meno titolato di me per raccontarvi questo concerto?

Venerdì 3 ottobre: manca qualche minuto alle sei e raggiungo trafelato l'Electric Ballroom, locale storico di Camden Town. Il tanto (da me) temuto sold out non si è lontanamente paventato: un martedì sera di fine marzo, nel medesimo luogo, a vedere i Mayhem (nemmeno quelli veri) si era decisamente in di più. Meglio così, il mio motto è "meno siamo meglio stiamo". Sono sereno e pure incuriosito: sento nel mio intimo che i tre sul palco sapranno, ognuno a modo suo, regalarmi grandi emozioni.
Per dovere d'informazione aggiungo che il popolo di stasera è in prevalenza metallaro, mentre si registra una presenza minoritaria di darkettoni & assimilati. Peccato: avevo sfoggiato l'abito delle grandi occasioni e persino i mocassini, perché con i Paradise Lost volevo fare il signore e distinguermi in eleganza.
Capitolo I: "Basta, ho deciso: mi trasferisco in Portogallo!"
Sono le 6:30 p.m. e siamo abbastanza in pochi sotto il palco per vedere coloro a cui spetta aprire la serata: i Sinistro. Se devo essere sincero, i portoghesi non hanno ancora messo perfettamente a fuoco la loro visione artistica: fra doom, gothic, post-rock e trip-hop, la loro proposta risulta assai dispersiva ed eterogenea, perfino all'interno del singolo brano. Eppure dal vivo sono notevoli e le migliori emozioni, stasera, le elargiranno indubbiamente loro.
Molto del merito va a Patricia Andrade, non solo cantante straordinariamente carismatica, ma anche front-man e performer di alto livello. Avevo appreso dalla rete che la Nostra è un'artista a tutto tondo, ed è facile cogliere nella sua intensa performance le sue doti di attrice e ballerina. Non è certo una bellezza, ma gli occhi son tutti puntati su di lei: il suo corpo è duttile e flessuoso, le sue membra si dimenano, si contorcono e vengono scosse come da attacchi epilettici per poi improvvisamente bloccarsi in pose innaturali. I suoi gesti non necessariamente vanno a tempo con la musica, ma il suo sguardo è dolce e pieno di affetto per il pubblico. La sua voce, infine, è potente e bellissima, e per quanto mi riguarda l'interpretazione di "Reliquia" finisce di diritto nei momenti live più intensi a cui abbia mai assistito in vita mia.
Ho pianto, forse perché sono fragile, forse perché sono un disgraziato, ma è stata anche la poesia del Portogallo a rapirmi e a spezzarmi il cuore. Nella musica, nel mondo evocato dai Sinistro c'è la vastità dell'oceano, la forza del vento, il fascino di una cultura europea, quella portoghese, che sta scivolando lungo la china della crisi, anno dopo anno, verso il Terzo Mondo, verso l'oblio. Che voglia che mi è venuta, stasera, di tornare, anzi trasferirmi, a Lisbona, salire le scale di pietra, entrare in un bar, sporgermi da uno di quei bastioni che si affacciano sull'immensità dell'oceano. Contemplazione, magia, introspezione: voglia di stare fuori dai ritmi frenetici, dal gelo della metropoli, fuori dal tempo come i componenti di questa band, dal look dimesso, quasi anacronistico, con quei loro lineamenti marcati tipici del sud Europa, con le loro barbe fuori moda e qualche chilo di troppo. La tentazione è di rinchiudersi in una custodia di chitarra e proseguire il tour con loro, fino al ritorno al paese natio, e là rimanere. Intensi.
Capitolo II: "Ha inventato tutto Paul Chain"
Ok, l'ABCD è sabbathiano, ovviamente, ma l'EFGH è tutto del Catena. Chissà se i Pallbearer hanno mai ascoltato un lavoro come "Alkahest", e chissà se lo hanno ascoltato coloro che da qualche anno a questa parte (almeno dal notevole "Foundations of Burden") celebrano i quattro americani innalzandoli allo status di paladini indiscussi del doom contemporaneo. Sarà il sound maestoso, evocativo ed al tempo stesso intriso di melodie dolenti, sarà il falsetto sornione di Brett Campbell, fatto sta che stasera il Paolone nazionale mi verrà in mente in più di un frangente. Ma non stiamo a polemizzare (Madonna, come siamo noiosi!): il doom è bello in generale, è bello sempre. E i Pallbearer lo sanno suonare bene.
Ecco una scena che riassume il senso del concerto: verso il secondo pezzo la chitarra di Devin Holt "scompare" misteriosamente. Il musicista si ritrova a mollare tutto per recarsi dietro all'amplificatore, lasciando Campbell e il titanico Joseph D. Roland (al centro della scena con il suo basso) a doversi inventare qualcosa per temporeggiare: prima sarà un duello all'ultimo sangue fra basso e chitarra (ai limiti del post-hardcore!), poi un tripudio di feedback assordanti che mandano in visibilio il pubblico (che nel frattempo è cresciuto decisamente in quantità). Campbell approfitta del caos turbinante per posare il suo strumento ed accorrere dall'altra parte del palco ed aiutare il compagno. Sembra tutto risolto, allora Campbell torna alla sua postazione, un sorso di birra, di nuovo la chitarra in mano e poi ecco che attacca la portentosa "Thorns" con i suoi riff granitici e gli immaginifici intrecci di chitarra (una sontuosa melassa sonora che pervaderà l’intera esibizione).
Un concerto eroico, epico, dove l'attitudine, il linguaggio hanno sovrastato l'identità dei singoli pezzi (cinque in tutto per una buona ora di musica). Chissà, forse i Pallbearer da un punto di vista artistico sono già finiti: si vede che sono dei grandi, ma questa loro grandezza sembra già collidere con scarsezza di idee ed una ispirazione in fase calante. Non sembrano possedere caratteristiche che li portano più di tanto lontani dai cliché del genere: i riff, i tempi, le melodie, le voci sono quanto di più tipico vi sia in ambito doom. Eppure sono portatori di una indubbia freschezza nel ripercorre vecchi schemi. E dal vivo, cosa non secondaria, ci sanno davvero fare: promossi a pieni voti!
Capitolo III: "La fatica di essere Nick Holmes"
La sequenza di brani trasmessi durante il sound-check dei Paradise Lost è a dir poco curiosa: Arcade Fire, Guns 'N' Roses ("Paradise City"), Slayer ("Post Mortem"/"Raining Blood"), The Cult. C'è esaltazione nell'aria, ma per quanto mi riguarda parte dell'entusiasmo scemerà con l'ingresso dei musicisti sul palco e con la confusionaria riproposizione di “From the Gallows”, dall’ultimo “Medusa”. Si percepisce immediatamente un "senso di scollamento".
Scollamento, anzitutto, fra i membri della band. Gregor Mackintosh, con il suo crestone punk, sembra uscire direttamente o da una band death-rock di inizio anni ottanta, o dal set di un reboot della saga di Mad Max. Sembra vivere nel suo mondo personale, fregandosene degli altri: piegato tutto il tempo sul suo strumento, non cercherà l'interazione né con il pubblico né con i compagni. C'è almeno da dargli atto che si farà un gran culo per tutta la serata. Una piacevole sorpresa, di contro, si è rivelata Aaron Aedy, che ho sempre pensato fosse il "miracolato che si è trovato al posto giusto nel momento giusto", e che invece (rasato anch'esso, ma conservando quei baffi e quel pizzo che si porta dietro dall'inizio della sua carriera) si è mostrato un buon interlocutore (sorridente, sempre disponibile con il pubblico) ed un musicista dinamico e preciso (suoi gli arpeggi, sue le ritmiche), nonché imponente nella presenza. L'idea del miracolato, semmai, l'ha trasmessa lo "sbiancato" Stephen Edmondson, che il physique du role non lo ha mai avuto. Ma tanto si sa che il basso non è così centrale nell'economia del suono dei Paradise Lost.
A soffrire più di tutti, però, è Nick Holmes, sia a livello di carisma (si presenta sul palco con la stessa verve di un geometra dell'Ufficio Sezione Urbanistica del Comune il lunedì mattina) sia a livello di prestazione vocale, assai fiacca fin dall'inizio e per tutta la durata dell'esibizione. La sensazione è quella di un uomo braccato, senza via di uscita: quando deve sfoderare il growl (secco e poco potente) egli sembra pensare ogni volta "ohiohi mi tocca sforzare le tonsille e farmi venire il maldigola..."; quando invece deve impiegare la voce pulita (inconsistente anche su questo fronte) sembra persino rimpiangere (e noi con lui) il meccanismo faticoso ma confortevole del growl. Tanto che spesso si vedrà costretto ad orientare il microfono verso il pubblico per guadagnare fiato (pratica che non vedevo fare così spudoratamente dai tempi delle prime comparsate dal vivo del Rob Halford solista). L'effetto, inevitabilmente, è quello del karaoke, dove Holmes (mostruosamente statico e svogliato) sembra quei giostrai muniti di megafono che al luna park cercano di convincere i visitatori a montare sull'ottovolante (altro giro, altra corsa!).
Ma anche musicalmente si può percepire il medesimo senso di scollamento. I Paradise Lost possono vantare una grande storia e la capacità di aver saputo dettare tendenze, cambiando pelle svariate volte. Con il ritorno all'ovile del metal estremo, tuttavia, i Nostri sembrano oggi soffrire di una sorta di bipolarismo, dovuto al fatto di possedere due anime ben distinte. Una è quella doom, che si rispecchia, a livello di pubblico, nei metallari quarantenni, molti dei quali conservano quelle fattezze arcaiche fatte di lunghi capelli con divisa nel mezzo, barbe sfibrate e giacchetti jeans senza maniche e pieni di toppe e spille. L'altra anima è quella goth-rock, dove le ragazze, in succinti abiti neri, si scatenano e i maschi intorno, contagiati dal loro entusiasmo, esultano e battono le mani come se fossero ad un concerto degli U2.
Sembra così di vivere due concerti diversi: irrompono i brani "pop", e di colpo si ride, si scherza, si balla, si canta, ci si abbraccia e persino si poga (un pogo da gentiluomini, questo va precisato). Tornano poi i brani doom e la platea improvvisamente si spegne: c'è chi va a prendersi un'altra birra (in occasione principalmente dei brani dell'ultimo album), chi va al cesso a pisciare (ogni riferimento al sottoscritto è puramente casuale), mentre nel frattempo si portano avanti i truci metallari, che, oscillando le loro teste forforose, assaporano avidamente il lato più decadente e funereo della formazione di Halifax.
Stando all'entusiasmo suscitato dai brani più orecchiabili, vien da chiedersi: ma che cazzo si son rimessi a fare il doom i Paradise Lost?!?
Quanto ai brani in scaletta, pur non conoscendoli in gran parte, confido nel fatto che i Para, come sempre, abbiano saputo selezionare e portare sul palco i loro frutti più gustosi. Per quanto mi riguarda, posso dire che si sono rivelati particolarmente efficaci gli estratti da "One Second" (la title-track e "Say Just Words", a cui è stato affidato l'onore di chiudere le danze). Che "Enchantment" ha regalato grandi emozioni, dall’introduzione di pianoforte (dove la gente non sapeva trattenere le risate dalla contentezza) allo sviluppo successivo (mai vissuti dei momenti così pansessuali durante un concerto, con due tipe totalmente fuori di testa che si strusciavano con chiunque in modo veramente invadente - cosa che non ci è dispiaciuto, beninteso). E che "Embers Fire" è stata letteralmente da lacrime (con il suo proverbiale wah wah e le sue ineguagliabili trame melodiche). Quanto a "As I Die", il brano che attendevo di più, essa si è rivelata una mezza delusione: un po' troppo pasticciata (cosa comprensibile a fine concerto) e con un Holmes veramente sotto tono che l'ha "decantata" con voce pulita (non ce la faceva più?).
Chiariamoci, non è stato un brutto concerto e l'entusiasmo mostrato dal pubblico è stato eloquente nel descrivere il successo della serata. L'impressione generale però, per lo meno ai nostri occhi raffinati, è che i Paradise Lost siano più convincenti in studio di registrazione che sugli assi di un palcoscenico. E che abbiano oggi una fama più grande di loro stessi.

In altre parole, i brani ci sono, è la band a mancare. Un paradosso che si spiega con il fatto che brani così belli ed ascoltati milioni di volte, pervasi dai quei riff che hanno fatto la storia di un genere intero (il gothic metal), vivono ormai di vita propria: tanto che tutti i puntini di sospensione lasciati dai musicisti in una esibizione non sempre impeccabile sono stati colmati dalla mente dell'ascoltatore. Insomma, un concerto più mentale che reale.
Quanto all'aspetto meramente materiale, quanto al sudore, all'elettricità, al contatto fisico, alle risate, alle lacrime, con i Satyricon, che per certi aspetti hanno avuto una storia simile, mi sono divertito immensamente di più (bello il mio Satyr...).