1 nov 2017

WOLVES IN THE THRONE ROOM: HANNO RAGIONE LORO! L'IPER-RECENSIONE DI "THRICE WOVEN"



Hanno ragione loro: facciano black metal, facciano ambient, facciano musica cosmica, facciano il cazzo che gli pare, tanto hanno sempre ragione loro!

Sono sereno quando ascolto per la prima volta un nuovo album dei Wolves in the Throne Room, perché so che ci sarà comunque da emozionarsi. E le emozioni non sono mancate nemmeno a questo giro con il fresco di stampa "Thrice Woven".


Che dire di più e di diverso rispetto a quanto è stato già detto da altri? L'album è uscito più di un mese fa e succulente anticipazioni erano disponibili in rete già da tempo addietro, dunque saprete già tutto: che i fratelli Weaver sono tornati nella loro veste più congeniale, il black metal; e che sono tornati in tre, con l'aggiunta del chitarrista Kody Keyworth, arruolato in pianta stabile dopo che aveva dato una mano sul palco nell'ultimo tour. E saprete anche che l'album si compone dei quattro classici lunghi brani (+ intermezzo) e che sono coinvolti nomi importanti come Steve Von Till ed Anna von Hausswolff. Ed ovviamente saprete che si tratta di un ottimo disco.

Noi tuttavia vorremmo raccontarvi di più, anche perché siamo ferrati in materia: seguiamo i Lupi della Cascadia da quando emisero i loro primi vagiti, peraltro con la pancia già piena di black metal norvegese, a cui i Nostri guardano da sempre. Ed oggi più che mai.

Potremmo partire  proprio da questo topic: il recupero in pompa magna della mitologia norrena. In questa che è ovviamente una scelta coerente con la visione artistica dei Nostri, abbiamo tuttavia scorto una contraddizione che in molti non sembrano aver notato, ma forse siamo noi ad essere i soliti rompicoglioni. I Wolves in the Throne Room si sono imposti e hanno costruito la loro credibilità non solo grazie ad ispirazione ed album bellissimi, ma anche per aver saputo trapiantare (operazione non semplice) umori tipicamente scandinavi in terra americana. C'erano già riusciti i Weakling e gli Agalloch, ma i fratelli Weaver l'hanno fatto meglio di tutti, complice l'attitudine misantropica e lo stile di vita "boschivo". Tanto che sono stati riconosciuti come gli inventori e capofila del Cascadian Black Metal.

E così, con naturalezza, si passava dai boschi di conifere e dai fiordi norvegesi all’oceano Pacifico ed alle maestose foreste di sequoie della Cascadia, suggestiva area del nord-ovest degli Stati Uniti, ai confini con il Canada. Essi aprirono così un varco sotterraneo che univa Nord America e Nord Europa attraverso le volte di un esoterismo ancestrale che accomuna tutti gli uomini nel loro rapporto con la Natura: un viaggio spazio-temporale che dalle viscere della terra ha proiettato i Lupi oltre le stelle, scaturendo da un oscuro passato e giungendo all'eternità immensa dell'Universo.

Bene, ottimo, perfetto: ma allora perché scendere nuovamente a terra ed andarsi a confondere in modo così compromettente con miti e leggende specificatamente del Nord Europa? Basti citare, a tal riguardo, la scelta eloquente di raffigurare in copertina il lupo Fenris.

Il legame con la Scandinavia, tuttavia, non si limita a rimandi eloquenti a livello di immagini, testi ed atmosfere, ma viene in questa circostanza rinsaldato, anzi consacrato, dalla scelta di reclutare la svedese Anna von Hausswolff, che presterà la sua magica ugola in un paio di brani. Eppure, noi che la von Hausswolff la amiamo perché la conosciamo dai suoi dischi (l'avevamo citata nel nostro pezzo su Chelsea Wolfe), la troviamo in questa circostanza un po' sprecata. Il suo è infatti un nome in forte ascesa ed assai chiacchierato, non solo a causa delle polemiche scaturite a seguito della diffusione di scatti fotografici che la immortalavano con una maglietta di Burzum, di cui fra l'altro si è dichiarata ammiratrice (e si, la ragazza ci piace proprio!). Ma al di là del marketing, la svedese si è affermata come autrice raffinata e musicista preparata (è una virtuosa dell'organo a canne); di recente si è persino cimentata nell'ambito della produzione e promozione discografica con la sua etichetta personale, la Pomperipossa Records. E con un CV del genere, francamente, ci saremmo aspettati un qualcosina di più, per lo meno a livello di originalità e contributo compositivo, considerato che negli ultimi anni la Nostra ha sposato la causa drone-ambient con esiti degni di nota. Insomma, la Nostra non fa né meglio né peggio di chi l’ha preceduta, ossia quelle “perfette sconosciute” reclutate in passato dai fratelli Weaver.

Da applausi veri e propri (ma di quelli che ti spelli le mani fino a sanguinare) è semmai la comparsata di Steve Von Till, che offre ai Lupi la sua chitarra acustica e il suo crooning apocalittico (dobbiamo ovviamente avere in mente il Von Till cantautore). Il suo contributo si rivelerà tutt'altro che un atto di presenzialismo atto a creare hype, conferendo al black metal dei Nostri inedite sfumature, del tutto pertinenti con la loro visione artistica e con le loro fascinazioni esoteriche.

Ed è su questo che i Wolves dovevano puntare, sulle contaminazioni con sonorità targate stelle e strisce: sul post hardcore, sulla psichedelia, sul cantautorato che affonda le radici in una America pre-adamitica (bella questa!). E non sulla Scandinavia!

C'erano del resto delle aspettative diverse dal solito per questo "Thrice Woven": vi era stata una trilogia assai impegnativa, poi voci di scioglimento, infine una parentesi "elettronica" che suonava tanto come pausa di riflessione in attesa di nuove intuizioni. Logico che nel momento in cui i fratelli non hanno deciso di mollare, bensì di proseguire, questo nuovo album avrebbe assunto i crismi della rinascita, di una rifondazione del percorso artistico su nuove premesse.

In questa ottica, la risposta a tutte le titubanze è stata evidentemente ripartire dal black metal: il cammino sembra infatti riprendere da "Celestial Lineage", ma invece di proseguire in avanti, procede a ritroso, con lo sguardo rivolto verso le effervescenze dell'indimenticato esordio. Ad essere maliziosi, questa potrebbe sembrare una scelta dettata da debolezza, dalla necessità di affogare le incertezze nelle sicurezze di una comfort zone in cui sentirsi e muoversi a proprio agio. Ma noi di Metal Mirror, al di là di tutte queste fregnacce, li capiamo i fratelli Weaver.

Ci figuriamo infatti i due figuri in una stanza piena di foglietti in cui sono state scritte le idee; ce li vediamo a dannarsi l'anima scartando una dopo l'altra tutte le possibili opzioni, Nathan con la testa fra le mani, Aaron che la scuote sconsolato. Hip-hop? Swing? Pianobar? Ma poi ecco che il primo si rizza in piedi spazientito e fa all'altro: "Ah frate', la vo' sape' 'na cosa? A me me piace il black metal, Meie, Darchetron, Empero, Burzumme, un ce posso fa' n'cazzo!" Ed eccoli di nuovo a comporre con entusiasmo, rigenerati nel black metal primigenio dei padri fondatori degli anni novanta e nel loro black metal che aveva segnato il nuovo millennio dell'estremo: quel black metal parimenti feroce e struggente, frastornante ed introspettivo, con quell'alternarsi di pieni e vuoti come solo loro sanno fare.

Perché possiamo sindacare sulle scelte (cosa fra l'altro antipatica e pure scorretta metodologicamente, se si parla di arte), ma poi c'è doverosamente da aggiungere che quello che i Wolves in the Throne Room fanno, lo fanno dannatamente bene. E quindi, attorno a quelli che potrebbero sembrare degli errori "tattici", i Lupi costruiscono il loro ennesimo capolavoro: da ascoltare e riascoltare, scoprendo ogni volta nuove sfumature, avvolti in struggenti melodie, storditi da un drumming perfetto (ma quante ne sa, Aaron!), commossi da una capacità di trasmettere e generare emozioni che è propria dei fuoriclasse.

Un orgasmo lungo quarantadue minuti, questo "Thrice Woven", a partire dall'incipit acustico dell'opener "Born from the Serpent's Eye", capolavoro di intensità black metal, fra saliscendi emozionali ed una seconda metà da infarto dove svetta la voce della Hausswolff. Per proseguire con gli umori doomish dell'ottima "The Old Ones Are with Us", squarciata dall'interpretazione magistrale di Von Till che si approssima a lidi neo-folk. E poi la forza visionaria e la violenza deragliante dei baccanali esoterici descritti in "Angrboda", che fra i brani in scaletta è sicuramente quello che più di tutti fa incetta di idee pescate dall’universo post-hardcore. Dopo cotanta maestosità, giunge provvidenziale l'evocativa "Mother Owl, Father Ocean", traccia atmosferica di estrema suggestione dove spunta nuovamente il canto della von Hausswolff, accompagnata dall'arpa sublime di Zeynep Oyku Yilmaz. E poi di nuovo a correre con gli undici impetuosi minuti di "Fires Roar in the Palace of the Moon", con la quale i Nostri realizzano la loro "I am the Black Wizards": le onde dell’oceano saranno il balsamo indispensabile per curare orecchie ed anima dopo le indicibili emozioni suscitate da questo brano.

E volete sapere una cosa? Anche a me "me piace" il black metal! Ed allora, Wolves in the Throne Room, avete ragione voi: fate ambient, fate black metal, parlate di rune o di sequoie, di proteste di metalmeccanici, fate cantare Nilla Pizzi, fate il cazzo che vi pare, tanto avete ragione voi!