24 apr 2018

PRIMORDIAL, MOONSORROW, DER WEG EINER FREIHEIT: LIVE AT ISLINGTON ASSEMBLY HALL, LONDON - 16/04/2018


Cosa può avermi spinto ad assistere ad un concerto dei Primordial?
Anzitutto l'aver assistito ad un concerto degli Epica: bravi & belli quanto volete, ma troppo miele nelle mie malefiche orecchie. Avevo dunque bisogno di tornare a casa, avevo bisogno di black metal. E se i Primordial non suonano più black metal, ci avrebbero pensato gli altri nomi nel bill a soddisfarmi: i tedeschi Der Veg Einer Freiheit, realtà che seguo con interesse da diversi anni, e i Moonsorrow, che certo non hanno bisogno di presentazioni.

Vi è infine un legame di eterno rispetto che mi unisce ad Alan Nemtheanga, il quale mi ha regalato immense gioie "donando la voce" ai Void of Silence in quello che reputo uno dei miei album preferiti di sempre: "Human Antithesis". Senza contare che sono un insospettabile fan della prima ora dei Primordial: nel lontano 1995 acquistai fiducioso il trascurabile debutto "Imrama", che poi sarebbe rimasto l'unico loro CD nella mia collezione. Nonostante il cammino degli irlandesi non mi abbia mai conquistato veramente, per onestà intellettuale non mi sono potuto esimere dal seguirne i passi perlomeno da lontano. E dunque eccomi qua all’Islington Assembly Hall ancora una volta…

E' quasi un peccato gettare all'ortiche un raro pomeriggio di sole a Londra per introdursi in un antro oscuro ad ascoltare metal estremo, ma quando il dovere chiama non è possibile tirarsi indietro. Con il black metal l'asticella del disagio sociale si alza di una tacca: attorno a me vedo una brutta gioventù, via via condita da scampoli di una vecchiaia ancora più brutta. Se con i Batuschka potetti sperare in qualche personaggio più eccentrico e in frotte di procaci dark-lady, stasera il target sembra essere più basico che mai, con esseri dalle forme strane, oserei dire quasi aliene. Immergendomi in questo degrado ho come l'impressione di comportarmi alla stregua di quegli annoiati aristocratici ottocenteschi che amavano, in incognito, calarsi nei bassifondi dei quartieri più malfamati per ubriacarsi e giocare d'azzardo. Seguitemi dunque in questa mia discesa negli inferi...
Girone I: "Ma quanto è bello il black metal"
Un notturno di Chopin è la migliore "chiamata alle armi" che i Der Weg Einer Freiheit potessero concepire per radunare i propri adepti intorno al palco. Attivi discograficamente dal 2009 e con all'attivo quattro pregevoli full-lenght, i tedeschi offrono una vincente miscela fra sonorità classiche e derivazioni post, vedendo come punto di riferimento fondamentale i primi impetuosi Emperor. Per questo motivo ci piacciono molto i Der Weg Einer Freiheit: nello spazio di cinque brani (tutti molto lunghi e variegati) il quartetto tedesco offre una panoramica del loro estro, fatto di velocità, dinamismo e talento melodico. I suoni nitidi aiutano a valorizzare i singoli passaggi ed anche nei momenti più incandescenti i Nostri non sembrano mai perdere il controllo, continuando ad operare con estrema precisione.
A piacerci più di ogni altra cosa è l'umanità che emerge da queste note e che trapela anche dal modo con cui i Nostri si atteggiano e si muovono sul palco: niente face-painting, niente lingue di fuori, niente fuochi d'artificio. E' questo il black metal che vogliamo vedere nel 2018: un black metal dimesso, timido, sincero, umano. E da fan del genere posso candidamente affermare che non vi è momento migliore in musica di quando un chitarrista black metal rimane da solo a riffeggiare prima della immancabile sfuriata finale: cosa che abbiamo puntualmente vissuto con "Zeichen", i cui ultimi tre minuti auguro a chiunque di poter ascoltare almeno una volta nella vita (a chi fosse interessato ad approfondire, consiglio quel gioiello che risponde al nome di "Unstille", a parere di chi scrive il lavoro più riuscito del combo teutonico). Ma ancora migliori saranno i minuti finali della conclusiva "Aufbruch": quando in particolare spunterà la voce pulita ed essa verrà squarciata da fendenti di abrasivo screaming (momenti di pura estasi sonora che evocano la mitica "I am the Black Wizards") potremo sostenere di aver vissuto non solo il miglior momento del set, ma, con il senno di poi, dell'intera serata.
Girone II: "Finlandesità"
Va detto che i Moonsorrow è meglio ascoltarli che guardarli. Che si sta parlando di artisti di caratura superiore lo si capisce dalla sicurezza, dal sound solido, dall'intelligenza compositiva che contraddistingue molti dei loro passaggi: in una parola, quella capacità rara di risultare semplici e complessi, monolitici e vari al tempo stesso. Eppure a guardare come sono conciati molta della poesia di cui è impregnata la loro musica va francamente a puttane. Già il fatto che Ville Sorvali si presenti sul palco berciando al pubblico ed impugnando una lattina di birra non è il massimo, ma a far cadere le palle è il look adottato dai cinque: una specie di face-painting striato di rosso (con effetto fra l'horror e lo splatter) che fa sembrare i Nostri un gruppo di mendicanti malmenati.
Tolto questo aspetto, il set dei finlandesi fila liscio che è una bellezza, forte di un sound fieramente bathoriano, ma che porta con sé quel gusto progressivo che ha saputo animare i lunghi brani di Opeth e primi Katatonia. Il tutto pervaso da un forte spirito finlandese che  accomuna i Nostri a tutti i loro conterranei.
Devo ammetterlo: a me non è mai piaciuta nel metal questa finlandesità, che descriverei come una sorta di circolarità saltellante che potrebbe scaturire dalla tradizione folcloristica locale come dalla innata indole alla baldoria, dato che bere in Finlandia è lo sport nazionale. Eppure la Finlandia, quando vuole, sa essere fottutamente oscura, torva, misteriosa, più di quanto riescano ad essere le cugine Norvegia e Svezia (vedasi il profilare di realtà funeral-doom nelle lande di Babbo Natale): boh, saranno le lunghissime notti invernali, sarà la tundra, sarà per il fatto che come paese è più isolato rispetto al resto dell'Europa.
Sei infinite-song (di cui tre tratte dall'ultimo nato "Jumalten Aika") per un flusso di emozioni inarrestabile che ha visto il prevalere delle peculiarità di questa band unica nel panorama estremo. Apertura e chiusura sono affidate a pezzi da novanta come "Pimea" (da "Verisakeet") e "Kuolleiden Maa" (da "Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa"): se con la prima i Nostri mettono in chiaro le cose con un sound belligerante determinato da spietati mid-tempo, riff quadrati e il continuo alternarsi dello screaming belluino del front-man/bassista ed i cori odinici delle due asce Henri Sorvali e Mitja Harvilahti, con la seconda (un quarto d'ora di intuizioni melodiche vincenti) si svela il lato più malinconico dei finlandesi, dove le orchestrazioni ad opera di Lord Euren non ricoprono affatto un ruolo secondario.
Ma le gioie più grandi vengono inaspettatamente da un episodio dell'ultimo album, "Mimisbrunn", presentata come un "pezzo lento". In effetti, dopo una evocativa introduzione acustica, tutta la prima parte incanta per ispirati arpeggi elettrificati e tempi fluidi; a stregarci definitivamente, tuttavia, è stata la seconda parte, ben più dinamica e con un paio di accelerazioni al cardiopalma (da lacrime il finale sparatissimo che ha impegnato tutti i musicisti in un forsennato tour de force che ha svelato lo spirito più autenticamente black metal della band).
Insomma, per chi non lo avesse capito è stato un gran concerto quello dei Moonsorrow, peccato solo che quello stronzo davanti a me che mi ha occluso la visuale tutto il tempo con il cellulare e che infine ha tentato di surfare sulle nostre teste non si sia rotto l'osso del collo quando alla fine è cascato impietosamente a terra…e non abbia, nella caduta, smarrito il fottuto cellulare (ritrovato in extremis grazie a qualche anima pia). Del resto non si può avere tutto dalla vita…
Girone III: "Monday Bloody Monday"
(Da notare che il 16 aprile era lunedì – da qui il brillante (…ehm) gioco di parole con la nota hit degli U2) Se per i Der Veg Einer Freiheit abbiamo citato gli Emperor e per i Moonsorrow abbiamo scomodato Bathory, per i Primordial il nome da tirare fuori è niente meno che quello dei connazionali U2! Non so come spiegarlo, ma c'è nella musica degli irlandesi una sorta di carica epica, uno slancio libertario, un impeto rivoluzionario che si respirava nei primi lavori degli U2. Chissà, saranno le chitarre in delay, le percussioni trottanti, le continue declamazioni dell'infaticabile Alan Nemtheanga, trascinatore come pochi se n'è visti in giro.
Insomma, il suono è vibrante e ciò supplisce in parte una generale approssimazione esecutiva che penalizza la resa sonora complessiva. Non aiutano i suoni rimbombanti e riverberati. Il volume inoltre parrebbe troppo alto (o saranno le orecchie fuse, visto che siamo al terzo concerto della serata?) e questo fa sì che dagli amplificatori esca un amalgama terribilmente pastoso, con le due chitarre a duellare in perduranti dissonanze e il rimbombo del basso in sottofondo. In questo caos spicca il buon Alan che senza tregua corre in avanti e indietro, si inginocchia e si rialza, gesticola ed agita continuamente l'asta del microfono, incalza il pubblico ed interagisce direttamente con gli spettatori delle prime file: non si può certo dire che il Nostro si sia risparmiato per le due ore abbondanti di concerto. Quanto alla prestazione vocale, essa non sembrerebbe risentire più di tanto da tutto questo dimenarsi (un plauso alla resistenza fisica!), ma nel passaggio da disco a palco qualcosa indubbiamente si perde.
Chiariamoci: Nemtheanga è un grande, uno che avrebbe potuto figurare tranquillamente nella nostra classifica dei dieci migliori cantanti delmetal estremo, ma dal vivo la sua voce suona piatta, uniforme, le sue capacità interpretative sbiadite rispetto a quanto è possibile udire su disco. E perché poi conciarsi come un pagliaccio? Face-painting e stracci lo fanno sembrare un miscuglio fra un beduino ed un reduce dalla guerra in Afghanistan: tutto ciò, inoltre, cozza con quel fare dimesso, con quell'umanità, con quella sincerità che avevamo apprezzato poco prima nei Der Veg Einer Freiheit. No, Alan, non mi fai sentire a casa: è colpa mia, non tua, perché è da più di venti anni che sei a giro e dai ancora il massimo, ma sei troppo esagitato stasera per le mie coronarie.
Quanto ai brani proposti, viene dato comprensibile risalto all'ultima fatica discografica ("Exile Amongst the Ruins", da cui sono riproposti ben cinque episodi, fra cui risalta la bellissima ballata "Stolen Years"), con un occhio di riguardo per il capolavoro "To the Nameless Dead", che con i suoi tre estratti viene eletto dalla band stessa come album più importante della carriera: e proprio ad esso viene conferito l'onore di chiudere le danze tramite la travolgente "Empire Falls", cantata con esaltazione dal pubblico intero nel momento più concitato ed esaltante della esibizione.
Da segnalare inoltre le convincenti esecuzioni di "God to Godness" e "The Coffin Ships", gli episodi che più di tutti si spingono nel passato della band (rispettivamente da "Spirit the Earth Aflame", 2000, e "The Gathering Wilderness", 2005) e che con i loro saliscendi emotivi rappresentano la genesi di quella cifra stilistica che avrebbe poi caratterizzato la mirabile evoluzione melodica degli irlandesi.
Scendere troppo nel dettaglio è tuttavia inutile, in quanto, come si diceva, i Primordial hanno eseguito la loro "lunga canzone" di due ore, qua scossa da furibonde sparate memori di un passato estremo, là declinata in momenti di grande pathos (quasi da accendino, oserei dire se non fossimo nell'era degli smartphone), ma sempre cavalcando quella vena epica che, paradossalmente, riconduce gli irlandesi a territori prossimi a quelli del metal classico (con vocalità non lontane ad un Warrel Dane ipervitaminizzato).
Si, perché è di questo che stiamo parlando: se non vi fosse quella ispirazione melodica che guarda ancora alla tradizione del black metal degli anni novanta (stagione che i Nostri hanno vissuto direttamente, questo va ricordato), la musica oggi suonata dalla band potrebbe essere definita come una sorta di epicmetal sui generis che non trova molti riferimenti al di fuori della storia della band, cosa che ovviamente le fa onore.
Sebbene negli album i Primordial suonino indubbiamente meglio (più tonici, più brillanti), il bilancio di stasera è indubbiamente positivo. Il black metal è sempre il black metal, anche quando fa di tutto per non esserlo…