28 apr 2018

RECENSIONE: "UNSUNG PROPHETS & DEAD MESSIAHS" (ORPHANED LAND)



Dopo i primi due/tre ascolti, credo che una stilettata nel fianco mi avrebbe fatto meno male. Mi son detto Ok, abbiamo perso anche loro…un altro amore di gioventù che mi abbandona. Si, l’ultima fatica dei miei adorati Orphaned Land, splendido titolo a parte, mi pareva una mezza delusione. A bruciapelo, ritenevo che, su 63’ di durata del platter, fossero di “livello orphaned-landiano” meno della metà, circa 25’.

Il perché era presto spiegato: se la sublime musica degli israeliani si era caratterizzata da sempre per essere massimalista sì, ma non barocca; epica ma mai pomposa; orchestrale senza dover ricorrere ad un’orchestra vera; colta ma non snob; ricercata ma mai fine a se stessa; profonda nei contenuti senza essere stucchevole…ebbene, le caratteristiche di questo “Unsung Propehts & Dead Messiahs” mi sono apparse in larga parte esattamente quelle su descritte (ma dal “lato negativo”).

Inutile far tanti giri di parole: il disco si basa su due perni, due fulcri principali, l’opener “The cave” e la mediana “Chains fall to gravity”. Sono gli unici due brani lunghi del lotto (assieme parliamo di quasi 18’ di musica) ma soprattutto sono le uniche canzoni in cui la scrittura scorre elegante, incisiva e al contempo fluida, nelle quali l’amalgama di tutte le diverse influenze che hanno da sempre caratterizzato la band (death/doom/heavy classico/folk/prog) si riconosce in modo credibile e ispirato.

In mezzo a queste due gemme (cui va aggiunta il toccante, opethiano outro “The manifest – Epilogue”, davvero valido) troviamo tutte songs medio-corte (da 3/4/5 minuti), in cui i Nostri sembrano preoccuparsi più della forma che della sostanza. Esecuzione, produzione e missaggio inappuntabili, quindi; ma che fanno da cornice ad un metal che troppe volte ci lascia la sensazione di essere alquanto patinato, fortemente, troppo marcatamente sinfonico; e in cui da un lato i primigeni elementi death-doom sono sommersi dagli arrangiamenti pomposi, e dall’altro quelli oriental-folk sono tristemente canonici e messi quasi ad onor di firma (come a dire: siamo gli OL e quindi dobbiamo inserirli obbligatoriamente; vedasi la carina “Yedidi”, cantata in lingua madre ma lontana dalle “Sappari” del passato).

Ma la sensazione peggiore che avevo avuto in quella prima manciata di ascolti era quella di una band che non capivo dove volesse andare a parare, in cui il "mestiere" prendeva troppe volte il sopravvento sull'ispirazione e che, anche laddove riusciva a creare premesse interessanti, poi le lasciava là, abbozzate, non sviluppate a dovere (idealtipica di quanto detto è la suggestiva “All knowing eye”, brano che si distacca dal resto comunque per bellezza ed emozionalità).

Non so se per la dipartita dello storico lead guitarist Yossi Sassi o qualsivoglia altra ragione, gli Orphaned Land paiono aver perso l’orientamento, pigiando il pedale sui suddetti sinfonismi orchestrali (a tratti davvero troppo Therion-oriented come in “Poets of prophetic messianism”) e inutili contributi tanto di guest singer (come i cavoli a merenda "Tompa" Lindberg in “Only the dead have seen the end of war”) quanto di un numero spropositato di soprani, tenori e narratori. 

Le cose vanno persino peggio quando gli OL (per dare un contentino ai fan della vecchia guardia?) fanno i duri: sotto costruzioni simil death dalle ritmiche rutilanti, e il congiunto utilizzo delle growl vocals (“We do not resist”, “My brother’s keeper”, “Take my hand”, la già citata “Only the dead…”) l’impianto musicale rimane un mix symphonic/nu-metal mischiato a sonorità orientali buttate lì, come detto, quasi a forza.

Ma poi…poi che succede?

Poi succede che, per un patito della band come me, l’ascolto vale ed è piacevole comunque. Il dischetto è li che mi tenta, mi chiama in continuazione, e io cedo; ad ogni passaggio nel lettore cresce (sarà che posso godere della limited edition che presenta anche un secondo cd, il bellissimo “Orphaned Land & Friends”, uscito nel 2017 in cui troviamo vecchi brani live, remake di brani israeliani nonché una cover di “Jeremy” dei Pearl Jam) e capisco come la qualità del prodotto non solo sia sopra la media anche al di là della mia “puzza sotto il naso” e il mio “essere abituato troppo bene”, ma di come sia sempre magico ritrovarsi nel mondo, unico e inimitabile, della Terra Orfana.

Almeno fino ad oggi, una terra in cui, al di là di ogni legittima critica, è sempre emozionante vivere…

Voto: 6/7

Canzone top: “The cave”

Momento top: l’interpretazione vocale di Farhi in “All knowing eye”

Canzone flop: “Left behind”

Etichetta: Century Media

Dati: 13 canzoni, 63’

A cura di Morningrise