22 lug 2018

METAL E DINTORNI: MA COSA DIAVOLO E' IL NEO-PROGRESSIVE?


Nel 1991 Steven Wilson debuttava discograficamente con “On the Sunday of Life”. Il musicista inglese si muoveva dietro al monicker Porcupine Tree, che solo successivamente avrebbe rappresentato una band vera e propria: il debutto dei Porcospini non era altro che una raccolta di registrazioni di gioventù di Wilson che, facendosi carico di tutti gli strumenti, si muoveva in modo naïf fra psichedelia, cantautorato, rock sui generis e, tutto sommato, poco prog.

Nello stesso periodo Vegard Sverre Tveitan, in arte Ihsahn, metteva su con il compare Samoth quella che poi sarebbe divenuta una delle realtà più leggendarie del black metal: gli Emperor. Certo, i Nostri si sarebbero distinti fin da subito per una spiccata propensione sinfonica e, se vogliamo, progressiva, tuttavia ciò addolciva di poco una proposta che, nonostante l’impiego di tastiere, rimaneva decisamente estrema.

Nessuno all’epoca avrebbe mai potuto lontanamente pensare che un giorno i due avrebbero albergato sotto la medesima bandiera: quella del neo-progressive.

La definizione di neo-progressive, in verità, nasceva all’inizio degli anni ottanta per indicare formazioni come Marillion, Pallas e Pendragon che, dopo il tramonto della gloriosa stagione prog degli anni settanta (offuscata dall’avvento prima del punk e poi della new wave) intendevano recuperare la perduta attitudine per l’originario spirito progressivo. Grazie a questo fermento di rinascita, i canoni del prog classico (in particolare quello più magniloquente, teatrale ed attento al lato estetico - Pink Floyd e Genesis in primis, con un occhio di riguardo al percorso solista di Peter Gabriel) venivano riletti tramite le sonorità patinate degli anni ottanta: non proprio roba per tutti i gusti (per certi versi in controtendenza con il trend minimalista dei suoni sintetici di quegli anni), ma onesto negli intenti e lodevole nei risultati.

Dopo quasi un ventennio di distorsioni e sonorità “alternative”, da qualche anno a questa parte l’etichetta del neo-progressive sembra essere tornata in voga, non tanto per designare stilemi che si rifanno alla tradizione del rock progressivo classico, ma quanto per descrivere uno spirito di libertà che sembra spingere molti artisti contemporanei ad uscire in modo costruttivo dal formato canzone integrando sonorità molto distanti fra loro. Se una volta il progressive intendeva superare i confini del rock tramite una visione colta che contemplasse jazz, musica classica, avanguardia ecc., oggi il progressive è un universo che ha allungato i suoi tentacoli fino a toccare l’elettronica, l’ambient, il pop, il post-rock, il metal, persino quello più estremo, senza rinnegare il punk e le sonorità alternative, da sempre antitesi del verbo progressivo tout court.

A me piace questa nuova concezione della musica prog, sebbene da un punto di vista stilistico non presenti tratti caratteristici tali da poter essere sistematizzata in un qualcosa di preciso.

Torniamo dunque a Wilson, il quale trovò maggiore visibilità paradossalmente tramite il “tanto ostracizzato” metal, notoriamente non visto di buon occhio negli ambienti prog. Con i Porcupine Tree Wilson ha fatto sempre ottima musica, ma quel tipo di ottima musica che, mettendo insieme tante cose, finisce per non avere un target di pubblico preciso. I Porcupine erano un fenomeno di passaparola, piacevano a certa critica, ma alla fine non avevano un pubblico vero e proprio. I loro fan si disponevano a macchie di leopardo nella più ampia geografia del rock. Questo perché i Porcospini erano troppo sofisticati per il rocker, troppo laccati per l’amante della fumosa psichedelia, troppo ricercati per l’alta classifica e, tutto sommato, troppo poco virtuosi per i veri segaioli del prog. Le vendite ne risentivano e nessuno avrebbe detto (eravamo già nel nuovo millennio) che un giorno Wilson sarebbe divenuto una sorta di guru per un nuovo genere in un’epoca in cui i generi non sarebbero più esistiti.

Le cose cambiarono con “Blackwater Park”. “Blackwater Park” non è un album dei Porcupine Tree, bensì degli Opeth, che ricorsero a Wilson per la produzione. Per Akerfeldt e soci Wilson fu ben più di un tecnico: egli fu consigliere, collaboratore e persino amico. Gli svedesi erano già su un altro pianeta, ma la collaborazione con Wilson li lanciò su un’altra galassia. Arrangiamenti mai sentiti nel metal, idee, finezze, preziosismi, sfumature, cromatismi: il potenziale degli Opeth finalmente fioriva in tutta la sua bellezza.

Nel frattempo ebbe inizio quel movimento, in senso contrario, che avvicinò Wilson al metal. Wilson non si è mai snaturato, ma a partire da “In Absentia” (per proseguire con “Deadwing”, “Fear of a Blank Planet” e “The Incident”) elementi metal hanno iniziato a far parte della sua visione artistica. E per elementi metal intendiamo distorsioni più pesanti, riff taglienti, ritmiche che a tratti si facevano serrate, l’impiego della doppia cassa (eloquente in tal senso è la porzione centrale della bellissima “Arriving Somewhere But Not Here”, che vedeva fra l’altro la partecipazione dello stesso Akerfeldt). E così per magia Wilson iniziò a vendere i dischi perché i metallari (che si accorsero finalmente dell’esistenza dei Porcupine Tree) effettivamente comprano ancora dischi.

Con l’uno-due “Blackwater Park” (2001)/“In Absentia” (2002) fu innescato a mio parere quel meccanismo che avrebbe condotto alla nuova fase del prog-metal. Questo processo di osmosi (da prog a metal e viceversa) si verificò in anni in cui i Radiohead professavano il verbo del minimalismo esistenziale, i Meshuggah imponevano il djent come nuova forma di musica progressiva e il post-metal dei Tool influenzava mostri sacri del prog-metal come Dream Theater e Fates Warning (influenza lampante in album come “Six Degrees of Inner Turbulence” e “Disconnected”). Gli stessi Tool, nel 2001 con “Lateralus”, avevano imboccato una via che dilatava ed infittiva ulteriormente le trame dei loro brani.

L’intera pangea progressista si stava dunque muovendo verso una versione del prog più intimista che, senza rinunciare alla complessità esecutiva e concettuale, lasciava da parte i barocchismi e il fare pomposo che avevano significato l’obsolescenza della versione classica del genere. Da questa nebulosa informe, emergeva chiaramente la sagoma di Wilson che con la sua carriera solista ha successivamente rappresentato la perfetta integrazione fra tradizione e modernità, ponendosi alla regia di una concezione della musica progressiva che connettesse pattern elettronici, virtuosismi rock ed introspezione cantautoriale, con una taratura “pop” che gli ha permesso, nel tempo, di guardare a fasce più ampio di pubblico.

C’è da aggiungere inoltre che un pregio enorme del Nostro è di essersi imposto da subito come autore intelligente senza mai risultare ostico o irretito nelle sue stesse seghe mentali di musicista (trappola in cui è caduto più di un musicista dedito al prog). Nella sua ricerca Wilson non ha mai smesso di comunicare con i suoi ascoltatori, mettendo melodia, buon gusto ed equilibrio come basi della sua personale ricetta.

La visione del mondo musicale di Wilson si è poi ampliata ulteriormente. Da un lato curando le ristampe del catalogo di band storiche come King Crimson e Jethro Tull; dall'altro operando dietro al mixer per quelle formazioni metal che si muovevano oramai al di fuori dei confini del metal stesso. Un nome su tutti: gli Anathema, resuscitati con “We’re Here because We’re Here” proprio sotto la supervisione artistica di Wilson. E’ da quel momento che, con band come gli Anathema, ha iniziato a proliferare l’uso/abuso del termine neo-progressive anche per realtà che poco avevano a che spartire con il progressive tout court. Gli Anathema sono proprio l'esempio migliore per rappresentare questo fenomeno: nel nuovo corso costoro avevano perlustrato il mondo radiohediano non perdendo di vista certa maestosità pinkfloydiana (di marca principalmente gilmouriana) corteggiata fin dagli esordi, ma senza mai inerpicarsi lungo progressioni che complicassero eccessivamente i brani. L’aver iniziato ad infiocchettare i brani con arrangiamenti elaborati e suoni molto curati è bastato a far sì che la musica dei fratelli Cavanagh venisse catalogata come progressiva.

Lo stesso metro è stato utilizzato con molte altre band dagli stili estremamente diversi: Katatonia, Ulver e persino con i lavori solisti di Ihsahn, tramite i quali il Nostro ha creato una miscela avvincente che ha saputo mettere accanto prog ed avanguardia, elettronica e metal estremo. C’è da rilevare infatti un altro fatto interessante: il growl, lo screaming, il metal estremo sui generis oggi non fanno più paura al prog, tanto che stanno proliferando realtà di tutto rispetto che aggiungono alla loro variegata ricetta ingredienti death-metal, ospitando cantanti versatili che all’occorrenza sanno fare anche la “voce grossa” (Between Buried and Me, Ne Obliviscaris e The Contortionist giusto per citare i primi nomi che vengono in mente).

E’ chiaro, dunque, che in un calderone di artisti dai background lontani e promotori di sonorità altrettanto distanti, il comun denominatore non deve essere ricercato nelle coordinate stilistiche, ma altrove. Tale trait d’union può essere rinvenuto, per esempio, in un evento significativo come il “Be Prog!, My Friend” di Barcellona (uno dei festival più interessanti e vari degli ultimi anni, dove fra l’altro hanno presenziato molti delle band rammentate in questo articolo). Oppure potremmo risalire al bandolo della matassa seguendo le mosse delle case discografiche che si propongono di accudire tutte queste realtà. La storica Inside Out, per esempio, può vantare nomi di prestigio come Dream Theater, Fates Warning, Ayreon, Devin Townsend, Pain of Salvation, Shadow Gallery, Redemption, accanto ai quali presenziano con onore i “nuovi” campioni  del prog-metal come Haken, Leprous, Riverside ecc. Ma ben più interessante è la sfilza di artisti presenti nel catalogo della più giovane Ksope, fra cui troviamo, oltre allo stesso Steven Wilson, ai suoi Porcupine Tree e ai già citati Anathema, Katatonia ed Ulver, anche proposte fresche e decisamente interessanti come Gazpacho, Lunatic Soul, Iamthemorning, The Pinapple Thief, TesseracT, North Atlantic Oscillation ecc. In questo esercito di outsider non possiamo non segnalare gli Earthside, ultimi paladini di quel filone che potremmo definire emo-progressive (riuscito connubio fra prog e post-rock), nonché autori di quel gioiello autoprodotto che risponde al nome di "A Dream in Static". 

Se volessimo individuare dei tratti comuni in questa massa intricata di artisti, troveremmo le maggiori analogie nel metodo e nell’approccio alla materia musicale: ricerca, produzione professionale, attenzione ai suoni ed alla resa sonora per valorizzare ogni soluzione a prescindere dalla soluzione stessa. Un modus operandi che distingue questo “genere” da tutte le altre forme intelligenti di rock e di metal. Le stesse sonorità slabbrate e dilaniate del post-hardcore (che fino a qualche anno fa parevano rappresentare il fronte più avanzato per quanto riguarda innovazione ed uso della materia grigia nel metal), oggi sembrano aver perso la loro freschezza innanzi alle sofisticherie, sempre più spesso interessate a riscoprire i laccatissimi anni ottanta, del neo-progressive (un trend ancora una volta indicato da Wilson con il suo ultimo lavoro “To the Bone”).

In un mondo in cui le categorie classiche di ragionamento e classificazione smettono improvvisamente di funzionare, risulta riconoscibile come “movimento in fuga” a sé stante  quell’amalgama di artisti “orfani” di un genere che possono essere accomunati in termini di attitudine. Poco importa se fra un assolo di sax ed uno di hammond, fra riff thrash metal o beat elettronici, salta fuori un growl, oppure una voce trattata con il vocoder: tutto questo è semplicemente il “nuovo neo-progressive”, my friend....