26 lug 2018

RETROSPETTIVA SUI BLUE ÖYSTER CULT (1/3)




I più amati? No, non lo si può di certo affermare.

I più influenti? Neppure; quest’etichetta spetta di diritto a Iommy & co.

Allora i più popolari?! Menchemeno. I Deep Purple e i Led Zeppelin, da questo punto di vista, li hanno surclassati…

E allora come li possiamo definire, e che ruolo hanno avuto nella storia del Rock e del proto-metal, i Blue Öyster Cult?

Per chi scrive i BÖC sono stati semplicemente i più immaginifici, i più destabilizzanti e al tempo stesso, ingiustamente, i meno acclamati tra i padri fondatori dell’heavy metal.

Se a trattare la Jimi Hendrix Experience mi erano tremati i polsi, affrontare la redazione di uno scritto sui BÖC mi suscita sensazioni ancora “peggiori”. Forse perché tutto sommato la J.H.E. aveva pubblicato appena 3 dischi e, con metodo, si poteva scriverne in sintesi e al contempo provare a risultare esaurienti.

Con i BÖC no. I BÖC sono un mondo a sé; un universo a sé; un universo enorme, stratificato. Pieno di “non detti” e di sottintesi. Carico di sfumature. E questo anche perchè parliamo di una carriera lunga una ventina di dischi (tra studio e live, senza contare raccolte e “best of”), ricca di colpi di scena, di cambi di formazione. Ma soprattutto di una musica talmente pregna di senso e culturalmente innovativa da influenzare gli stili di band appartenenti agli ambiti più svariati: dal metal classico (Iron) al thrash (Metallica); dal power americano (Iced Earth) al prog più elegante (Fates Warning); dal Glam (Twisted Sisters, Ratt) al grunge (Alice in Chains, Mudhoney); dai gruppi doom post- Sabbath (Candlemass, Saint Vitus, Trouble), fino allo stoner e al metal più vario e raffinato degli Opeth.

Da dove cominciare quindi? Beh, partiamo da lui allora. Dall’uomo da cui tutto prese piede. E della cui morte oggi ricorre il secondo anniversario. Si, proprio il 26 luglio del 2016, a causa di problemi polmonari, moriva Sandy Pearlman. Sandy era una sorta di “tuttologo”: critico prima e produttore musicale poi; ma anche professore, poeta, scrittore, manager e giornalista. E qualcos’altro mi dimentico sicuramente. 
Non musicista però; musicista no. Ma per Pearlman questo non fu un limite: ho una miriade di idee, scrivo musica e testi ma non ho una band mia? Poco male…ne fondo una! E così: mette assieme un po’ di musicisti di Long Island, gli procura un contratto con una casa discografica, gli scrive i testi per le canzoni. E li fa diventare i BÖC. Di fatto una risposta americana allo strapotere hard rock/heavy inglese.

Com’è nello stile di MM, ci dovremo dare una sorta di limite nonché una metodologia su cui impostare la nostra Retrospettiva, che vuole essere sì celebrazione e ricordo di una delle più grandi rock band di sempre, ma anche la consueta Guida pratica per il metallaro che non li avesse mai conosciuti o approfonditi. E che magari si è limitato a incrociarli solo per vie traverse (chi ha detto la cover di “Astronomy” dei Metallica su “Garace inc.”?). Ci soffermeremo quindi solo sull’essenziale, su quella prima fase di carriera corrispondente alla prima metà degli anni settanta che di fatto ha rappresentato un allucinante e oscuro viaggio sempre in bilico tra rigore compositivo, colti riferimenti musicali e letterari, e anarchica distruzione sonora

Partiamo perciò dall’inizio. Partiamo da…

Blue Öyster Cult” (1972) 

Del nucleo originario di Long island reclutato da Pearlman nel 1967, in questo debut ne rimasero solo tre quinti: Donald Roeser (il celeberrimo chitarrista “Black Dharma”), il batterista Albert Bouchard e il tastierista Allan Lanier. A questi, si aggiunsero gli ultimi due membri del quintetto delle meraviglie: Eric Bloom (chitarra ritmica e voce) e il fratello di Albert, Joe Bouchard al basso. Tutti grandi musicisti, e tutti, ad eccezione di Lanier, anche cantanti (anche se le linee vocali preminenti saranno sempre quelle di Bloom).

Per capire che ci si trovava di fronte ad unicum musicale, bastava osservare la straniante copertina di questo debut omonimo: dei binari ferroviari che si dirigono verso l’infinito siderale, affiancati a sinistra e a destra da pareti (?) di finestre chiuse, anch’esse dirette verso il medesimo orizzonte fatto di una miriade di fredde stelle. E il primo contatto con la musica degli americani non è meno shockante: “Transmaniacon MC” è una bordata nei denti da far paura. Signori, questo è già heavy metal a tutti gli effetti, un brano che è già manifesto sia della band che di quell’hard rock che era già, appunto, proto-metal. Sinuosa nei suoi saliscendi, cattiva e a tratti brutale (da notare l’incredibile lavoro di Albert dietro le pelli), il pezzo, guidato dalle vocals luciferine di Bloom e da riff portanti super incisivi, è un condensato, nei suoi 200” di durata, di rock malato e originale, gemma da accostare a quella “Fireball” dei Deep Purple che appena sei mesi prima aveva costruito un mattoncino miliare del nostro genere preferito.
 “I’m on the lamb but I ain’t no sheep” poi è un hard rock blues fumante, che non avrebbe stonato in un album di fine ’60 dei Cream, impreziosito da un assolo centrale al fulmicotone e da un testo originale e irriverente. Ma è la produzione di Pearlman, pulita ed essenziale, a far risaltare ogni brano per la qualità di un songwriting di caratura superiore. E la struggente, meravigliosa “Then came the last days of may” (da pianti il testo) ne è un fulgido esempio.

Per carità, l’album nel suo complesso non è perfetto nè ancora completamente a fuoco, seppur senza filler e/o cadute particolari. Diciamo che vengono miscelati e alternati diversi stili, tra rimandi come sopra accennato all’hard blues dei Cream (“Before the kiss, a redcap”) fino alla psichedelia più stralunata (l’accoppiata “Screams” – “She’s as beautiful as a foot”); dal rock ispirato e per certi verso rozzo della meravigliosa “Cities on flame with rock and roll” (con una coda deep-purpleiana spettacolare) fino a brani tipicamente obliqui, visionari e oscuri come “Workshop of the telescope” (le cui strutture verranno perfezionate in futuro) fino alla conclusiva, countreggiante, “Redeemed”, venduta alla band dal cantautore Harry Farcas.

Voto: 7,5

Insomma, “Blue Öyster Cult” per essere un debutto già qualcosa di davvero valido. Un disco contenente avvisaglie di un futuro folgorante. E che troverà piena realizzazione in

(segue la prossima settimana)

A cura di Morningrise