9 gen 2019

I BRANI PIU' INDISPONENTI DEL METAL - N.3: "A POCKET SIZE SUN" (TIAMAT)


Uno dei bocconi più amari che ho dovuto ingoiare nella mia lunga vita metallica è ritrovarmi al termine del capolavorissimoWildhoney” un brano inqualificabile come “A Pocket Size Sun”.

In piena rivoluzione del metal estremo, dove molte band gothic metal si rivelarono le più audaci sperimentatrici di nuove sonorità, sentivo i Tiamatcosa mia”. Scoperti con “Clouds” quando ancora si dovevano imporre come nome di punta nel panorama gothic degli anni novanta, attendevo il successore fra preoccupazione ed entusiasmo, come un padre alle prese con la nascita di un figlio.

Il primo ascolto fu a dir poco esaltante, con la prima metà dell’album persino superiore alle elevatissime aspettative. L’idea di un concept album dove i brani erano concatenati (scelta concettuale che faceva “molto Pink Floyd") era il quadro ideale per recepire le nuove composizioni scritte da Johan Edlund e Johnny Hagel, gli unici due superstiti della band. Brani della portata di “Whatever that Hurts”, “The Ar” e “Gaia”, collegati in un unico flusso sonoro da intro ed  intermezzi ambientali, erano quanto di meglio potesse desiderare l'appassionato di un metal estremo sviluppato in direzione psichedelica, progressiva, sinfonica. Ci piacevano i Tiamat riflessivi come quelli che ancora sapevano mordere; il canto oscuro di Edlund era la perfetta evoluzione dell'aspro growl utilizzato con sempre più parsimonia. E certo non ci dispiaceva l’uso/abuso delle tastiere (ad opera del produttore illuminato Waldemar Sorychta) e i sognanti assoli di marca gilmouriana.

Diciamo che fino a “Visionaire” si viaggiava sul livello del dieci e lode. Si poteva comprendere la necessità di smorzare la tensione con tracce più atmosferiche, fra cui la pur non esaltante “Do You Dream of Me?”, completamente cantata in pulito, la quale, perlomeno, aveva avuto il merito di risultare scorrerevole e portare un inedito sapore folk nel sound poliedrico dei Tiamat.

Poi "A Pocket Size Sun": la cagata definitiva, la voglia di strafare di Edlund che si traduceva in un brano indegno, fuori dalle sue corde, estraneo non solo alla “poetica Tiamat”, ma anche a quel paradigma pinkfloydiano che il Nostro aveva accolto per portare qualche novità nell’austero mondo del gothic.

Intanto la durata spropositata: otto minuti contro i quarantadue minuti di un album sì pregno di contenuti, ma tutto sommato tonico, asciutto, di durata contenuta. Otto minuti sprecati, buttati via, con un brano piatto, senza idee né guizzi degni di nota, indisponente dal primo all’ultimo istante. Ballata sorniona dagli umori balneari, "A Pocket Size Sun" è un brano in cui niente funziona: il giro di chitarra è fiacco, le strofe deboli, il ritornello non pervenuto e, sostanzialmente, il tema di fondo anonimo e ripetuto allo sfinimento, con in più l’affronto dell’ugola sprecata di Birgit Zacher, impegnata in un futile botta-e-risposta parlato con Edlund (e solo un metallaro degli anni novanta può sapere quanto era atteso e gradito un intervento vocale femminile).

Tutt'oggi, con sulle spalle una valanga di ascolti spazianti fra i generi più disparati (non è quindi l'intransigenza del metallaro a parlare), non mi capacito ancora di quanto questo brano sia brutto ed insignificante, sebbene (forse) sia giustificato dal concept basato sulla Natura (che forse Edlund avesse voluto rappresentare l'estate in una ipotetica descrizione delle quattro stagioni? Ma allora, caro Johan, non potevi riguardarti "Live at Pompeii" e magari prendere spunto da quelle composizioni dei Pink Floyd dove il sole c'è, ma è accecante e fautore di sublimi visioni?).

Insomma, un brano di merda che non è un anonimo filler né un semplice brano non riuscito. No, “A Pocket Size Sun” è fuori contesto, interrompe drasticamente un flusso magico ed è capace di affondare un album che rasenta la perfezione, occupandone impunemente quasi un quinto e lasciando un retrogusto amaro difficile da togliere, visto che è posto a conclusione del tutto. Da sola, questa traccia, è in grado di cambiare il volto di un ascolto altresì esaltante, mutandolo in qualcosa di incompleto, mutilato, macchiato in modo irreparabile. Per questo fa incazzare due volte!