17 apr 2019

"EMPATH", L'ALBUM "IMPOSSIBILE" DI DEVIN TOWNSEND




Impossibile.

D’istinto, questo è stato l'aggettivo che mi è venuto in mente dopo il primo ascolto di “Empath”. 

Impossibile da concepire, come prima cosa. E, secondariamente, impossibile da scrivere e realizzare.
Contestualmente, la vivida impressione che il genio di Vancouver stavolta l’avesse fatta davvero fuori dal vaso. Fallendo.

Per chi scrive, conseguente senso di amarezza. Manco il tempo di celebrarne le gesta, esaltarne la musica e riassumerne la carriera nella nostra mega Retrospettiva dedicata, che ecco che arriva ‘sto tomo di 74’ (oltre 2 ore per la versione Deluxe) che spariglia le carte gettando noi, suoi fan indefessi, nello sconforto.

“Empath” infatti spiazza. Spiazza a partire dalla scelta di mettere in soffitta (si spera temporaneamente) la D.T. Band, e i suoi 4 straordinari musicisti, per rispolverare il monicker solista a 12 anni da “Ziltoid The Omniscient” (si, certo, con la parziale eccezione nel 2014 del suo sequel “Dark Matters”, all’interno del doppio “Z²”).

Ma spiazza soprattutto perchè non è intellegibile dalle nostre numerose categorie mentali con le quali, noi metalheads di vecchia data, riusciamo a capire, decodificandoli già di primo acchito, i dischi che ascoltiamo. Capacità che, se da un lato facilita l'assimilazione dei dischi in modo più rapido rispetto a quando eravamo pivelli alle prime armi, dall'altro rendono raro il "tuffo al cuore", l'emozione di ascoltare qualcosa di nuovo ed elettrizzante per le nostre orecchie e la nostra pancia.

Contorniato da una marea di guest musician e voci aggiuntive (tra cui un intero coro femminile, oltre alle sue fidatissime Ché Aimee Dorval e la Divina Anneke), Devin si, e ci, immerge in una fantastica storia psicologica. Il problema è che la psiche in questione è la sua, il che rende il prodotto non propriamente abbordabile. Detto esplicitamente, è un casino totale! Compreso il plot del concept (una sorta di soggiorno psichico in un’isola tropicale abitata da bellissimi animali e mostri terribili, con Devin in versione novello Robinson Crusoe).

Passando a ciò che più ci preme, cioè la musica, come prima cosa scordatevi la sofisticata accessibilità dello splendido “Transcendence”. Se da un lato le caratteristiche peculiari del Devin-sound rimangono ben riscontrabili, è il suo camaleontismo (che, per il sottoscritto, aveva trovato in passato il miglior equilibrio nell’ottimo “Deconstruction”) che qui viene davvero portato ai limiti estremi. Nel suo consueto approccio progressivo, il folle genio canadese mette da parte il sinfonismo del disco precedente per abbracciare un'orchestralità spinta, con arrangiamenti maniacalmente curati. 

Se da questa “scenografia” che fa da sfondo a tutti i brani, passiamo al “primo piano”, beh…la “messa in scena” è un qualcosa di inaudito, nel senso letterale del termine. Si mischiano infatti, quasi senza soluzione di continuità, brutalità death e soavi parti ambientali; riffoni iper-compressi e melodiche aperture solari; partiture nu/djent ed etnicismi che sembrano provenire direttamente da un rave su una spiaggia caraibica. Non manca poi l’elettronica, da sempre pallino del Nostro, che ben si amalgama a bordate math-thrash e a beat danzerecci. Già nell’opener, e primo singolo, “Genesis” possiamo trovare in 6 minuti la maggior parte di questa miscellanea stilistica che solo l’esperienza accumulata da Devin di maneggiare materiale così magmatico e fumante poteva tenere assieme e rendere credibile e professionale.

Anche la scrittura, di altissimo livello, disorienta, rendendo l’ascolto imprevedibile, mai rilassato: a tratti lineare, tanto da assecondare la forma canzone (come nel bel singolone “Spirits will collide”), a volte schizoide, nervosa, guidata da tempi dispari. Da un brano all’altro, ma anche da un momento all’altro nello stesso brano, potrebbe esserci un agguato sonoro, un pugno nello stomaco senza preavviso, un cambio di ritmo che dal metal estremo passi al free jazz, o dall’elegia orchestrale viri all’industrial. Le sensazionali “Sprite” e “Borderlands” sono esemplificative di quanto su descritto. Due brani che, di getto, paiono essere i punti deboli del disco. E che, col passare dei giri nel lettore, capisci che sono brani pazzeschi, punti di forza.

In un contesto del genere è facile capire quindi come non manchino azzardi sonori da funambolo del pentagramma: vedasi, all’interno della conclusiva suite “Singularity”, la giustapposizione della devastante violenza death del movimento “There be monsters” e il divertissement dadaista-zappiano “Curious gods” (probabilmente uno degli accostamenti più audaci dell’intera carriera di Devin) e nei quali il verso Selfish messiah, ripetuto al termine del primo, sfuma in quello in rima Try the papaya che apre il secondo!

Quindi: dopo le difficoltà che hanno accompagnato gli ascolti iniziali, il fastidioso disorientamento provato durante i primi passaggi nel lettore, il nervosismo dettato dal non trovare una chiave interpretativa nonchè la forte sensazione di primo, vero fallimento della sua carriera, beh…dopo tutto questo, ho capito. Al ventesimo ascolto, ok, ma ho capito che “Empath” è un discone della madonna che risulta deviniano al 101% ma contemporaneamente unico nella sua discografia, colorato più che mai, non paragonabile a null’altro composto in passato.

E ho anche capito che più se ne parla, provando a descriverlo, meno lo si afferra; più lo si analizza meno lo si comprende. Ascoltatelo nella sua interezza e basta! Le parole non gli rendono giustizia, sminuendolo.

Un’ultima cosa: questi 74’, se da un lato rappresentano un bel passo in avanti nella soggettiva visione artistica di Townsend, dall’altro danno anche una risposta alla domanda, che da tanto tempo ci poniamo sul nostro Blog, sulla strada che il Metal dovrebbe (per)seguire per dire qualcosa di nuovo, per rinnovarsi in modo fresco e credibile proprio nel 50° anniversario della sua nascita.

“Empath” può essere (...è?) una risposta. Destinata a durare negli anni…

Voto: 8,5

A cura di Morningrise