24 mag 2019

MOTORPSYCHO: LIVE AT 229 THE VENUE, LONDON (17/05/2019)...ED ANCHE UNA RIFLESSIONE SULLA MUSICA...


I Motorpsycho sono dei grandi. Cinquant’anni sul groppone, di cui trenta di carriera, avviata nel lontano 1989. Più di venti pubblicazioni e tour estenuanti, ogni serata una cazzo di scaletta diversa.

Capelli e barbe brizzolate, volti stanchi, ma ancora tanta passione, amore per la musica e per i loro fan. Quelli ahimè pochi, stando perlomeno ai presenti stasera al 229 The Venue, Londra. 

Un grande seguito, del resto, i Motorpsycho non lo hanno mai avuto, nonostante una carriera di tutto rispetto ed un nome di culto nei circuiti del rock indipendente. Chi li segue sa che il loro non è stato un contributo di grande innovazione nella storia del rock degli ultimi trent'anni, ma è indubbio che i norvegesi abbiano saputo assorbire e metabolizzare le influenze più disparate, ricomponendole in un suono personale e sempre spiazzante, persino per i loro stessi fan. Riuscendo, al contempo, ad attirare l’attenzione di qualche metallaro curioso. 

Ci si lamenta che oramai la vena creativa si è da tempo inaridita, ma ascoltare i Motorpsycho è sempre un piacere, quasi confortante, tanto più che, invecchiando, sembrano divenire sempre più nostalgici, guardando oramai esclusivamente a quel pugno di anni d'oro a cavallo fra anni sessanta e settanta. Gli ultimi due album, “The Tower” (2017) e “The Crucible” (2019), vengono criticati per aver barattato inni scanzonati e fughe psichedeliche con impegnative e seriose suite progressive che potrebbero apparir pretenziose a chi preferiva le fumose/rocciose alchimie di “Demon Box” e “Timothy’s Monster” o le spensieratezze di “Let Them Eat Cake” e “It’s a Love Cult”. Eppure, come esploratori alla Corte del Re Cremisi, i Motorpsycho ci suonano più sinceri e genuini di Steven Wilson: con meno spocchia ed interesse per gli aspetti della produzione, la loro personalità si cala che è una meraviglia negli stampi del progressive rock, senza rinunciare, peraltro, a sincerità, ispirazione, psichedelia e ruvidità stoner rock, da sempre loro prerogative. 

Proprio le ultime due prove discografiche rivestono un ruolo da protagonista nel presente tour, che certo contemplerà gradite incursioni nel passato e cover da intenditori: ben quattro questa sera (Love, Wishbone Ash, Gong e Steve Hillage gli artisti coverizzati) in due ore e mezzo di rock incendiario. 

Si parte con il quarto d’ora di “Year Zero (A Damage Report)”, episodio estratto da "Little Lucid Moments". A parere del sottoscritto questo brano, che neppure conoscevo, rimarrà il momento più emozionante della serata, a dimostrazione di come la musica dei norvegesi si sia rivelata di presa immediata: lunga introduzione strumentale che da blues lisergico si tramuta in rock incandescente, intermezzo lirico davvero suggestivo ed inaspettata accelerazione nel finale, a sprigionare le mai sopite energie rock’n’roll. 

La figura di Hans Magnus “Snah” Ryan (quintessenza dell’indefesso rocker di cinquant'anni - camicia a quadri, barba e capelli lunghi striati di bianco, occhi gonfi e chiusi), conquista la scena con le sue magie chitarristiche, accompagnato dal basso vigoroso del compare Bent Sæther.  Da applausi il drumming tentacolare del "nuovo" Thomas Järmir, indispensabile tassello nella svolta “prog” degli ultimi due album, nonché provvidenziale complice dal vivo, fra energiche rullate e sensibilità jazz ad impreziosire i momenti più soft. Da segnalare, inoltre, il contributo di sostanza di un quarto membro che, nonostante la pericolante forma fisica, si dividerà egregiamente fra chitarra, tastiere, moog ed effetti vari con l'obiettivo di ispessire il sound, forse un po’ sacrificato nelle ridotte dimensioni del locale. Ma in certi casi l'"effetto cantina" non stona: vibrante e frastornante elettricità sparata in faccia tramite una strumentazione rigorosamente vintage (impressionante la sequela di bassi e chitarre utilizzati durante l’esibizione, smistati puntualmente dal vecchio e barbuto roadie, altro pezzo  pregiato da museo di archeologia del rock!). 

Fatta eccezione di un gruppetto di cinquantenni deliranti che ne combinano di tutti i colori (saltano, si abbracciano, danzano, fanno cose strane), la gente per lo più stanzia immobile e in pensoso silenzio. E' piuttosto facile per noi fare la spola dal bar al palco, ma che palle questi personaggi mosci ed imbalsamati, nemmeno fossimo a teatro a vedere un musical della Disney. Nonostante l'atmosfera peace & love che come incenso si asperge dagli amplificatori, la nostra irrequietudine desta indignazione. C'è suscettibilità nell'aria: chi ti rimprovera perché dai fastidio con lo zaino sulle spalle, chi perché chiacchieri a voce troppo alta, chi perché inavvertitamente salti la coda al bar. Sembra di essere sotto assedio, anche se poi viene il dubbio che forse siamo noi i molesti...

Che frustrazione: siam tutti uomini qua, e nemmeno belli (ma perché le ragazze non ascoltano il rock nella sua forma più unta ed obesa? Vien quasi la nostalgia di quei concerti black metal in cui è avvistabile qualche magica dark-lady a sollevare l'animo!). Meglio allora chiudere gli occhi e rimontare sulla macchina del tempo targata Motorpsycho, che sempre norvegesi sono e che lanciano qua e là lampi della loro terra natia, immaginifici scenari sonici evocanti indomiti paesaggi nordici. Ma mentre ti pare di avvistare sul palco un'aurora boreale, ti rendi subito conto che si tratta della luce verde di un lurido bar dislocato lungo le assolate highway della West Coast, a  dimostrazione delle capacità alchemiche della band! 

Non ci sono hit che attendiamo in modo particolare, perché sappiamo che i Nostri suoneranno quello che vogliono come vogliono. Tutto è come deve essere: i singoli brani confluiscono uno nell'altro in una lunga jam sospesa fra rielaborazione, dilatazione ed improvvisazione. Certo, non ci sarebbe dispiaciuta l’esecuzione dell’accoppiata “Ship of Fools” (da “The Tower”) e “Feel” (da “Timothy’s Monster”) che in certe date precedenti erano state eseguite una di seguito all’altra: la seconda, trasognata, dolce, acustica, chiamata a disperdere la furia visionaria della prima, colossale suite progressiva. Ma non ci lamentiamo:  la scaletta saprà comunque rappresentare i molteplici volti del combo norvegese, dal muro di chitarre issato in occasione dei pezzi più sabbathiani (da citare in tal senso la splendida “Psychotzar”, magistrale opener dell’ultimo album) alle fughe space-rock e i crescendo mozzafiato (come quello di “The Alchemist”, altro pezzone pescato da “Little Lucid Moments”), con le due voci a darsi continuamente il cambio dietro al microfono o ad intrecciarsi in armonie mozzafiato, come tradizione in casa Motorpsycho. 

A svettare su ogni altra cosa, a mio parere, sono i venti fenomenali minuti di “The Crucible”, in cui accade praticamente di tutto. Per gestire la complessità del pezzo, si ricorre a “doppio basso” e “doppia chitarra”, venendosi a creare, fra l’altro, una suggestiva “simmetria” visiva, con i quattro manici degli strumenti rivolti verso l’esterno (Sæther, mancino, suona il basso al contrario, ndr). 

A far saltare finalmente tutti quanti, invece, ci penseranno due classici molto amati e presenze fisse in questo tour, ossia le vivaci “Überwagner or a Billion Bubbles in my Mind” (da “It’s a Love Cult”) e “The Other Fool” (da “Let Them Eat Cake”). Finale epico affidato alla bellissima “Lux Aeterna”, pezzo cardine dell'ultimo album e sorta di “In the Court of the Crimson King” in salsa acida e dissonante (il brano che più di tutti gli altri aspettavo - peccato soltanto che la resa finale sia stata penalizzata da suoni impastati e confusi, dettati dalla stanchezza dei musicisti a fine concerto). 

I Motorpsycho sono dei grandi e in un mondo così prevedibile, un loro concerto è una manifestazione di onestà e coerenza uniche. I  loro brani, fuori dallo studio di registrazione, lungi dal faticare a muoversi sulle proprie gambe, librano nell'aria animati da un'energia interiore che le pareti della sala incisione sembravano aver imbrigliato.

I Motorpsycho sono dei grandi perché in un mondo in cui anche le band più dotate faticano a far rivivere sul palco la magia delle loro opere e, sempre più spesso, suonare dal vivo significa ripetere ogni sera lo stesso identico programma fin nel minimo dettaglio, i Motorpsycho ci riportano ad uno stadio della musica in cui suonare, prima che un lavoro, è ancora una passione.

Se però poi il concerto finisce alla 11:00 in punto, come indicato nel programma della serata, un dubbio sorge spontaneo: psichedelia ad orologeria?