8 feb 2020

1985 - 1989: IL QUINQUENNIO DELLA CATTIVERIA


Ci sono momenti della vita in cui hai bisogno di qualcosa di realmente, genuinamente, veracemente cattivo, ispirato e realizzato da e con quella cattiveria di una volta, quella che scappa di mano, che gli strumenti non bastano a trattenerla. 

Nel corso degli anni gli standard di brutalità si sono progressivamente elevati, approssimandosi ad un limite che pare sempre più difficilmente superabile: i cliché del metal estremo si sono consolidati, si sono istituzionalizzati, sono divenuti prevedibili ed oggi non colpiscono più come all’inizio. Per questo è bello tornare in un’epoca del metal in cui l’asticella veniva alzata da parte di band che perseguivano l’obiettivo di suonare in modo sempre più estremo senza preoccuparsi più di tanto di aderire a questo o quel canone stilistico. 

L’irruenza dei Motorhead prima, il caos senza compromessi dei Venom poi: fu questo l’uno-due che accese la scintilla della brutalità nel mondo metallico. Il testimone fu raccolto dalle thrash metal band di oltre oceano, tanto geniali nel coniare nuovi modelli di aggressione musicale quanto leste nel perseguire sentieri evolutivi che vedevano al loro centro il miglioramento tecnico, l’ingentilimento melodico e soprattutto l’assopimento dei furori giovanili. 

In quel mitico secondo quinquennio degli anni ottanta, quando la furia era ancora scambiata per immaturità e da molti era vista con diffidenza, se non come sinonimo di cialtroneria, mancanza di talento o di tecnica esecutiva, ci fu un manipolo di band che non ne voleva sapere di evolvere in senso tecnico e melodico, ma che anzi cercava nuove modalità espressive per spostare ulteriormente avanti il limite del consentito, sia a livello musicale che lirico che iconografico. 

Per tutti quegli alfieri che perseguivano l’estremismo come una vera missione artistica e che fecero fatica a guadagnare rispettabilità (in certi casi l’insuccesso avrebbe portato allo scioglimento), vi fu la consolazione di una rivalutazione postuma, grazie alla popolarità raggiunta dalle grande band death e black metal nel decennio successivo: band che avrebbero indicato come maestri quei nomi tanto bistrattati in precedenza. 

Attenzione, però: anche i primi seminali lavori di Death, Morbid Angel, Napalm Death, Terrorizer, Carcass ecc. avrebbero visto la luce nel medesimo quinquennio, ma la differenza fra questi nomi e quelli che intendiamo trattare è evidente. I growl di Chuck Schuldiner e David Vincent si stavano già impostando su un definito stile vocale; Death, Morbid Angel avevano bagagli tecnici importanti che permettevano di costruire quello che sarebbe divenuto un genere a se stante, il death metal, e di evolversi ulteriormente; i protagonisti della rivoluzione grindcore, da parte loro, avevano già una consapevolezza della propria missione. A noi invece interessa sondare l’abisso laddove i contorni non erano ancora definiti, dove la rabbia era primigenia e fuori da ogni controllo, dove si pestava senza precisione e le corde vocali si strappavano per raggiungere suoni mai uditi in precedenza: tutte cose che solo un certo thrash deviato, sviluppatosi in quegli anni, poteva assicurare. 

Slayer - “Hell Awaits” (19/04/1985) 
La nostra dissertazione non poteva che essere inaugurata da loro, gli Slayer: gli ideatori per eccellenza della “grammatica” del metal estremo. Laddove Venom ed altri esprimevano furia e cattiveria con un approccio caotico ed una tendenza all’esagerazione il più delle volte fine a se stessa, Araya e soci crearono un nuovo modus operandi volto all’ottimizzazione delle risorse nell’ottica di rendere le sonorità più estreme possibile. Ma questo sarebbe successo in modo compiuto l’anno successivo con il capolavoro assoluto “Reign in Blood”, mentre con “Hell Awaits”, secondo parto discografico della band dopo il brillante debutto “Show No Mercy”, i suoni rimanevano ancora rozzi e sporcati da quelle sbavature che evidenziavano i tratti inquietanti di un thrash che non ambiva solo ad essere veloce. Inutile aggiungere che in questo concentrato di furia e blasfemia incubavano quegli spunti geniali che avrebbero reso la band seminale per l’intero panorama estremo. 

Destruction - “Infernal Overkill” (24/05/1985) 
La sacra triade del thrash metal teutonico non poteva non essere rappresentata nella sua conturbante completezza. Partiamo dunque dai Destruction, già autori nel 1984 dell’annichilente EP “Sentence of Death”, con quella "Total Desaster" che rimane ad oggi uno dei brani più significativi e ricco di conseguenze per il metal estremo. “Infernal Overkill” è il loro scarno debutto in full-lenght: bagaglio tecnico prossimo a zero e produzione inesistente fanno di questo tomo un oggetto di culto per chi, nel black metal, propenderà per un approccio minimale e low-fi. Ma non è solo attitudine, borchie e cartucciere: il songwriting è ispirato e i Nostri possiedono quella spregiudicatezza che permette loro di inanellare otto brani infuocati, marchiati dall’ugola aspra del bassista Marcel Schirmer, sorta di screaming ante-litteram ed indispensabile fonte di ispirazione per gli strillatori a venire. 

Possessed - “Seven Churches” (16/10/1985) 
Torniamo in America ed andiamo a scomodare coloro che, secondo Mr. Schuldiner, sono da indicare come i veri padrini del death metal. Molto del merito va al canto gutturale di Jeff Becerra, un qualcosa che non si era mai udito in precedenza. Musicalmente parlando, quanto a brutalità, questo loro debutto “Seven Churches” non è da meno, iscrivendosi di diritto nella schiera dell’avanguardia oltranzista del metal di metà anni ottanta. Ovviamente a rendere il debutto dei Possessed un lavoro di caratura superiore è anche una scrittura accattivante che rende distinguibili fra loro brani di una pesantezza immane per il periodo, con in prima fila l’anthemicaDeath Metal” a suggerire il nome al neo-nascente death metal, prossimo ad esplodere. 

Celtic Frost - “To Mega Therion” (27/10/1985) 
Sarà la piccola e quieta svizzera a partorire una delle entità più emblematiche del metal estremo tutto. Nati dalle ceneri degli ancora più estremi Hellhammer, i Celtic Frost conservano della incarnazione precedente la pesantezza dei suoni, la velocità ed una morbosità di fondo che li renderà tanto importanti per il black metal quanto per l'universo gotico. In “To Mega Therion”, a fianco dei riff ossessivi e il vocione monocorde di Tom G. Warrior, troviamo già i primi inserti sinfonici e sprazzi di malato rumorismo (farina del sacco del bassista Martin E. Ain), primi semi di quell’evoluzione che condurrà, nello spazio di nemmeno due anni, all'avanguardia metallica di “Into the Pandomonium”. 

Kreator - “Pleasure to Kill” (01/11/1986) 
Anche i Kreator di Mille Petrozza sono indicati da Chuck Schuldiner come fondamentali per la genesi della sua visione artistica ed ascoltandoli si fa presto a capire il perché: nessun album di thrash metal estremo dell’epoca, infatti, poteva vantare brani così ricchi di riff e cambi di tempo. Ma questo non vuol dire certo che i tedeschi suonassero progressive: rispetto ai colleghi Destruction e Sodom, costoro mostravano certo un approccio più ragionato, ma l’impatto frontale rimaneva garantito grazie a ritmi forsennati, suoni corposi quanto taglienti e la raucedine dello stesso Petrozza ad imperversare senza pietà per i nostri timpani. 

Bathory - “Under the Sign of the Black Mark” (11/05/1987) 
In questa perletta di una malvagità inusitata, non a caso scaturita dalle fredde lande della Svezia, il black metal si esprime in una forma quasi compiuta, ad un passo da quanto registreranno di lì a poco i vari Mayhem, Darkthrone, Immortal ed Emperor. L’impianto lirico è ancora di ispirazione sostanzialmente satanica, in linea con le tematiche del periodo, ma qualche spunto più epico (anticipatore della svolta viking  che sarebbe avvenuta con gli album successivi) potrà essere rinvenuto qua e là. Il platter, musicalmente parlando, rimane sospeso fra thrash tiratissimo e suggestivi mid-tempo, il tutto servito con splendidi suoni marci, approssimazione esecutiva (come richiede la miglior tradizione black metal), sporadici spunti di tastiera e lo strillo agonizzante di Quorton, che si farà carico di tutti gli strumenti, inaugurando di traverso l’era delle one-man band

Sarcofago - “I.N.R.I.” (08/1987) 
Dalla fredda Svezia voliamo all’assolato Brasile, scenario improbabile per manifestazioni black-metalliche, ma che invece ha saputo dire la sua in fatto di metal estremo. La popolarità dei Sepultura ha infatti messo in luce una scena fiorente, entro la quale spiccano senz’altro i Sarcofago di Wagner “Antichrist” Lamounier, il quale aveva esordito proprio dietro al microfono nella prima incarnazione dei Sepultura. Se probabilmente costui ha visto con livore l’ascesa della sua ex band (destinata di lì a poco ad un successo planetario), di certo avrà con fierezza accolto le attestazioni di stima da parte di molti degli esponenti più illustri del black metal. L'ottenebrante growl di Lamounier, mostruoso come pochi, esprime una ferocia pari solamente ad uno spirito selvaggio e ad una iconoclastia che scaturiscono come miasmi dal degradato retroterra sudamericano. Quanto ad estremismo, i Sarcofago non potevano considerarsi secondi a nessuno: ancora oggi mi stupisco che un album così veloce, pesante e distruttivo sia stato dato alle stampe senza troppo clamore soltanto nel 1987! 

Sodom - “Persecution Mania” (01/12/1987) 
Concludiamo la sacra triade della Germania con i Sodom. I suoni sono fortemente tributari della veemenza dei Motorhead, di cui il trio capitanato dall'inossidabile Tom Angelripper potrebbe essere visto come una versione estremizzata: il tiro è dunque notevole e i brani, velocissimi, sono qui più che altrove influenzati dall’immediatezza del punk, influenza riscontrabile in più di un frangente. Una mancanza di fronzoli, questa, che rende i Sodom simpatici a molti, in particolari a chi piace pestar duro senza tanti pensieri. Rispetto e venerazione che non derivano solo dall'attitudine schietta e dalla coerenza dimostrata nei decenni successivi: da veri maestri, infatti, i tedeschi si distinguono per una spiccata predilezione per riff e tempi trita-ossa, cosa che li renderà i migliori in questo campo. 

Tormentor - “Anno Domini” (1988) 
Non dev’essere stato facile tirare su una band metal nell’Ungheria degli anni ottanta, ma la missione artistica di Attila Csihar (poi voluto ad ogni costo dall'ammiratore Euronymous nei suoi Mayhem per la gestazione del leggendario “De Mysteriis dom Sathanas”) è evidentemente qualcosa di tanto forte e sentito da poter andare contro ogni avversità. E certo questa determinazione si riflette nel carisma del cantante, la cui prova infernale incendierà una proposta che vede al suo interno anche influenze mutuate dall’heavy metal classico (Iron Maiden in primis). Potenza, velocità, melodia,  epicità e venature darkwave, supportate da una preparazione tecnica sopra la media e "tagliate" dal peculiare grugnito di Attila (peraltro animato da un inquietante piglio teatrale), sono le peculiarità che rendono “Anno Domini” un prodotto estremamente originale e avulso dagli umori del periodo. 

Necrodeath - “Fragments of Insanity” (1989) 
Anche l’Italia, la calda e soleggiata Italia, ha avuto la sua triade thrash votata al "Male": Necrodeath, Schizo e Bulldozer . Noi scegliamo i primi, autori di un paio di prove più che convincenti (l’esordio “Into the Macabre” e questa opera seconda) caratterizzate dalla forza distruttrice del drumming di Peso (che di lì a poco mostrerà anche una straordinaria sensibilità progressiva nelle fila dei Sadist) e dalle linee malate disegnate dalle sferraglianti sei corde di Claudio. Importante aggiungere che anche in questo caso, se la band verrà vista con interesse dai futuri demiurghi del black metal, il merito sarà principalmente di chi sta dietro al microfono: Ingo non sarà un Attila Csihar, ma certo il suo latrato si avvicina molto ad uno screaming, inasprendo non poco le forme spigolose di un thrash metal tanto malvagio quanto ancora debitore delle lezioni slayerane.