Prima del dungeon synth: Jim Kirkwood ,"Where Shadows Lie" (1990)
Il documentario “Searching for Sugar Man” (regia di Malik Bendjelloul, anno 2012) racconta la straordinaria storia del cantautore americano Sixto Rodríguez. Attraverso la diffusione di una serie di suoi bootleg nel Sudafrica dell’Apartheid nel corso degli anni settanta, il musicista era divenuto un nome di culto, quasi una sorta di Bob Dylan per una generazione di giovani che si erano riconosciuti nella sua musica e nei suoi testi impegnati. La cosa straordinaria è che il Nostro era assolutamente ignaro di questo inatteso scoppio di popolarità, anzi, a seguito delle scarsissime vendite negli USA dei suoi album (“Cold Fact” e “Coming from Reality”, rispettivamente del 1970 e del 1971), si era ritirato a vita privata conducendo una esistenza umile ed anonima lavorando come operaio edile. Solo nel 1997 egli apprese della propria popolarità in Sudafrica quando due suoi fan realizzarono un sito internet (“The Great Hunt Rodriguez”) per reperire sue notizie e rintracciare il loro idolo.
Ma perché citare la figura di Sixto Rodríguez per inaugurare una rassegna sul dungeon synth che, come genere musicale, è quanto di più lontano ci possa essere dal cantautorato di protesta? Perché, fatte le dovute proporzioni e rapportata proprio al mondo del dungeon synth, la storia del compositore inglese Jim Kirkwood non è poi così distante da quella del cantautore americano...
Disponendo di una strumentazione rigorosamente analogica (un sintetizzatore Roland D50, un campionatore Akai S900, un sequenziatore Steinberg ed un registratore ad otto tracce Fostex M80) fu in grado di allestire ed ammaestrare un suono imponente ed ultra-epico che intendeva gettare un ponte fra musica elettronica di matrice cosmica, progressive rock e ...tematiche fantasy!
Kirkwood debuttava nel 1990 con “Where Shadows Lie”, album incentrato su “Il Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien, sua dichiarata fonte di ispirazione e scintilla primaria che lo ha portato a realizzare musica propria. Questo lavoro e i successivi “King of the Golden Hall” (1991) e “Uruk-Hai” (1992) avrebbero costituito la Trilogia della Terra di Mezzo, un paio di ore esaltanti per ogni fan di Tolkien che si rispetti.
Considerati questi presupposti, non è difficile immaginare come questa musica, uscendo dai binari tradizionali dell’elettronica, risultasse di non facile commercializzazione, perlomeno considerando i canoni dell’industria discografica dell’epoca.
Ammiratore delle esplorazioni spaziali di Klaus Schulze e Tangerine Dream e delle atmosfere fiabesche imbastite dagli Yes, Kirkwood si affacciava al mondo della musica fuori tempo massimo e con una proposta anacronistica e per certi versi derivativa (e lui stesso non ne fa un segreto), in un contesto generale non troppo favorevole a scelte stilistiche di questo tipo: la sua musica era massimalista, sfarzosa e, diciamolo, un bel po' pacchiana per potersi sposare con le sensibilità del decennio novantiano, scosso da nevrosi grunge ed alchimie techno/rave. Ci sarebbero dunque voluti - molti anni dopo - quei pazzi visionari del dungeon synth per riscoprire le gesta di un artista non conforme ed incompreso come Kirkwood e portarlo in una posizione di maggiore visibilità.
Lo stesso autore racconta di essersi preso una pausa dalla musica intorno al 2011-2012, una pausa a tempo indeterminato. Per circa otto anni non avrebbe avuto contatto alcuno con ciò che stava accadendo nell'industria musicale, ma poi, intorno al 2019, quasi per caso, navigando su internet si rese conto che il suo nome veniva associato sistematicamente ad un genere musicale a lui sconosciuto: il dungeon synth. In questi "salotti virtuali" egli era visto come precursore e cruciale fonte di ispirazione. “Divenni una leggenda durante la mia pausa pranzo!" continua ironicamente Kirkwood, compiaciuto di aver scoperto all'improvviso di essere un musicista di culto per un genere che lui stesso non avrebbe a quel punto disdegnato e da cui si sarebbe fatto a sua volta influenzare nella produzione discografica successiva.
A sua insaputa i lavori di Kirkwood erano stati dunque scoperti e rivalutati dagli appassionati di dungeon synth. E' tuttavia doveroso precisare che il suo operato, pur antecedente di qualche anno alla nascita del dungeon synth (che avrebbe visto la luce nel biennio 1993-1994 circa), non concorse probabilmente alla sua effettiva genesi, in quanto le sonorità che sarebbero poi state riconosciute sotto l'ombrello del dungeon synth erano nate e germogliate passando da un altro sentiero: quello del black metal. La (ri)scoperta di Kirkwood sarebbe stata successiva: si è visto infatti in sede di introduzione come la definizione dungeon synth sia stata coniata molto tempo dopo la creazione e la prima diffusione di quegli stilemi nel corso degli anni novanta. E quando nella seconda metà degli anni '10 vi fu un ritorno di interesse per quelle sonorità e di conseguenza furono riscoperti grazie ad internet molti “tesori” nascosti in quel calderone di nastri, demo e cassettine che per anni avevano vegetato nell'oblio dell’underground, anche il nome di Kirkwood ebbe modo di saltare fuori per essere tardivamente apprezzato.
Del resto le analogie fra le composizioni di Kirkwood e le produzioni del dungeon synth non erano poche, proprio a partire da quel carattere clandestino che avevano avuto le prime registrazioni di Kirkwood, auto-prodotte e contraddistinte da amatoriali copertine in bianco e nero. La produzione di Kirkwood, inoltre, è sterminata ed oggi conta un numero spropositato di tomi, confermando l’approccio naif di un artista che si è mosso - e continua a farlo - al di fuori delle comuni logiche di mercato: insomma, il precursore ideale di un genere che proprio della lontananza da ogni concessione commerciale ha fondato la propria ragion d'essere.
Di questa vastissima discografia, è proprio l'idealtipico debutto "Where Shadows Lie" a rappresentare al meglio i tratti identitari, stilistici e tematici del compositore britannico, costituendo il miglior viatico per accedere al suo smisurato (quantitativamente parlando) universo sonoro. "Where Shadows Lie", inoltre, insieme a “Master of Dragons” (del 1991) rimane anche il lavoro in generale più celebrato del Nostro: quale miglior modo, dunque, per inaugurare la nostra rassegna?
Nei tre quarti d’ora di durata dell’album - interamente strumentale - sarà semplice individuare sia le somiglianze che le difformità rispetto agli standard tipici del dungeon synth. Ovviamente le tastiere ricoprono un ruolo primario, gli umori sono epici ed enfatici, gli intenti descrittivi, l’atmosfera e la vocazione suggestionante hanno carattere di centralità nella visione artistica che ne sta alla base, ma sono anche da rimarcare le notevoli capacità tecniche di Kirkwood (decisamente sopra la media degli strimpellatori che, soprattutto alle origini, vegetavano nell'empireo del dungeon synth) ed un sound robusto ed articolato che pesca a piene mani tanto dalla musica cosmica tedesca quanto dalla tradizione del rock progressivo inglese.
Dopo il pathos montato ad arte con la breve introduzione “The Black Gate Opens” si fanno largo gli archi minacciosi di “Elven Smiths”, maratona di otto minuti che si risolve nel finale in una trottata di drum-machine che alza il tasso di epicità e sottolinea il carattere dinamico della scrittura di Kirkwood. La quieta “Enchanted Stream” si affida a suoni ambientali, dallo scorrere dell'acqua di un ruscello allo scroscio violento del temporale: poco più di un interludio prima del tronfio esplodere di sintetizzatori di “Helms Deep”, altro momento irruente del platter, fra il rombar di tamburi, squilli di trombe e tastiere zampillanti che richiamano il Keith Emerson battagliero di “Tarkus”.
Bassi e drum-machine incalzano in “The White Rider”, scorribanda spaziale pregna del grandeur estetico del Klaus Schulze di “X”, un Klaus Schulze precipitato dalle altezze siderali e ricollocato nelle foreste della Terra di Mezzo (ricordiamo che il tomo in questione è il primo capitolo di una trilogia dedicata a "Il Signore degli Anelli" e c'è da dire che la connessione con l'opera di Tolkien è intima e va ben oltre i riferimenti contenuti nei titoli dei brani).
Dopo gli effettacci orrorifici di “Morgoth” Kirkwood decide di decollare di nuovo con i quasi otto minuti di “The Ruin of Gondolin”, altra suite debitrice dell’estro di Schulze e che finisce per lambire geometrie kraftwerkiane. La marziale “Wild Wargs” inscena lugubri ambientazioni fra cupi rintocchi e tastiere in odore darkwave, mentre “Lonely Mountain”, lenta e cadenzata, rappresenta la quiete prima della tempesta precedendo le pulsazioni vorticose di “Smaug” che chiude le danze in modo magistrale chiamando in causa niente meno che i Tangerine Dream di “Phaedra”.
Si sarà capito da questa breve descrizione che il suono di Kirkwood è corposo, energico e variegato: aspetti, questi, che non sempre (anzi quasi mai) descrivono le strutture e le tessiture del dungeon synth, in particolare quello della vecchia scuola che, al contrario, cercava suggestioni arcane attraverso l’impiego di registrazioni lo-fi e trame melodiche tanto ossessive ed ipnotiche quanto minimali.
Si è già detto che da qui non passa la genesi del dungeon synth, ma è interessante notare come per vie diverse e non comunicanti si sia pervenuti alla medesima formula e ad esiti similari, armati di tastiere e nutriti dell’ambizione di celebrare la vastità dell’immaginazione!
Siete dunque pronti ad addentrarvi nelle segrete oscure?