Nel momento in cui scrivo non so ancora se andrò a vederli il prossimo 20 settembre al sempre apprezzabile Cosmic Void Festival, ma questo loro inaspettato ritorno, che peraltro ha suscitato un discreto clamore almeno fra i nostalgici degli anni novanta, ha rappresentato l’occasione perfetta per riprendere in mano il tomo in questione.
Cos'è che attirò la mia attenzione su quell'album? Certamente una copertina dal flavour fantasy/fantascientifico decisamente insolita per una band black metal. Magnetici e luminosi toni azzurrini predominavano in una illustrazione dettagliata degna della copertina più patinata di un romanzo fantasy. Sullo sfondo stellato, fra corpi celesti ed angeli caduti, si imponeva la seducente figura di una fata spaziale (ed un po' gotica, a dirla tutta) immortalata in un imperioso gesto che avrebbe potuto voler dire, al tempo stesso, Salvezza o Nemesi per l'Universo intero. Ma a decretare l'acquisto fu un motivo assai più sostanziale e basico, ossia l'apprendere che la formazione della band norvegese includeva membri di Dimmu Borgir, Arcturus e Cradle of Filth: il gotha del gotha del black sinfonico del periodo!
Ma come spesso capita in queste operazioni, l’insieme risulta inferiore alla somma delle singole parti. Devo infatti ammettere che sulle prime accolsi con un pizzico di delusione la proposta del sestetto, non riconoscendogli le qualità delle varie band da cui i vari membri provenivano. In particolare, almeno all'inizio, non vi colsi la genialità che poteva essere portata in dote dai due membri degli Arcturus, ai quali i Covenant si avvicinavano molto con questa release: le maestose tastiere di Sverd, unitamente allo stile inconfondibile del drumming di Hellhammer e all'adozione di un seducente immaginario sci-fi, imponevano infatti un continuo confronto con gli inarrivabili norvegesi, spostando significativamente il baricentro del suono dei Covenant in direzione progressiva ed avant-garde metal.
“Nexus Polaris”, grazie alle circostanze specifiche della sua genesi e ai musicisti che lo hanno realizzato, è da considerare come un unicum nella carriera della band, che né prima né dopo avrebbe saputo rilasciare un lavoro dalle medesime coordinate stilistiche. Con i soli Nagash e Blackheart la band era nata sotto diversi auspici: avviato nel 1993, il progetto aveva debuttato discograficamente nell'anno precedente - il 1997 - con il valido ma acerbo "In Times Before the Light", un dischetto che con un pelo di ritardo si accodava all'ondata di black metal band che dalla Norvegia aveva iniziato, a partire dai primi novanta, ad affollare in modo crescente quella specifica nicchia del mercato discografico. L'album parlava la lingua di un black metal sinfonico molto vicino allo “Stormblast” dei Dimmu Borgir o a certe cose dei primi Satyricon: un black metal ancora classico negli umori e che, al di là dell’impiego massiccio di tastiere, intendeva conservare la ruvidità e i suoni lo-fi della scuola norvegese, non puntando né sul piglio progressivo né sulla complessità delle architetture sonore che sarebbero state centrali in “Nexus Polaris”.
Quanto al dopo, i Nostri - ridottosi a trio - avrebbero bruscamente abbandonato le ambizioni progressive efficacemente esplorate nel tomo in questione per sposare un suono più catchy ed orecchiabile che metteva insieme, più o meno efficacemente, gothic-metal, elettronica ed industrial-rock à la Marilyn Manson. Scelta, questa, che costrinse la band - per motivi legali - a modificare il nome in The Kovenant, in quanto il cambio di sonorità e la rinuncia alla casacca metal avrebbero potuto creare qualche conflitto di interessi con gli omonimi svedesi Covenant, già noti in area darkwave.
Ma torniamo al 1998. Superata una lieve freddezza iniziale dovuta alle ragioni sopra menzionate, devo ammettere che il mio giudizio è progressivamente migliorato grazie ai ripetuti ascolti: ai tempi dei cd un album lo ascoltavi molte volte fino a fartelo piacere, anche solo per giustificarne la spesa. Finito tuttavia il suo momento, il cd tornò velocemente negli scaffali per cadere nel suo lungo sonno, indotto anche da un disinteresse crescente da parte del sottoscritto nei confronti di quelle specifiche sonorità.
A quasi 30 anni dalla
sua uscita, l’album ci suona diverso e per certi aspetti migliore. Anzitutto, visto in prospettiva e scollegato dal suo contesto di
origine, l'album soffre meno il confronto con la concorrenza agguerrita dell'epoca. Solo
guardando alla Norvegia, nel 1997 avevano visto la luce lavori-chiave per il black sinfonico come "Anthems
to the Welkin at Dusk" degli Emperor, "Enthrone Darkness
Thriumphant" dei Dimmu Borgir, "In Abhorrence Dementia" dei
Limbonic Art e "La Masquerade Infernale" degli Arcturus. Insomma, quando
nel 1998 usciva "Nexus Polaris", peraltro quasi in contemporanea con
l'attesissimo "Cruelty and the Beast" dei "colossi" Cradle
of Filth, esso sembrava il figlio minore di un dio prodigioso che iniziava a vivere la sua parabola discendente (già si percepivano in tempo reale i segnali
di saturazione in un movimento che aveva raggiunto l’apice creativo negli
anni appena precedenti).
Oggi invece, siccome "da lontano tutti i gatti
son bigi", "Nexus Polaris" si confonde benissimo nel panorama del periodo e può essere visto, nel suo piccolo, come un classico da rivalutare del symphonic black degli anni novanta, nonché come una
originale rivisitazione degli stilemi di quel genere tanto in voga in quegli
anni ma che presto avrebbe vissuto un forte calo di popolarità e che nell'ultimo quarto di secolo non avrebbe prodotto null'altro di significativo. Insomma, la sua reputazione si rafforza grazie al fattore storicità, senza contare il fatto che tutto quello che riemerge da un lungo oblio oggi viene salutato inevitabilmente come qualcosa di imprescindibilmente seminale.
Ma come suona "Nexus Polaris" nel 2025? E’ quello che ci chiediamo nel momento in cui lo riprendiamo in mano e lo andiamo a riascoltare. Senza gridare al miracolo, l'album si fa apprezzare incarnando un suono superato ma confortante. Non è un suono isterico né eccessivamente contaminato, stratificato o dispersivo. I brani sono in realtà scorrevoli e godono del
talento di musicisti prodigiosi nel pieno del loro splendore. Il drumming di Hellhammer è pura poesia. Raramente il Nostro si
cimenterà in parti veramente veloci, preferendo egli passeggiare su eleganti tempi medi. Ma proprio
questo, unitamente al dinamismo espresso dietro all'enorme drum-kit da parte del tentacolare
batterista, permetterà alle idee di emergere, svilupparsi adeguatamente ed
essere messe nella giusta evidenza in modo da essere facilmente riconosciute e
comprese dall'ascoltatore. In questi casi la velocità mai sostenuta è la migliore amica di una
scrittura, non certo mirabolante o funambolica, ma che sa inanellare, uno dopo
l’altro, passaggi memorabili. Affiora qua e là lo spettro del mestiere, considerato che musicisti come Hellhammer e Sverd sanno elargire magie a profusione senza nemmeno troppi sforzi. Ma se anche la disinvoltura di un Hellhammer dietro alle pelli o di uno Sverd dietro ai tasti fa sembrare che a momenti sia stato azionato il pilota automatico, a me personalmente lo stile di Hellhammer e di Sverd non stanca (e non stancherà) mai!
Il risultato sono otto brani di media durata (43
sono i giri di orologio in totale) che sanno distinguersi e farsi ricordare
grazie ad una sostanza sonora sempre incline alla melodia ed alla
orecchiabilità, valorizzata da un'ottima produzione che sa dare il giusto risalto ai singoli strumenti. Da un lato si hanno due chitarre assai varie che spaziano - senza strafare - dall'immancabile riffing black metal a scale neoclassiche, passando per vere e proprie galoppate thrasheggianti e spingendosi persino entro i confini dell'heavy metal tradizionale (era del resto la stagione d'oro del power metal). Dall'altro abbiamo le fughe siderali, le atmosfere circensi, le imponenti e pompose tastiere di Sverd, reale valore
aggiunto all'intera operazione. In questa sontuosa melassa sinfonica, la voce
operistica della divina Sarah è poco più di un orpello, ma decisiva nel sottolineare i passaggi più significativi delle composizioni. E con questo ribadisco il concetto espresso appena sopra: "Nexus Polaris" si fa apprezzare per le idee, ben congegnate, distribuite e confezionate da un ensamble di altissimo livello.
Una impostazione antica, oserei dire, sepolta da vari anni di post-metal e destrutturazioni/dilatazioni varie, iperboli neo-progressive fino ad arrivare alle isteriche, velocissime, densissime, tecnicissime espressioni del deathcore contemporaneo. Pensate ai (grandissimi, eh!) Lorna Shore (che fra le altre cose hanno il merito di aver introdotto il filone sinfonico nel deathcore - giusto per rimanere in tema), pensate a quanto cazzo vanno veloci, a quante cazzo di cose fanno accadere, e a quanto poco ti rimane in mente dei singoli brani dopo averli ascoltati.
Torno dunque con sollievo e senso di relax alla "semplicità" dei Covenant. Non parlo di brani elementari o facili alternanze fra strofe e ritornelli. Non ci sono quasi mai ritornelli in "Nexus Polaris", ma ogni brano ha il suo momento memorabile, cosicché te li ricordi. Che so: un bel fraseggio di chitarra, una partitura di pianoforte classicheggiante, un'accelerazione improvvisa enfatizzata da incalzanti orchestrazioni, una ripartenza che si fa tronfia di orchestre spaziali e gorgheggi da soprano su base di doppia-cassa trita-tutto. E' proprio l’equilibrio che anima l’intero
platter a premiare le idee, intelligentemente distribuite in un
contesto in cui ogni dettaglio confluisce nell'insieme e l'insieme scorre fluentemente (ancora grazie Hellhammer!). Il tutto disposto lungo una traiettoria di intensità crescente che vede il materiale migliore accumularsi nel finale, come se la band acquisisse confidenza brano dopo brano, chiudendo la partita con una tripletta con i fiocchi come "Dragonheart", "Black Planetary Elements" e "Chariots of Thunder".
Una menzione d'onore va ovviamente al buon Nagash, front-man perfetto e fautore di una recitazione sopra le
righe che destabilizza continuamente gli otto episodi, fra screaming isterico, interperanze à la Cronos, teatralità e denti digrignati alla stregua di un esasperato Dave Mustaine prima scuoiato e poi rianimato a colpi di defibrillatore ed infine lanciato nei meandri remoti della volta
celeste. Insomma, un tocco di follia in un contesto anche troppo ragionato. E
pure questo è un elemento a favore del tutto, oscillando la musica fra compostezza, raziocinio, qualità melodiche e trovate bizzarre, con una ironia ed una auto-ironia che strizzano l'occhio ancora una volta ad un pubblico maturo e dalla mentalità aperta.
Alla luce di quanto detto, devo ammettere di apprezzare “Nexux Polaris” più oggi che ieri, e mi
auguro a questo punto di rivedermelo riproposto sulle assi di un palcoscenico. Se
poi alla fine avrò deciso di andare al Cosmic Void Festival, lo scoprirete su
queste pagine...