I
MIGLIORI DIECI ALBUM DEL BLACK METAL NORVEGESE
7°
CLASSIFICATO: “PURE HOLOCAUST”
Olve
Eikemo e Harald Naevdal, per gli amici Abbath Doom Occulta e
Demonaz Doom Occulta, sono stati fra i primi mover
della scena di Bergen, suggestiva cittadina dalle caratteristiche
casette rosse affacciate sull'immancabile fiordo. Dal death-metal
dei Satanael, passando dagli Old Funeral (nei quali militava
anche Varg Vikernes) e dagli Amputation, fino all'avvio
dell'esperienza Immortal, fondati nel 1990. Continua così il
nostro viaggio verso l'eccellenza nell'empireo del black metal
norvegese.
La
proposta sonora dei due ereditava la potenza del rancido thrash-metal
teutonico (Destruction su tutti) e del death-metal della
prima ora (i Morbid Angel erano una fonte di ispirazione dichiarata).
L'impronta dell’imprescindibile Quorthon (di cui si
conservava l’aura epica) era forte, come del resto lo era
l'influenza di Euronymous e dei suoi Mayhem, che
all'epoca erano promotori di un sound realmente innovativo. Il
black-metal degli Immortal, fin dai loro primi passi, era già maturo
e personale, e i primi tre album, “Diabolical Fullmoon
Mysticism” (1992), “Pure Holocaust” (1993) e
“Battles in the North” (1995), rimangono tutt'oggi opere
che ogni appassionato del genere dovrebbe custodire gelosamente e
conoscere a memoria.
Dall’oscuro
e persino melodico “Diabolical Fullmoon Mysticism” al rigoroso
“Battles in the North”, che sparava Bathory alla velocità della
luce, si è passati attraverso “Pure Holocaust”. Se “Diabolical…”
fu fuoco e “Battles...” sarà ghiaccio, “Pure
Holocaust” è un inferno senza speranza dove gli elementi si
scontrano in un olocausto sonoro che sa di zolfo e tempesta. Sono i
suoni essenziali del Black Metal con la M e la B maiuscole, trentatre
minuti in cui le ultime gocce di melodia (gli arpeggi di chitarra
acustica, le algide tastiere) si prosciugano per lasciare spazio a
quel tripudio di chitarre taglienti e drumming
battagliero che di lì a poco diverrà il marchio di
fabbrica della premiata ditta Abbath/Demonaz.
Ok, le
copertine in bianco e nero, la registrazione spartana, il minimalismo
sonoro saranno prerogativa dei colleghi Darkthrone, ma in
quegli anni c’erano anche loro, gli Immortal, e il loro segno
rimarrà indelebile. Influenzeranno una miriade di formazioni negli
anni a venire (i già trattati Enslaved, per esempio, prenderanno il
nome proprio da una delle prime canzoni degli Immortal, “Enslaved
in Rot”) e verranno apprezzati anche fuori dagli ambienti del
black-metal: gli americani Sunn O))) li tributeranno con una
versione irriconoscibile di “Cursed Realms (of the Winter Demons)”
(su “Black One”, del 2005), trasfigurata in una temibile veste
drone; i tedeschi Orplid, appartenenti alla nuova
ondata teutonica di formazioni neofolk, scriveranno in loro onore il
brano “Traum Von Blashyrkh” (nell’album “Greifenherz”, del
2008), rievocando l’immaginario reame di Blashyrkh.
L’immaginario
reame di Blashyrkh. Da sempre personaggi schivi e caparbiamente
fuori dalle vicende dell’Inner Circle, Abbath e Demonaz si
appartano anche dal punto di vista lirico: rifuggendo da un lato
l’immaginario satanista, e schivando dall’altro i richiami alla
cultura della tradizione scandinava, decidono di rifugiarsi nel
fantastico mondo di “Blashyrkh”, da loro creato. Mondo coerente e
figlio della povertà di vocabolario di Demonaz, sorta di “Terra di
Mezzo” dominata dal gigantesco corvo Mighty Ravendark, è un
regno terribile in cui il gelo e la neve sono perenni, dove
proliferano demoni e inquietanti uccelli messaggeri della paura.
Insomma, non proprio un bel posto per una villeggiatura, ma
sicuramente un suggestivo scenario dove calare le staffilate
metalliche dei due musicisti.
Perché
due musicisti, visto che in copertina ne compaiono tre?
Perché in “Pure Holocaust” il batterista Erik Brødreskift (in
arte Grim, poi morto suicida nel 1999), benché accreditato in
line-up, non vi suonerà neanche una nota, in quanto entrato
in formazione successivamente alle registrazioni e buttato fuori poco
dopo le stesse: non altro che uno degli svariati batteristi che hanno
sostato nelle fila degli Immortal giusto il tempo di una scoreggia,
fino al reclutamento del panciuto Horgh (avvenuto con
“Blizzard Beasts” del 1997), il primo batterista stabile a
coadiuvare Abbath (voce/basso) e Demonaz (chitarra) nella loro
avventura musicale.
Su “Pure
Holocaust”, dunque, e sul successivo “Battles in the North”,
Abbath si farà carico anche della parti di batteria,
dimostrando fra l’altro una gran disinvoltura nel maneggiare lo
strumento. Ma non solo: dopo la defezione dell'infortunato Demonaz
(che continuerà a collaborare esclusivamente come paroliere), Abbath
passerà anche alle sei corde. Ci domandiamo dunque: come mai costui,
eccellente polistrumentista, non ha trasformato gli Immortal in una
one-man band, dimensione peraltro calcata da svariati
connazionali, anche meno dotati?
Perché
evidentemente Abbath non è un solitario: egli ama la
compagnia ed anche quando avrà il controllo assoluto del
progetto, vorrà contornarsi di una line-up stabile. Quando
egli si sedette dietro alla batteria prima, ed imbraccerà la
chitarra dopo, lo farà, non con spocchia, ma con lo spirito di
rassegnazione e con il senso del dovere della buona madre di
famiglia, che, esausta, dopo una giornata di duro lavoro, dopo
esser stata al supermercato, torna a casa, ma subito riparte per
andare a prendere la bimba a danza, visto che il caro marito (in
ciabatte sdraiato sul divano con la birra in mano che guarda la
partita su Sky) se ne era palesemente dimenticato.
Questa
convivialità, questa voglia di costruire un’esperienza comune,
questo senso di responsabilità si traduce nel fatto che quando
ascolti gli Immortal ti senti investito da una malvagità
amichevole, ti senti a casa quando li ascolti, ti senti
fra amici, non percepisci quell’angoscia isolazionista che
provi quando ascolti il Conte, quel fosco torbidume che aleggia nella
musica dei Mayhem (peraltro infestata dai vari suicidi/omicidi), ma
nemmeno quelle sensazioni antipatiche di ego straripante che hai
ascoltando gli Emperor, o quell’atteggiamento superficiale e
menefreghista che contraddistingue i Darkthrone che - si capisce -
di te non gliene frega un cazzo. Il fatto che gli Immortal siano un
vero team si sente anche a livello di coesione: rispetto ad altre
band, gli Immortal sono portatori di un sound unico, compatto,
che se da un lato non presenta caratteristiche peculiari, dall’altro
brilla di una forza espressiva decisamente rara.
Abbath e
Demonaz si pitturavano la faccia e si vestivano di pelle e borchie
come tanti altri; i loro brani erano veloci come lo standard del
genere dettava; i tappeti di riff di chitarra erano gelidi ed intensi
come il buon Euronymous insegnava; la voce era un rantolo spiritato e
prolungato come si trovava in tante altre formazioni. Eppure gli
Immortal incarnavano tutto questo a modo loro, forti di uno stile
immediatamente riconoscibile.
Il
face-painting caratteristico dei due lo riconoscesti fra mille
(il cereo volto di Abbath squarciato dai due neri triangoli che fanno
capolino dai capelli e i cui vertici si congiungono appena sopra il
naso, oscurando gli occhi ridotti a due minacciose fessure; quello di
Demonaz caratterizzato da un trucco a mo’ di nera mascherina dagli
angoli acuminati in vago stile Euronymous; entrambi dotati di un
grottesco ghigno a forma di falce di luna rivolta verso il basso).
Il
drumming di Abbath è furioso ed efficace come pochi: devastante
nel blast-beat (eccezionali le repentine accelerazioni),
spietato nei tempi medi (sentite che legnate fra una sfuriata e
l’altra), micidiale nell’utilizzo della doppia cassa (che frulla
persistente per la quasi totale durata dei brani). Sicuramente meno
tecnico e fantasioso di un Hellhammer, Abbath è il picchiatore
perfetto per la musica agguerrita professata dagli Immortal
(meglio ancora del professor Horgh, fin troppo tributario del
drumming marziale ed isterico del maestro Pete Sandoval).
Demonaz,
dal canto suo, offre in “Pure Holocaust” la sua prova migliore
(performance valorizzata anche da una produzione che, seppur caotica,
mette in evidenza le chitarre, che invece verranno letteralmente
schiacciate dalla batteria in “Battles in the North”): un marchio
di fabbrica fatto di riff ossessivi e dissonanti (forse
influenzati da quel Varg Vikernes con cui aveva suonato in gioventù?)
ripetuti con efficace ostinazione sul terreno mutevole dei continui
cambi di tempo.
Lo
screaming di Abbath,
infine: quel latrato acidulo da bimbo di sei anni incazzato nero
che riconosceresti fra altri mille. O, se preferite, quel rigurgito
gastritico estratto a forza con lo sturalavandini dalla bocca
spalancata con la lingua perennemente di fuori. In entrambi i casi:
inimitabile.
Questi
furono gli Immortal di “Pure Holocaust”, poi destinati alla
consacrazione con “Battles in the North” (attenzione però:
all'epoca furono tacciati di immobilismo ed infatti qualche pecca a
livello di scrittura c'era). Con il mediocre “Blizzard Beasts” si
registrerà un brusco calo di ispirazione: momento di incertezza
fortunatamente superato dai sopravvissuti Abbath e Horgh, capaci di
ricalibrare il suono degli Immortal sulle frequenze di un black-metal
ancora più epico e maestoso che pagherà un grosso dazio
all’arte dei Bathory ed al thrash ottantiano. Paesaggi glaciali,
tempeste di neve, fortezze inespugnabili, eserciti di demoni, stormi
di corvi portatori di cattivi presagi: sarà la definitiva
fuga verso i Reami di Blashyrkh.