2 giu 2015

TODAY IS THE DAY: LA SOFFERENZA TRIONFERÀ NEL WHITE ALBUM DEL TERROR-NOISE-METAL!




I MIGLIORI DIECI ALBUM DEL “NUOVO” METAL

10° CLASSIFICATO: “SADNESS WILL PREVAIL”

Esistono almeno tre accezioni di post-hardcore che identificano con lo stesso nome approcci diversi. Vi è il post-hardcore primigenio di band come Fugazi e Shellac (continuazione dei Big Black del guru Steve Albini, padre spirituale del movimento) che prima di altri seppero espandere il suono hardcore e spingerlo verso una dimensione più complessa. Vi è quello più recente (e oggi più noto) patrocinato dai Neurosis, che in modalità ben più estreme hanno cambiato il volto dell’hardcore traghettandolo verso lidi psichedelici e persino spirituali. Vi è infine la violenta e maniacale destrutturazione della materia hardcore perpetrata da Steve Austin con i suoi Today is the Day.

La band (che ironicamente si formò proprio a Nashville, patria del rassicurante folk-cantautorato dipinto a stelle e strisce) ha compiuto, sotto la guida del suo insano leader, un autentico stupro nei confronti della musica metal e non solo: nel corso della decade novantiana il genio maledetto e visionario di Austin ha saputo generare una serie di lavori incredibili, facendo confluire, in uno schema libero e destabilizzante, una vasta gamma di influenze, che vanno dal noise al grind passando dal math-rock e dal thrash metal.  La prima fase artistica dei Today is the Day è una sequela di album eccellenti, di cui la punta di diamante è sicuramente “Temple of the Morning Star” (1997), all’unanimità considerato il capolavoro formale della band. 

Apice artistico, forse, ma sicuramente non ultima prova strabiliante per la “setta” di Nashville, che, seppur negli ultimi anni viva una comprensibile fase calante, ebbe modo di assestare altri due colpi vincenti. Nel 1999 Austin decise di estremizzarsi ulteriormente con il blasfemo “In the Eyes of God” (che fra l’altro vide la partecipazione di Bill Kelliher e Bran Dailor che in seguito sarebbero andati ad ingrossare le fila dei fenomenali Mastodon, tanto per sottolineare il valore dei musicisti che si sono avvicendati alle spalle di Austin). Con il doppio albumSadness Will Prevail” (del 2002), decise invece di andare in tutt’altra direzione, tanto che l’autore stesso lo definirà come l’album “prog” dei Today is the Day, a dimostrazione di quanto il percorso di Austin sia imprevedibile e totalmente al di fuori degli schemi.  

In realtà “Sadness Will Prevail” (che conta trentadue tracce e dura in tutto circa centoquarantacinque minuti!) di prog ha ben poco. Lo stile della band rimane sostanzialmente il medesimo di sempre: materia incandescente che può essere velocizzata, ripulita o contaminata a seconda delle circostanze. Forse Austin ha optato per questa etichetta perché l’opera brilla di una libertà e di una energia creativa che sicuramente costituiscono una progressione, o meglio, un superamento, attraverso la diversificazione (a livello stilistico vi possiamo trovare un po’ di tutto), del sound fino ad allora proposto dalla band.

In “Sadness Will Prevail” il metal trova il suo White Album. Pur non amando in modo particolare i Beatles, con il tempo ho rivalutato il loro famigerato album bianco. Uscito quando oramai i Fab Four si prendevano a coltellate (era il 1968 e l’esperienza Beatles in quanto entità unica era agli sgoccioli), quell’album non era altro che la sommatoria dei contributi dei singoli musicisti, che scrissero ed incisero autonomamente i loro brani. A mio parere esso rappresenta il più eccellente, e forse il capostipite, di quelli che io amo definire gli Album-Mondo: gigantesche opere guazzabuglio in cui l’artista riversa, in modo scriteriato ed anarchico, il suo universo di emozioni, senza freni né schemi precostituiti (altro esempio è il triplo “69 Love Songs” dei Magnetic Fields). Non che il metal non contempli opere mastodontiche, ma spesso queste suonano ingessate, in quanto incanalate nel rigore di un concept. Ahimè noi metallari siamo troppo pragmatici, e forse l’unico “nostro” album che potrebbe rientrare nella categoria è l’operazione “Use Your IllusionI e II degli stradaioli Guns N’Roses. Nell’empireo del metal estremo, questa fattispecie è ancora più rara (mi vengono in mente i Maudlin of the Well di “Bath”/“Leaving your Body Map”), ma in “Sadness Will Prevail” essa trova sicuramente un bell’esemplare.

Ma come funziona un Album-Mondo? Nel White Album, per esempio, ci possiamo imbattere in ottimi brani come in cagate pazzesche. Quando tutto il materiale fu pronto, all’avveduto manager George Martin (alla cui intelligenza strategica si deve probabilmente il successo commerciale dei Beatles) gli prese letteralmente la sudarella, proponendo saggiamente un taglio drastico e l’accurata selezione dei brani migliori in un solo album e non in un doppio. Ma i quattro bastardi si impuntarono: all’apice della loro creatività, ma senza sapere di essere già ad un passo dalla loro fine artistica, con la spocchia che contraddistingue chi siede sul tetto del mondo, essi decisero di pubblicare tutto: onore al merito, c’è da ammettere che la forza del White Album sta proprio nell’essere un contenitore indifferenziato di ispirata materia artistica ancora fumante, e non raffreddata da ragionamenti di carattere opportunistico.

E così nel White Album troviamo coinvolgenti rock’n’roll song (“Back in the U.S.S.R.”, “Birthday”) come insulsi brani da classifica (la pessima “Ob-La-Di, Ob-La-Da”); ci verrà il vomito innanzi a patetici e mal riusciti pezzi country (“The Continuing Story of Bungalow Bill”) ed al tempo stesso ci esalteremo per brani frizzanti e dal procedere imprevedibile (“Happiness is a Warm Gun”). Accanto ad ammalianti ballate (la “Sexy Sadie” che praticamente inventò i Radiohead), troveremo violenti assalti heavy metal ante litteram (“Helter Skelter”, che è quasi thrash). L’umanità di una struggente “While My Guitar Gently Weep” (con tanto di ricami chitarristici da parte di Eric Clapton) si va a contrapporre alla freddezza degli otto minuti di “Revolution 9” (collage sonoro più vicino all’avanguardia che al rock: tutta farina del sacco di Yoko Ono). E tanto altro, senza limiti, senza logica, salvo quella secondo cui tanti tasselli, e così diversi, si trovano a convivere nello stesso luogo: il concept è l’assenza di concept.  

Allo stesso modo in “Sadness Will Prevail” ci troveremo innanzi ad una compagine assurda e sconclusionata di suggestioni sonore, che non sono i contributi dei diversi componenti della band, ma i frammenti della sola psiche malata di Austin, diviso fra microfono, chitarra, tastiere, sample ed alambicchi elettronici. A dargli manforte, a questo giro, troviamo ottimi gregari come Chris Debari al basso e Marshall Kilpatric alla batteria, più una serie di collaboratori chiamati per l’occasione: nel White Album dell’Estremo, al posto di Eric Clapton, troveremo Wrest dei Leviathan (genio assoluto del depressive-black metal made in U.S.A.); al posto di Yoko Ono una Kris Force (che già ebbe modo di prestare il suo violoncello ai Neurosis).

Da un punto di vista musicale c’è tutto: in un contesto di “destabilizzazione grind” (più nello spirito che nella sostanza), troveremo geometrie math-rock, melmose immersioni sludge, cacofonia noise, schegge thrash metal, spezzoni di film, intermezzi acustici, ballate di pianoforte e violini, soliloqui di sola voce femminile, saggi di autentica follia che assumono volti sempre diversi, autentici ossimori musicali, come, per esempio, una traccia strumentale che vede convivere assurdamente tastiere e blastbeat, o un’arpa celestiale molestata da ritmiche terremotanti e grugniti disumani. Si va da brani di un minuto scarso, alla devastante “Never Answer the Phone”, che ne dura ventitre di minuti: un estenuante tour de force strumentale che, salvo un’introduzione atmosferica, si compone esclusivamente di selvagge sessioni thrash metal in cui chitarra e batteria si affrontano in un duello all’ultimo sangue. Uno stesso brano può contenere al suo interno più d’uno di questi elementi, oppure si possono eventualmente succedere una serie di insulsi bozzetti o di chitarra acustica o di pianoforte o di semplice rumore.

Vi sono infine dei temi che nel marasma vengono ripresi e sviluppati in modo sempre diverso, ma, a parte questo, è difficile trovare una coerenza nel procedere anarchico di “Sadness Will Prevail”, se non una vaga differenziazione fra i due tomi: “X” (il primo) è forse più fisico ed annichilente; “Y” (il secondo) è più sperimentale e va a rivisitare la follia espressa nel primo in modo surreale ed estraniante. Austin si dà totalmente, è fuori controllo e canta come se non ci fosse un domani: la sua voce (uno strillo acuto che è grido di dolore ed al tempo stesso rappresenta il furore incontrollato del pazzo omicida) continua ad incarnare la natura bipolare che lo vede al tempo stesso vittima e carnefice (e quindi rappresentante unico di una società basata sulla violenza, fisica e psicologica).

Austin, in quanto istrione, è nel peggiore dei casi il Marylin Manson del metal estremo, nel migliore il Trent Reznor: “Sadness Will Prevail” è il suo “The Fragile” (altro Album-Mondo), traslato nel linguaggio di un metallo, in stato avanzato di putrefazione. E’ oltre il post-metal, per certi aspetti è già rotten-metal, o, più in generale, out-of-control-music: un’operazione di destrutturazione che non trova eguali. Perché dunque inserire una tale mostruosità fra i migliori dieci album del “Nuovo” Metal? Perché, sebbene non sia ancora chiaro cosa sia questo Nuovo Metal, ci sentiamo di affermare che, nell’operazione di superamento dei cliché del vecchio metal, i Today is The Day abbiano avuto un merito: quello di aver superato le lezioni persino degli Allegri Grandi Distruttori (indicherei i Melvins fra gli esponenti più rappresentativi della categoria, ma per simpatia potremmo citare anche i Fantomas), ammantando di lacerante introspezione e cruda sociologia quegli esercizi che erano stati originariamente portati avanti con ironia e gusto per lo sberleffo (se non goliardia) che sono tipici della colta avanguardia. Al pari dei temibili lavori dei connazionali Khanate, i Today is the Day di “Sadness will Prevail” tracciano una linea che, come già avevano fatto i Napalm Death di “Scum” quindici anni prima, non può semplicemente essere superata.

Lacerante introspezione, si diceva. Per Austin la gestazione dell’opera ha avuto, per sua stessa ammissione, un valore terapeutico: buttare fuori tutta la merda che gli ribolliva dentro. E’ nella ripetizione che l’opera, le singole tracce, fungono da terapia per la mente deviata ed a pezzi di Austin: nel modus operandi della reiterazione (di un riff, di una strofa, di una parola) si compie quella catarsi che permette di capire, purificarsi, esorcizzare il disagio interiore. Lo stesso batterista Marshall Kilpatric (responsabile di una prova maiuscola, fra controtempi al cardiopalma e repentine accelerazioni) tiene a sottolineare come la registrazione di quell’album sia stato uno sforzo enorme, abnorme, tremendo: il tentativo suicida di assecondare la furia demolitrice/auto-lesionista di Austin.

Ai nostri orecchi non suona tutto rose e fiori ovviamente, ma anche questo fa parte del gioco: è l’inevitabile altra faccia della medaglia. C’è una sgradevole sensazione di trascuratezza nell’ascolto di questa brutta e sgradevole opera, incentrata sulla sofferenza di vivere ed in particolare sulla solitudine e sull’isolazionismo che caratterizzano la nostra società (se vi è un tema, quello è la comunicazione, o meglio, la non-comunicazione). Un effetto-fastidio sicuramente voluto, considerati il bagaglio tecnico in possesso dei musicisti e la consapevole visione artistica di Austin, la cui merda interiore diviene lo specchio deforme in cui si riflette un’intera società. Eccoci dunque alla cruda sociologia: la musica diviene strumento per una penetrante analisi sociologica. E in “Sadness Will Prevail” il miracolo accade, non a livello compositivo, ma nel cieco accumularsi di elementi: nel processo in cui, tassello dopo tassello, viene a comporsi un orrendo mosaico che va a rappresentare una società deviata, atomizzata, alienante, dove l’unico modo per recuperare autenticità nel nostro essere umani è soffrire.

Sì, alla fine la sofferenza trionferà, ma paradossalmente si tratterà di una buona notizia: avremo la conferma che, nonostante tutto, siamo ancora umani.