I
MIGLIORI DIECI ALBUM DEL “NUOVO METAL”
5°
CLASSIFICATO: “LEVIATHAN”
Anno
2004: un nuovo big-bang sconvolge l’universo
dell’heavy metal. Esce “Leviathan” e i suoi autori, i
Mastodon, sono la nuova sensazione. Quali sono i meriti del
quartetto di Atlanta? Scopriamolo insieme addentrandoci nella
top-five della nostra classifica dedicata al “Nuovo Metal”.
In
principio furono i Neurosis. Poi vennero Isis e Cult
of Luna ad aggiungere colori alla tavolozza, arricchendo quella
che era stata la più grande rivoluzione che il metal avesse
conosciuto negli ultimi venti anni: l’avvento del post-hardcore.
Fra i tanti che decisero di seguire le orme di Steve Von Till, Scott
Kelly e compagni c’erano anche loro, i Mastodon, firmatari di un
buon debutto, “Remission”, rilasciato nel 2002.
Essi tuttavia, rispetto a molti altri colleghi, decisero presto di
dirigersi verso altri lidi.
Per
certi aspetti l’operazione compiuta dai quattro di Atlanta era
animata da una pulsione conservatrice. Per loro il post-hardcore fu
un trampolino di lancio utile a spiccare il volo. Ma già con l’opera
seconda, il presente “Leviathan”, i Mastodon ebbero modo
di imporsi sulla concorrenza grazie ad una formula che, conservando
la furia e l’immediatezza dell’hardcore, sapeva addentrarsi in
territori più classicamente heavy, sfoggiando per altro una voracità
stilistica che li avrebbe condotti al progressive prima ed alla
psichedelia successivamente.
Dirò
di più: si fece incetta di stilemi “classici” che avevano
iniziato a puzzare nel corso degli anni novanta, ma che rimanevano
indelebilmente scolpiti nel DNA del metallaro medio. Ovvio che fu
salutata con gioia l’idea di annettere, in una impalcatura
post-hardcore, un po’ di fottuto heavy metal vecchia maniera: vuoi
certe armonie ed atmosfere epiche che evocavano gli Iron Maiden
(eresia!), vuoi l’adozione di un modus operandi in grado di
abbinare potenza e melodia, proprio come facevano i vecchi Metallica
(doppia eresia!), vuoi il recupero di una chirurgia esecutiva ed un
rifferama mutuati direttamente dai Death del mai troppo
compianto Chuck Schuldiner (sia lodato il Cielo!). Aggiungiamo infine
l’impeto progressivo suggerito dalla band emblema del progressive
metal, ossia i Rush, e il quadretto si fa decisamente
interessante.
Ovviamente
i Mastodon non piacquero a tutti, perché il popolo metallico sa
essere stronzo come pochi. Nemmeno io gridai al miracolo, ma
l’esperienza Mastodon poteva essere una bella occasione per
riconciliarci e tornare a volerci tutti bene: conservatori,
progressisti e rivoluzionari. Ma come spesso capita quando si genera
troppo clamore intorno ad un fenomeno, rispunta fuori l’atavico
“ce-l’ho-più-lungo-di-tutti” del metallaro, che
deve sempre schifare quello che piace a tanti, a troppi. I Mastodon
sono quindi sopravvalutati? Non inventano nulla? Copiano a destra e a
manca, per poi cucire tutto insieme? Dite quello che vi pare,
“Leviathan” fu disco dell'anno 2004 per molte rinomate
testate giornalistiche. Che sia stato tutto frutto di una fantasia
collettiva?
Sociologicamente
parlando, il maggior pregio dei Mastodon, in un periodo storico
complesso per il metal, fu di aver esercitato un potere rassicurante
nei confronti dell’irrequieto e sconsolato popolo metallico. Il
metallaro viveva da troppi anni nell’incertezza, aggirandosi fra i
cocci di un mondo frantumato. Era frustrante guardare sempre
indietro, ma il Nuovo non riusciva ad imporsi con la stessa
magia del glorioso e mitico Passato. Le cose migliori, il
metal, le sfornava oramai in territori borderline; fiorivano
opere d’arte bellissime, ma non per tutti appaganti, in quanto
spesso di nicchia: o perché si trattava di lavori troppo complicati,
il cui ascolto richiedeva un eccessivo sforzo celebrale, o perché
quegli stessi lavori erano espressione di un disagio che alla lunga
poteva risultare indigesto. Tanto per aggiungere merda alla merda,
nel 2003 (l'anno precedente di “Leviathan”) usciva “St.
Anger”. Non si sapeva più a che santo votarsi.
Ecco
che, in un’epoca di copertine ritraenti foto di discariche abusive,
scatti in bianco e nero di loschi figuri immortalati con la bocca
spalancata, o crude disposizioni di simboli esoterici, i Mastodon
recuperavano l’artwork bello e gratificante alla
vista, curato e rifinito nel dettaglio: un bel dipinto in pastello
dai colori vivaci che aveva per oggetto un’avvincente scena marina,
lotta furibonda fra le onde di un bianco cetaceo ed un vascello.
Quella copertina dice già tutto: dinamismo, epicità, violenza, ma
anche profondità.
Allo
stesso modo il concept adottato ebbe su molti un potere
rasserenante: il “Moby Dick” di Herman Melville non è
solo un capolavoro letterario ed un romanzo bellissimo a tutti i
livelli ed alla portata di molti, ma anche una storia di fantasia
universalmente nota, perfettamente calibrata sul background
culturale del metallaro medio. Ovviamente la narrazione dei Mastodon
si arricchisce di simboli, metafore, non è una semplice enunciazione
di fatti, perché se il punto di partenza, per certi aspetti, non è
il massimo dell’originalità, sono i suoi sviluppi ad essere
avvincenti.
I
Mastodon, più semplicemente, sanno suonare ed è in questo terzo ed
ultimo punto (dopo quello iconografico e quello concettuale) che
risiede la ragione del loro successo. Troy Sanders (basso e
voce), Brent Hinds (chitarra e voce), Bill Kelliher
(chitarra) e Brann Dailor (batteria) danno del tu ai propri
strumenti. E ciò non si traduce in spocchiosa e sterile esposizione
di tecnicismi, bensì nell'esatto contrario: un sound compatto
in cui la tecnica individuale è un mezzo e non un fine. Un discorso
a parte va fatto comunque per Dailor (ex Today is the Day, insieme a
Kelliher) la cui prova dietro alle pelli è qualcosa di straordinario
persino in un contesto straordinario qual è quello costituito dalla
“famiglia” Mastodon. Dailor è il motore pulsante della loro
musica: potente, intricato, capace di dare il giusto andamento a
brani dinamici e mutevoli, senza mai rubare la scena ai compagni,
sempre al servizio di tutti.
Classici
ed innovativi al tempo stesso, i Mastodon sembrano capaci di fare
tutto, ma lo fanno con una disinvoltura tale che non li fa neppure
sembrare i mostri di tecnica che sono. E, cosa da non sottovalutare,
edificano brani originali e ricchissimi di spunti in spazi veramente
contenuti: a parte la suite di oltre tredici minuti “Hearts
Alive” (che comunque va giù come un bicchier d'acqua da quanto
scorre bene), il minutaggio dei singoli pezzi si assesta fra i tre e
i quattro minuti, in totale antitesi con i dettami del post-hardcore,
che preferisce muoversi in tempi lunghi, spesso giocando con la
reiterazione e la dispersione. I Mastodon, al contrario, sanno e
vogliono far fruttare ogni singolo minuto, aiutati dall'impeccabile
lavoro di Dailor e da una fantasia/creatività fuori dal comune,
capace di dipingere in vivide immagini la pazzia sucida del capitano
Achab come la furia indomabile della mitica Balena Bianca,
incarnazione del Male. Sostenere che il loro “Leviathan” è una
riuscita unione fra “Orion” di “Master of Puppets” e
“The Rime of the Ancient Mariner” di “Powerslave”,
rilette entrambe in salsa Neurosis, non è poi così azzardato.
I
Mastodon sanno dunque suonare, ma non sanno cantare. La dimensione
vocale è il vero punto debole della formula impeccabile della band,
non tanto su questo “Leviathan”, in cui i Nostri continuano a
fare la voce grossa (anche se il cantato rimane anonimo), ma nei
lavori successivi, nei quali i legami con l'universo post-hardcore si
allenteranno ulteriormente, per spostarsi su una dimensione
maggiormente melodica e complessa, non supportata adeguatamente dalle
claudicanti voci pulite dei vari componenti, che si alterneranno
dietro al microfono. Non è un caso che i brividi si hanno
nell'incursione vocale del sodale Scott Kelly (prestato dai
padrini Neurosis) in “Aqua Dementia”.
Tolta
questa pecca, che comunque non inficia la qualità complessiva della
proposta, il sound dei Mastodon si impone principalmente per
la sua freschezza: il recupero del passato non puzza di
dietrologia, le novità sul piatto sono innegabilmente superiori. I
Mastodon raccolgono le energie di una reazione che il metal doveva
prima o poi esprimere, ma per poterlo fare in modo credibile, vi era
bisogna di una band fuori dal comune. Con i Mastodon si ritorna ad
immaginare il metal come una musica “gioiosa” (e non intendo
l'happy-metal di Helloween e compagnia crucca), una musica
“suonata” e non solo pensata, concepita ed eseguita grazie
all’esercizio, allo scambio, alle prove in cantina ed al sudore
versato sul palco. Il metal non è il grunge, non è cantautorato,
non è ambient, anche se qualcuno ci aveva indotto a pensare che la
via della redenzione passasse necessariamente da quelle parti: il
“Nuovo Metal” può essere ancora una musica potente, che vuole
coinvolgerti, trascinarti, allietarti con cambi di tempo,
sorprenderti con un assolo, farti riprendere fiato con un arpeggio ed
annichilirti di nuovo con un riff. Non sono questi dei passi
indietro, ma la riaffermazione forte e sincera dell’identità di un
genere musicale in forte crisi esistenziale.
Laddove
l’incrocio dei generi è stato un inevitabile percorso evolutivo,
il salto di qualità dei Mastodon consiste nell’adozione dei nuovi
schemi (post-hardcore, post-metal), senza rinnegare quelli vecchi
(thrash, death, heavy metal classico), finendo per giocare fuori
dagli schemi stessi (stoner, space-rock, progressive), in un contesto
di omogeneità e continuità naturale fra gli elementi: un po’ come
il fuoriclasse che segna il goal tirando di punta, sebbene da
sempre ci dicano che non si può fare. Quello dei Mastodon è dunque
un altro possibile “Nuovo Metal” che sa essere un luogo in
cui passato e presente convivono ed insieme, armoniosamente,
costruiscono l’avvenire: un futuro fatto di libertà, ricerca,
ricchezza di suoni e soluzioni, a metà strada fra rock libertario e
pragmatismo metal.
Ma sarà
questione di un attimo: la mastodontica balena, distrutto il vascello
fra gli schizzi inverecondi delle onde, calerà nuovamente la sua
testa sotto la superficie dell'oceano per cambiare direzione e
rintanarsi negli abissi del proprio inconscio. Per poi riemergere e
tentare la scalata della Montagna Sacra. Oppure, cambiando forma, per
librarsi in volo reincarnata in un uccello di fuoco Uscendo dalla
metafora: già con il successivo “Blood Montain” (2006) e
ancora di più con “Crack the Skye” (2009) l’originaria
forza d’urto andrà a stemperarsi per lasciare spazio ad una
ricerca che proietterà i Mastodon lungo un tracciato che avrà
sempre meno a che fare con il metal pesante e sempre più con una
forma allucinante, acida e spaziale di rock di ispirazione
settantiana.
Fra i
loro figli troveremo quei Baroness (artisti post-hardcore
oramai di quarta generazione) che, nel loro capolavoro “Yellow &
Green”, sapranno chiudere il cerchio tornando al principio di
tutto: quel grunge/stoner che non fu altro che riscoperta degli anni
settanta, appunto, e tempesta che sconvolse il vecchio metal.