I
MIGLIORI DIECI ALBUM DEL “NUOVO METAL”
1° CLASSIFICATO: “THROUGH SILVER IN BLOOD”
O
anche l'inevitabilità dell'ovvio…
La nostra rassegna si conclude dunque con un'altra soluzione scontata ma necessaria, perché “Through
Silver in Blood” è semplicemente l’album che un giorno
metterei in mano a mio nipote per spiegargli come se la passava il
metal nei lontani anni duemila. E, a pensarci bene, è strano che
l'album più rappresentativo del terzo millennio sia uscito nel 1996
(come “Ӕnima” dei Tool, secondo posto della nostra classifica).
La scorsa puntata abbiamo citato i Black Sabbath, che inventarono
l'heavy metal nel 1970, ma che nei fatti erano diversissimi dalle
band della New Wave of British Heavy Metal che ridefinirono il
linguaggio dell'heavy metal classico così come oggi lo conosciamo.
“Through Silver in Blood”, al contrario, rappresenta ancora oggi
un importante standard: sebbene come album sia stato nel tempo
superato, sia dai Neurosis stessi che dai loro più brillanti
discepoli, esso costituisce il nocciolo fondamentale del
post-hardcore e dunque, più in generale, del post-metal.
Si
diceva in apertura: all'inizio degli anni novanta il ciclone grunge
spazzò via fustacchioni palestrati, chiodati e
lungo-criniti, e con essi gli acuti strappatonzille, i
guitar-hero, i cori anthemici, le pose plastiche, le
moto, le birre e le pupe. Rimossi i cadaveri dal campo di battaglia,
spuntarono dalle viscere della terra meste compagnie di irsuti (ed
orsuti) figuri dalle lunghe barbe, pelati e con le camicie a
quadri. Non erano belli, ma rendevano meglio del ‘tallo
brufoloso-capello-cotonato-con-la-maglietta-dei-Manowar che,
ripiegato su se stesso, fingeva di suonare una chitarra invisibile.
La musica che usciva dagli amplificatori di questi presunti boscaioli,
inoltre, era più fresca e, volendo, più estrema: muri di suono
assordanti, urla belluine, andamento dei pezzi torrenziale, schema
libero ed esteso minutaggio. Dietro di loro: flash
sfarfallanti di inquietanti simboli tribali ed immagini di
Morte-Apocalisse-Moriremo-Tutti sparate senza pietà sul
pubblico. Ebbene, quando tratteggiavamo questo quadretto, avevamo in
mente loro e solamente loro: i Neurosis.
Nati
dalle ceneri della band hardcore Violent Coercion, i Neurosis
trovarono presto una loro personale via d'uscita dalle ristrettezze imposte del genere. “Pain of Mind”
(1987), “The Word as Law” (1990), “Souls at Zero”
(1992) ed “Enemy of the Sun” (1993) sono le tappe che
hanno segnato un percorso che avrebbe cambiato per sempre il volto
dell'heavy metal: quelle scorie disarticolate di hardcore/punk
di scuola Discharge/Black Flag si aggregarono intorno ad una
visione apocalittica che, dilagante, fluida, fumante, espandeva i
suoni, colmava gli interstizi, amalgamava contenuti ed inglobava
generi diversi e fra loro distanti. I Neurosis divennero così una
sorta di via di mezzo fra Swans e Pink Floyd: corrosivi
ed ossessivi come i primi, visionari e dal “passo lungo” come i
secondi. I Neurosis accostarono l’inaccostabile, resero spirituale
un genero fisico come l'hardcore, fecero diventare primitivo un genere
avveniristico come l’industrial, e lo fecero con i tamburi, con
monumentali e solenni accordi di chitarra distorta, ingraziandosi dunque i
Black Sabbath, guardando contestualmente nella direzione dei
Godflesh, smaterializzando i suoni fino all’ambient. In pratica
inventarono un nuovo genere di metal: il post-hardcore (da non
confondere con il post-hardcore di Shellac e Fugazi, quello è
un'altra cosa ancora).
La loro
gavetta fu lunga, il successo non arrivò subito e il 1996,
anno di uscita di “Through Silver in Blood”, non sarà
salutato come l’anno zero del “Nuovo Metal”. Il successo, o
meglio, il riconoscimento, giungerà successivamente. Prima con
“Times of Grace” (uscito nel 1999 sotto la guida attenta
del guru Steve Albini): un lavoro viscerale, asciutto
essenziale, ripulito dagli ultimi scampoli industriali e dunque più
umano. E poi con “A Sun That Never Sets”
(del 2001), ancora più umano, che ci accolse con violini, chitarre
acustiche, voci pulite ma raschianti: un'opera capace di sconvolgere
ancora una volta il mondo che i Neurosis stessi avevano letteralmente
creato. Ma è in “Through Silver in Blood” che troviamo la
sintesi del Neurosis-pensiero, il caposaldo in cui alberga, in
tutta la sua potenza e tragica bellezza, l’essenza del
post-hardcore.
Macigno
di oltre settanta minuti, esso è un tutto organico in cui i brani
(comunque dotati di una loro identità) sono tappe di un unico
viaggio apocalittico, devastante ed onirico al tempo stesso. Già il
precedente “Enemy of the Sun” anticipava certe tendenze, ma
“Through Silver in Blood” le sistematizza nel rigore formale di
una produzione solida e possente, di una musica perfettamente
orchestrata, di una formazione affiatata che non disperde una singola
nota. Un'onda d'urto tremenda in cui il vecchio formato-canzone
affoga e perisce definitivamente sotto i colpi di violente esplosioni
(che verranno definite “neurotiche”) e stasi ambientali che si
alternano senza soluzione di continuità.
Jason
Roeder è terremoto, percussioni ancestrali che battono
interrottamente al ritmo delle correnti telluriche che si consumano
sotto le viscere della terra. Steve Von Till e Scott Kelly
sono tempesta, eruzioni vulcaniche, accordi stordenti e grida
disumane: non uno, ma due ce ne volevano di cantanti, e le loro voci
sono il mantra di un rito sciamanico, di una seduta spiritica che
evoca le energie primigenie dell’uomo. Più che una band, i
Neurosis sono una tribù. Ma la musica è anche ruggine, petrolio,
catrame del mondo moderno destinato a collassare stritolato dalla
furia auto-distruttiva dell’uomo. Noah Landis è
l’insospettabile cantore che ci parla con il linguaggio delle
manipolazioni elettroniche, della sospensione ambientale, del cigolio
di macchine che deragliano dalle loro futili funzioni. Il basso di
Dave Edwardson sega le orecchie con suoni distorti, pulsando
incessante sotto le bordate delle due asce. Last but not the
least: Pete Inc., visual-artist incaricato
all’epoca di curare la controparte multimediale (testimonianze poco
accreditate riferiscono che, nel 1997, la gente che assisteva agli
show dei Neurosis vomitava per lo shock dato da musica ed
aspetti visuali, ma secondo me, tenendo conto del contesto e della tipologia di pubblico, il vomito non era provocato né dalla musica né
dalle immagini proiettate, nda).
In
mezzo al caos, gli intrecci dolenti fra il violino di Kris Force
e il violoncello di Martha Burns, le improvvise aperture delle
cornamuse di John Goff, chiamate a purificare le mostruosità
sonore imbastite dalla band: mai si era sentito una psichedelia così
dura, un hardcore così poetico, un metal così rozzo ed al tempo
stesso nobile…
Metal…non
metal…il nostro genere preferito, al cospetto dei Neurosis, si
ritrovò innanzi ad un bivio: bere o affogare. Nel 1996 questo
non era metal e si usava ancora chiamarlo impropriamente industrial.
Il metallaro medio preferiva, in quegli anni, guardare altrove, ma
non capiva che dalle fratture della terra stava esalando il siero
della salvezza: una salvezza assassina e traditrice che avrebbe
salvato il metal, uccidendolo.
Il
metal avrebbe trovato la catarsi nell'hardcore, genere che invero non
ha mai suscitato grande interesse né simpatia nel popolo metallico,
sebbene esso avesse ispirato coloro
che inventarono il thrash metal. Il metal avrebbe ritrovato la sua
furia originaria, la sua genuinità nell'hardcore, e non è un caso
che proprio nel 1996 gli Slayer pubblicavano una raccolta di
cover hardcore/punk (il bruttino “Indisputed Attitude”)
e due anni più tardi avrebbero rilasciato un album come “Diabolus
in Musica” (opera riuscitissima, a parere del sottoscritto) che
delle influenze HC faceva grande incetta. Non è nemmeno un caso che
negli anni appena successivi avesse iniziato a proliferare il
cosiddetto fenomeno metalcore (Avenged Sevenfold, Bullet For
My Valentine, Trivium, As I Lay Down ecc.), non tanto grazie ai
Neurosis, ma a seguito dell'influenza insospettabile esercitata dagli
In Flames, improbabili maestri che (stranezze della vita) dal melo-death di loro
invenzione, iniziarono, da un certo punto in poi, a flirtare con
l'hardcore, appunto.
Oggi,
fortunatamente, distinguere fra cosa è metal e cosa non lo è, non
ha (quasi) più senso. Oggi si guarda alla qualità. E la qualità oggi sta quasi sempre fra i solchi di quello che hanno prodotto i Neurosis e i
loro più capaci seguaci. “Through Silver in Blood” è
l’archetipo del disco post-hardcore, genere malleabile e generoso
che sa ospitare gli stilemi stilistici più disparati. E, a proposito
di potenziale evolutivo offerto dal genere, basti guardare alle gesta
degli stessi Neurosis, dal gothic-sludge (mi si passi il termine) del
progetto scritto a quattro mani con Jarboe (2003), alle prove
soliste di Steve Von Till e Scott Kelly, che proseguiranno il
loro percorso di ricerca interiore scavando ulteriormente nelle
tradizioni profonde della loro terra e dunque approdando ad un
essenziale e scarno folk/cantautorato di forte connotazione
americana.
Tutti,
del resto, dovranno fare i conti con i maestri: dalla rivoluzione
post-hardcore origineranno molte delle più importanti tendenze del
metal, e sotto l'ombra dei Neurosis germoglieranno i talenti più
influenti dei nostri anni: dagli Isis (inventori a loro volta
in un nuovo genere: il post-metal) ai Mastodon (protagonisti
di una multiforme carriera che li condurrà ad acide sonorità settantiane), per
giungere infine ai Baroness, alfieri di un rock alternativo
che oramai manterrà veramente pochi legami con il metal. Senza
contare l'influenza esercitata sulla maggior parte dei filoni più o
meno estremi del metallo: è il caso del post-black metal (Wolves in the
Throne Room) e del post-death metal (Ulcerate).
Perché
dunque tanta fortuna? Perché l'invenzione dei Neurosis, anzitutto,
risponde alle esigenze di un'epoca più complessa, stratificata,
contraddittoria, ove non esiste una chiara visione del mondo e della
società. L'intento del post-hardcore è quello di scavare oltre
questa inutile, fastidiosa e deviante complessità e disseppellire
un'umanità andata ormai perduta. Come genere, dunque, è più
viscerale, più selvaggio, genuino ed al tempo stesso più profondo,
colto, spirituale. In altre parole: più autentico, più umano. Primordiale.
Il
post-hardcore nella visione neurosiana, infine, ha il pregio
di racchiudere in sé entrambe le pulsioni che da sempre animano il
metal: da un lato la tendenza a distruggere, dall'altro a
creare. Da una parte la volontà di affiidarsi ad un sound
violento ed annichilente, dall'altra la possibilità di svilupparsi
ed evolversi. Il post-hardcore può essere contaminato dal post-rock,
dal rock psichedelico, da quello progressivo, dall'elettronica,
dall'industrial, dall'ambient, dalla drone-music, dall'avanguardia,
dal folk e dal cantautorato. Tutto teoricamente può essere inglobato
dal post-hardcore e questa libertà d'azione piace sia ai musicisti che agli
ascoltatori. E se anche il post-hardcore ha i suoi cliché,
questi suonano meno rigidi e fastidiosi di quelli dell'heavy metal
inteso nella sua accezione classica.
Del
resto, una camicia a quadri, una T-shirt sdrucita, un paio di
pantaloni da pescatore
strappati per areare le palle sono più comodi di jeans
attillati, chiodo, borchie e stivali a punta...soprattutto
d'estate...