I
MIGLIORI DIECI ALBUM DEL “NUOVO METAL”
2° CLASSIFICATO: “ӔNIMA”
Colpo
di scena! O grave errore metodologico?
Inserire
un album dei Tool uscito nel 1996
in una classifica in cui campeggiano opere per lo più
partorite negli anni duemila, può apparire come una stonatura. Eppure pensateci bene:
nello stilare la classifica delle migliori opere di heavy metal classico, sarebbe un sacrilegio contemplare un album a caso
fra i primi tre dei Black Sabbath, pubblicati fra il 1970 e il 1971 (praticamente dieci anni prima l'esplosione del fenomeno)? Altro esempiaccio: non sarebbe scontato inserire uno dei due "Keeper of the Seven Keys" (rispettivamente 1987 e 1988) degli Helloween (che all'epoca erano considerati "la variante con la doppia-cassa degli Iron Maiden") nella classifica dei migliori album power metal, genere che visse i suoi fasti verso la metà degli anni novanta? Essere
avanti di anni non deve essere una colpa, per questo decidiamo di premiare i Tool, promotori e causa prima del cambiamento, ma anche grandi esponenti dello stesso.
Formatisi
nel 1990, i Tool sono autori di un genere musicale che sostanzialmente è
inclassificabile e che solo con il trascorrere degli anni verrà definito progressive.
Senza voler anticipare il nome che si posizionerà al primo posto della nostra
classifica, sarà oramai chiaro, leggendo le nostre argomentazioni nei capitoli
precedenti, che il metal del terzo millennio si è sviluppato
sostanzialmente lungo due linee-guida: le scomposte lacerazioni sonore del post-hardcore
e il rigore di una nuova forma di metal progressivo. Ecco: a capo di
questa seconda metà dell’universo metal troviamo proprio i Tool.
Nello
scorcio finale degli anni sessanta, il progressive intese superare il
rock nel suo formato basico ancora fortemente legato alle sue radici blues,
donandogli una veste più colta e complessa. Il fine si raggiunse con una
maggiore focalizzazione sulla tecnica esecutiva (intesa come virtuosismo del
singolo musicista) e tramite composizioni dall’esteso minutaggio che
rifuggivano il classico schema strofa-ritornello, per approdare ad estese
porzioni strumentali arricchite da elementi pescati dal jazz, dall’avanguardia
ed addirittura dalla musica classica/sinfonica.
Nel
metal accadde un qualcosa di simile, per mezzo inizialmente dei Rush e
successivamente dei Dream Theater. Per i primi, la cui storia affonda le
radici nella fine degli anni sessanta, è più lecito parlare, non tanto di metal
in senso stretto, quanto di hard-prog, sebbene si riconosca loro il
merito di essere stati i primi a mischiare prog e rock pesante. Non a caso il
loro operato sarà di fondamentale influenza per le band prog-metal che
fioriranno sullo scadere degli anni ottanta. Capofila ed iniziatori del genere
saranno appunto i Dream Theater, che tuttavia non facero che rileggere il rock
progressivo in una chiave heavy e quindi mettendo a punto un melting pot
in cui il linguaggio del metal veniva piegato agli schemi della grande
tradizione del prog-rock classico. Grandi artisti indubbiamente, i DT furono i
brillanti interpreti di un’idea originale, ma non gli inventori, da un punto di
vista concettuale e sostanziale, di una nuova forma di musica progressiva.
I
Tool, invece, rifondarono il movimento progressive, partendo da presupposti
totalmente nuovi. Essi non guardavano alle leziosità stilistiche ed agli
stucchevoli barocchismi di Genesis e Yes, la loro musica non era raffinata ed
elegante, il loro approccio tendeva più ad un intelligente e ponderato
minimalismo che ad uno sfarzoso tripudio di protagonismi. Essi, piuttosto,
guardavano agli imprescindibili Black Sabbath, non rifiutavano il
fenomeno grunge, tanto che inizialmente furono definiti post-grunge. Erano
sostanzialmente più vicini alla musica industriale che alle ambientazioni
romantiche e sognanti tanto care al mondo prog. E se proprio un anello di
congiunzione deve essere individuato fra loro e la tradizione del rock
progressivo, questo punto di intersezione semmai va visto nei lavori più noisy
e pesanti dei King Crimson, come “Starless and Bible Black” e “Red”.
Inizialmente
la band s’impose all’attenzione pubblica grazie ad una sequela di videoclip orripilanti
trasmessi in rotazione notturna sulle maggiori emittenti televisive musicali, inquietanti
incubi costruiti con la tecnica dello stop-motion: sul fronte
multimediale i Tool avevano una marcia in più grazie alla passione per gli
effetti speciali coltivata dal chitarrista Adam Jones, non proprio l’ultimo
arrivato, visto che ebbe modo di frequentare la Hollywood Makeup Accademy e, in
seguito, vantare importanti collaborazioni professionali in cinema e
televisione.
Ma
al di là di questo aspetto (che indubbiamente costituisce uno dei fattori
chiave del successo della compagine americana), era la musica che si sposava
perfettamente agli umori dell’epoca. Il grunge aveva riportato in auge il rock
degli anni settanta e la furia nichilista del punk, in un mondo impazzito e
senza più una chiara gerarchia valoriale, in cui il giovane era una disorientata
monade sprizzante disagio, frustrazione, paura da tutti i pori. I Tool seppero
ammantare questo (dis)ordine di cose con la cupezza dei Black Sabbath e la
potenza dei Metallica. L’alienante e lamentevole voce di Maynard James Keenan
completava il quadro: i Tool di “Undertow” (loro LP di debutto, targato 1993)
non erano, né erano visti, come una band metal tout-court: Erano seguiti
da una certa distanza anche dai metallari, ma almeno inizialmente la band ribolliva
nel pentolone del rock alternativo. Io personalmente, vedevo i Tool come una
sorta di Rage Against The Machine meno incazzati e più rassegnati.
Nonostante
questo, già nel loro primo full-lenght fermentavano molti degli elementi
che poi diverranno fondanti per il nuovo corso del metal. Non vi era,
anzitutto, il culto della personalità: i componenti della band non
figuravano in bella mostra in sgargianti set fotografici all’interno del
booklet, né comparivano nei loro videoclip. Dal vivo Keenan
cantava con le spalle rivolte al pubblico, praticamente in mutande, spesso
muovendosi in modo scoordinato rispetto alla musica, mentre la visione del
resto della band era offuscata da luci, fumi ed imponenti impianti
scenografici. Il vocalist, inoltre, non solo non era più l’icona
rappresentativa della formazione, ma aveva smesso persino di strillare, di
ricorrere ad acuti inarrivabili o a virtuosismi canori: il rantolo dimesso di
Keenan si posava mestamente sul metal paranoico allestito dai tre suoi comprimari,
generando un contrasto inedito nel metal, che invece ha sempre visto potenza
sonora e vigore canoro andare di pari passo. Sebbene inoltre i musicisti
fossero dotati di discreta tecnica, non vi era un approccio virtuosistico,
puntando essi più che altro all’impatto d’insieme ed alla atmosfera complessiva.
Un’atmosfera ossessiva ed alienante data da reiterati riff di
chitarra distorta ed una solida ed impeccabile base ritmica: niente assolo,
niente refrain melodici, niente chitarra acustica chiamata a sorreggere
l’immancabile ballad.
In “Ӕnima”,
uscito tre anni dopo (nel 1996), non si fece certo marcia indietro, ma
anzi si andarono ad esasperare molti aspetti di cui sopra. Il salto di qualità,
rispetto al predecessore, stava nel fatto
che la band sfoggiava allora una maggiore padronanza nel plasmare la propria
visione artistica, aveva le idee più chiare ed una accresciuta maturità
compositiva.
Fondamentale
risulterà l’innesto del nuovo bassista Justin Chancellor, un autentico virtuoso
delle quattro corde, il quale si distingue applicando al suo strumento molte
tecniche specificatamente chitarristiche: abile nel maneggiare il plettro,
specializzato nell’arpeggio, fa un uso ricorsivo di accordi, armonici, legature
(soluzione insolite per chi impugna un basso) ed effetti, senza mai accontentarsi
di ricalcare il monocorde riffeggiare di Adam Jones, che paradossalmente
suona meno vario e dinamico del suo compare. L’operato di Chancellor costituisce
l’ossatura dei brani dei Tool, che vedono nella sezione ritmica uno dei propri
punti di forza.
Non
abbiamo ancora menzionato il dotatissimo batterista Danny Carey,
metronomo vivente, vero motore ritmico della visione tooliana. Se nel
tempo i Tool verranno definiti progressivi, il merito è anche di questo torello
inarrestabile che dietro alle pelli sfoggia potenza e tecnica in un connubio
più unico che raro. Tanto per rendere l’idea: drumming torrenziale +
basso arpeggiato + riffing di chitarra ossessivo costituiscono il
linguaggio che i Tool forgeranno a beneficio di tutto l’universo metal,
progressivo e non. Basti fare due soli esempi: prendete “Disconnected”
(2000) dei Fates Warning e “Six Degrees of Inner Turbolence” (2002) dei
Dream Theater (fra l’altro i due esponenti più importanti del prog-metal) e
capirete come le lezioni dei Tool, nel corso di pochi anni, fossero divenute
giù parte del DNA di chiunque, in ambito metal, avesse nutrito ambizioni di fuga
dagli stilemi classici. Questo per dire che la musica dei Tool non è solo l’inevitabile
sentiero che percorreranno quegli artisti che imboccheranno la via del post-metal
(Isis è il caso più lampante, ma l’influenza dei Tool è ancora palpabile
in band di ultima generazione come i tedeschi The Ocean), ma un
patrimonio alla portata di tutti (ovviamente di tutti coloro che sono in grado
di padroneggiare un linguaggio mica tanto semplice da capire e riprodurre).
In “Ӕnima”,
ed a maggior ragione nel successivo “Lateralus” (del 2001), ancora più
espanso e complesso e ramificato, i Tool sono i progenitori di una nuova forma
di musica progressiva, tanto che, per importanza e per affinità scenografiche,
verranno paragonati ai Pink Floyd, sebbene i punti di contatto fra le
due entità siano labili e sottili. Che aggiungere: molti brani di “Ӕnima”
conservano ritornelli e strutture ricordabili, ma è anche vero che l’opera è un
tomo enorme di settantasette minuti, in cui vi troveremo sia brevissimi intermezzi
che composizioni più articolate che toccheranno minutaggi importanti,
perdendosi in traiettorie imprevedibili e suggestivi cambi di scenario.
E se
di ritornello si può parlare, di sicuro non abbiamo a che fare con gli enfatici
chorus dell’heavy metal classico. Il cantato di Keenan rimane minimale,
anche se nel corso degli anni egli avrà modo di crescere, rafforzandosi,
solidificandosi, estendendo il proprio range vocale, oscillante fra
paranoiche e farneticanti nenie, e grida soffocate trascinate oltre il limite
del consentito. Più che altro, Keenan diviene interprete e cantore di umane
afflizioni in cui si riconosceranno, poco a poco, sempre più giovani in cerca
di un’identità in cui specchiarsi (metallari compresi, che oggi indicano senza
indugi i Tool come dei nuovi leader del loro genere).
Come
il matematico che diviene filosofo, la musica dei Tool si fa spirituale (ed
è qui la loro forza) partendo da presupposti lontanissimi dall’umanità, ossia
dall’alienazione industriale e dal monadismo post-moderno. E questo lo vedremo
ancora di più in “Lateralus”, ma già è evidentissimo in “Ӕnima”, che una nuova
umanità sta nascendo dalle macerie della civiltà precedente. In questo i Tool
sono anticipatori, ma anche gli alfieri più credibili, di una forma d’arte
(metal solo per fortuita coincidenza, visto che i Tool, a parte la potenza e la
sporcizia sonora, non condividono quasi nulla con l’universo dell’heavy metal)
che diviene distopia (critica al presente) ed al tempo stesso utopia (indicando
una possibile via di uscita).
Per
l’attualità delle loro lezioni (che devono ancora oggi essere esplorate in
tutto il loro potenziale), i Tool (sebbene essi siano dei campioni “fuori
categoria”) meritano così di campeggiare
al secondo posto della nostra classifica: essi invero costituiscono il 50%
del “Nuovo Metal”. Vediamo chi rappresenterà l’altro 50%...