I 10 MIGLIORI ALBUM GLAM METAL
CAPITOLO 5: “THE LAST COMMAND” (09/11/1985)
No, non stiamo parlando dei
patetici fautori della supremazia dei Bianchi-AngloSassoni-Protestanti; e
neppure, anche se il dubbio in tal senso permane visto che gli stessi interessati
fecero passare questa interpretazione, di temibili Pervertiti Sessuali (We Are
Sexual Perverts). Più banalmente invece abbiamo a che fare con una Vespa,
insetto fastidioso e pungente. Impersonificata da un Oscuro Senzalegge…
Cari lettori di MM, siamo così
giunti a metà del nostro viaggio alla (ri)scoperta di quelli che, a nostro
modesto avviso, sono i dieci album Glam Metal maggiormente rappresentativi
degli anni ’80.
E, gioco forza, non potevamo che
trattare uno dei maggiori madman
della Scena americana della decade, quel Steven E. Duren che passerà alla
storia col nome di Blackie Lawless (e che il nostro Blog ha recentemente
trattato), proveniente da Staten Island, la parte più meridionale e meno
popolosa di New York City.
Come i lettori più attenti si
ricorderanno, nella terza parte dell’Anteprima avevamo citato tra le influenze
dei gruppi glam anche il c.d. shock rock
settantiano, che vedeva in Alice Cooper e nei Kiss i gruppi di punta.
Il nostro Blackie merita di
entrare nella nostra lista proprio perché rappresenta al meglio
l’estremizzazione e l’indurimento nel sound di quella specifica influenza. Da
Vincent Fournier, nome all’anagrafe di Alice Cooper, riprende soprattutto il
vestiario, di fortissimo impatto visivo, e le bizzarre scenografie dal vivo. Un
contesto, la dimensione live, nel quale Duren si muove a suo piacere, integrando
i macabri elementi scenici con le sue pose, le sue danze, piene di allusioni
sessuali, basate su bislacchi passi di danza; con il suo trucco dark, spesso integrato
dall’utilizzo di sangue finto e altre amenità di questo tipo, definibili, per
il sentito comune, scabrose.
Del più famoso “Bacio di NYC” (coi
quali la band andò anche in tour in Europa) invece i Wasp assimilavano la
lezione prettamente musicale, un rock diretto, semplice, sempre strutturato in
una “forma canzone” canonica in cui i chorus
ne rappresentavano costantemente il climax e il fulcro. Da questa base, debitrice anche dell’eredità
dei New York Dolls, con i quali Steven peraltro suonò giovanissimo in qualche show nei primi anni
settanta, Blackie e i suo fidi compari chitarristi Chris
Holmes e Randy Piper innestavano sia quelle sonorità hard/heavy
che avevano fatto la fortuna dei Motley Crue e dei Twisted Sister negli
immediati anni precedenti, che una spruzzata di reminiscenze metal prese in
prestito dalla NWOBHM.
Se aggiungiamo al tutto le tematiche a sfondo politico,
religioso e sessuale, il cocktail glamour è pronto. Un insieme ben miscelato che al
contempo rappresentava il rimanere all’interno del solco tracciato, e quindi
tradizionale, del Glam, ma anche spingerlo un po’ più in là, più avanti, marcando
una tacca evolutiva importante.
La bontà della proposta musicale
della Vespa, nonché la sua “pericolosità sociale”, era già emersa in modo
evidente nell’omonimo debut album, rilasciato nel 1984, già pieno zeppo di
brani cult, quali “I Wanna Be Somebody”, “B.A.D.”, “School daze” (un palese
omaggio al Cooper di “School’s out”), e la splendida conclusiva “The torture
never stops”. Ma, paradossalmente, il disco passerà alla storia più per una
traccia che non verrà inserita nel disco (ma che veniva proposta ripetutamente
dal vivo per la gioia dei fans), quella “Animal (Fuck Like A Beast)” che era
già di per sé nel titolo un manifesto programmatico (e in generale le allusioni
sessuali, usate come strumento di ribellione sociale, sarebbero state una
costante nella discografia del newyorkese). La P.M.R.C. intervenne
immediatamente nel bloccare la pubblicazione della canzone, provocando l’ira di
Lawless&co.; ma non ci fu nulla da fare: la Capital Records fu categorica
tanto che il pezzo potè essere inserito per la prima volta soltanto nella
ristampa del 1998!
Ma il disco della conferma (per
quanto stranamente meno venduto di “W.A.S.P.”) e di un’accresciuta
consapevolezza e maturità arrivò l’anno successivo col presente “The Last Command”,
dove il Nostro ci accoglie in copertina, con un ghigno luciferino e battagliero,
la sua distintiva meche bianca che
spicca dal nero della chioma. La sua famigerata tuta borchiata, equipaggiata
con rotanti lame metalliche, è addobbata con numerose piume bianche, rosse e
nere rendendolo somigliante ad un nativo americano. Sullo sfondo di un cielo
rosso-fuoco, trionfante sulla cima di una collina colma di ossa umane (e non), il
singer impugna una bandiera raffigurante una sorta di libera interpretazione del “Great Seal of U.S.A.”, il celebre sigillo con l’aquila americana che però, al posto delle zampe da volatile, ha delle braccia umane, e tra le mani stringe frecce da un lato e saette
dall’altro (mentre nella versione originale ha sia le frecce che un ramoscello
d’ulivo); e già di per sè questa è una bella provocazione. Ma non solo: sotto la testa dell’aquila è riportato il motto “Who dares wins!”, messaggio senza
dubbio autobiografico, visto il successo che Blackie stava riscuotendo in
quegli anni (e se pensiamo che da ragazzo era stato cresciuto in una rigida
educazione cristiano-battista ed era molto attivo nelle attività parrocchiali…di
strada e di cambiamenti ne aveva effettivamente fatti tanti!!).
L’incipit del disco è leggenda,
soprattutto se lo si ascolta tramite il videoclip: su una strada deserta e
assolata, in mezzo a un tipico deserto americano, giunge in lontananza, a bordo
di un chopper di easyrideriana
memoria, il nostro ”Wild Child”. L’arpeggio suadente ma al contempo energico
che introduce il brano crea un’atmosfera di attesa carica di tensione, che
presto però sfocia in uno dei più famosi mid tempo della decade. A quel punto
Blackie, “ragazzo selvaggio” per antonomasia, si materializza su una rupe con
il resto della band, con alle spalle la scritta a caratteri cubitali W.A.S.P. Il suo ghigno e i suoi
ammiccamenti, accompagnati dall’ immancabile look dalla capigliatura super-abbondante e cotonata, fanno tutt’uno
con la voce roca e potente, dal timbro unico e immediatamente riconoscibile.
Come un miraggio, appare e scompare una vamp
girl di rosso vestita, icona sexy tipicamente ottantiana; il nostro biker
le da la caccia fino a notte fonda, per ritrovarsi infine in un accampamento di
stampo preistorico, fatto di tende, di teschi impalati su delle lance e da
fuochi appiccati come per magia dalla bellissima sconosciuta, riapparsa a mo’
di totem tanto sensuale e desiderabile quanto sfuggente.
Le coordinate musicali del resto
del disco non si scosteranno molto da quelle definite in “Wild Child” per un
risultato complessivo omogeneo e compatto.
Tra pezzi più veloci e dinamici, heavy
fino al midollo, (come “Ballcruscher”, “Fistful of diamonds”, “Running wild
in the streets” e la conclusiva “Sex drive”), e altri più cadenzati e oscuri come
“Widomaker”, introdotta da un lento arpeggio con il vento che fischia in
sottofondo prima che gli accordi vengano ripresi in distorsione e la batteria
di Steve Riley ci accompagni
all’inizio del cantato fino ad arrivare al consueto, catartico, ritornello,
trovano spazio anche brani più singolari, come l’atipica ballata metallica
“Cries in the night”, guidata da una melodia portante oscura, quasi dannata, con
un chorus in cui parti acustiche ed elettriche si mischiano a formare un
insieme suggestivo; o la notevolissima
title track che nelle strofe trasuda un senso di epicità che poi deflagra
nel magnifico; per arrivare alle celeberrime “Jake Action” dove il clima si fa
più leggero anche se sempre coinvolgente (grazie a un riff di Randy Piper che
ti si stampa subito in testa) con un refrain da brividi risultando alla fine
uno dei brani migliori del lotto; e “Blind in Texas” forse il pezzo più conosciuto
dell’album, spassoso racconto di una sbornia presa al confine col Messico, a El
Paso, dal tono scanzonato e maggiormente blueseggiante con gli immancabili cori
trascinanti e, in sottofondo, sguaiati rumori da saloon (a tal proposito non
perdetevi l’esilarante videoclip, dove si potrà anche assistere ad una gara di
velocità tra…armadilli!).
Insomma, un album decisivo per il
Glam; non il punto più alto della carriera di Lawless, che raggiungerà il
vertice artistico con il fenomenale "The Crimson Idol" (1992), ma che di certo
fotografa, assieme ai coevi “Theatre of Pain” dei Motley Crue e “Invasion of
your privacy” dei Ratt, lo “stato dell’arte” della Scena americana esattamente
a metà decade.
Buon ascolto, buon agosto e, per gli altri cinque titoli della nostra Lista, ci risentiamo a settembre!
Buon ascolto, buon agosto e, per gli altri cinque titoli della nostra Lista, ci risentiamo a settembre!