Oggi
facciamo un esperimento insolito: prendiamo la “sconclusionata” discografia
degli Agalloch e ricomponiamo i tasselli del mosaico per dare un senso logico
al tutto. Non è presunzione la nostra, ma la convinzione che gli album della
band di Porland siano usciti (apparentemente) un po’ a caso, non rispettando
quella che potremmo definire una linea evolutiva coerente.
Beninteso:
se gli Agalloch sono un’entità magica è anche per il fatto che, almeno per
quanto riguarda i primi quattro full-lenght, ci hanno ripetutamente spiazzato,
pubblicando ogni volta l’album che non ci saremmo aspettati. A posteriori (ed è
questo il nostro sterile esercizio anti-filologico) è possibile
ricomporre il loro percorso lungo un sentiero che potrebbe rispecchiare una
possibile maturazione secondo quelle che sono le tappe evolutive standard
che generalmente scandiscono la crescita di una band metal.
Se
il concetto non vi è chiaro, seguiteci nei nostri ragionamenti…
Lo
so, per noi è un pallino, anzi una vera ossessione, ma è più forte di noi: non
ci diamo pace, o meglio, non ci dà pace l’idea che gli artisti oggi debbano per
forza evolversi. Chiariamoci: ci piace il fatto che la gente cambi (e infatti le
nostre palle si sono essiccate innanzi all’immobilità di certe artisti che
continuano, da una vita, a ripetere il medesimo album). Ma laddove vi sono dei
cambiamenti, spesso questi cambiamenti non sono genuini. In un percorso ideale,
uno inizialmente tira su una band, prova in cantina e si allena suonando cover
di band famose; poi si sviluppa un primo embrione di personalità ed esce il
primo album, che però è ancora acerbo; successivamente esce il secondo che migliora
certi aspetti e a volte è un capolavoro. E poi che si fa? O si cambia (in tal
caso, se la scelta è azzeccata, si è costretti a cambiare per sempre), o si
rimane uguali, magari perfezionando ulteriormente la formula (rischiando però di
cadere nelle grinfie del manierismo).
Prendiamo
un gruppo black a caso (fra l’altro il black si è dimostrato un terreno di
grande inventiva e sperimentazione): consideriamo i Satyricon. Con “Dark
Medieval Times”, esordio convincente, fecero il classico album acerbo con
spunti interessanti. Con “The Shadowthrone” fu compiuto un primo salto
di qualità: svilupparono la loro personalità, da un lato toccando il top
dell’ispirazione, dall’altro non riuscendo a dribblare tutte le possibili
ingenuità. Con “Nemesis Divina” si fece un ulteriore passo in avanti:
aggiustarono il tiro, non commisero errori e finirono per dare alla luce il
loro capolavoro formale. Raggiunta la perfezione, cambiarono comprensibilmente approccio
con “Rebel Extravaganza”, album dai forti spunti sperimentali, ma non
del tutto riuscito. Fu l’inizio della fine: con gli album successivi Satyr e
Frost non seppero più che pesci prendere, attirati da un lato da soluzioni
sempliciotte, spensierate e rock’n’roll oriented, risospinti dall’altro
da periodici rinculi esistenziali e conseguenti inasprimenti di suono. Nel suo
complesso, la sequenza delle scelte fatte dai Satyricon (condivisibili o meno) ha
una sua logica.
Nel
caso dei primi quattro album degli Agalloch, invece, questa coerenza non
la troviamo, per questo abbiamo deciso di ricomporre un’ideale sequenza, che
descrive una credibile evoluzione da noi inventata. Lasciamo da parte gli
svariati EP (cinque in tutto) e il quinto ed ultimo album, “The Serpents and
the Spehere”, che è l’unico che non ci ha entusiasmato, guarda caso proprio
perché è l’unica uscita scontata degli americani: a corto di idee, hanno evidentemente
deciso di giocare la tipica carta del “rimpasto governativo”, ossia il classico
album di riepilogo che “ripresenta in modo organico tutti gli elementi
peculiari che la band ha espresso nel corso della sua lungimirante carriera”
(le virgolette non indicano una citazione, ma una descrizione generica che non
significa niente e che funge solamente da paravento per non ammettere che
l’album è un bell’involucro che racchiude un inquietante vuoto di idee).
L’esordio ideale: “Marrow of the Spirit” (2010)
Partiamo
dalla fine: il quarto album degli Agalloch è il più feroce di tutti, ha suoni
scarni ed aderisce agli stilemi tipici del black metal scandinavo. Per certi
aspetti è il “Nattens Madrigal” degli Agalloch. Uno si chiede: come mai? La
band proveniva da un lavoro complesso, melodico e maturo come “Ashes Against
the Grain” e decide coscientemente di retrocedere/regredire ad un’opera
minimale, sporca, caratterizzata da cruda elettricità, da suoni stiracchiati e,
di contro, da una drastica riduzione della melodia: chitarre acustiche e voci
pulite vengono ridotte ai minimi termini e l’album che viene fuori lo avremmo
visto volentieri più come un interessante debutto che come il termine ultimo di
un percorso evolutivo. Quando uscì in molti storsero la bocca, ma non il sottoscritto:
a me piacque questa inaspettata mossa di John Haughm e soci. Ci vidi
sincerità, genuinità, voglia di tornare all’essenza delle cose piuttosto che cedere
alle lusinghe nel mestiere. L’album è infatti lo specchio di un momento
difficile per il leader della band, che proprio in quel periodo dovette
affrontare gravi problemi di salute. La
maturità della band, dunque, non si calcola più nella cura degli arrangiamenti, ma
nella capacità di veicolare emozioni: emozioni vere, forti, incandescenti, che
poi è sempre stata la prerogativa degli Agalloch (fatta eccezione per l’ultimo
parto discografico).
Espandendo
il suono, verso i lidi del folk e del post-rock: “The Mantle” (2002)
Dopo
il “finto esordio” di “Marrow of the Spirit”, che ci descriveva una band ancora
rozzotta ma con delle buone idee dalla propria parte, ecco che si arriva
al suo disorganizzato successore: il laboratorio in cui la band, ancora acerba,
tenta nuove strade, non detenendo ancora quel rigore che è dato solo dall’esperienza,
dalla maturità, dalla consapevolezza dei propri mezzi espressivi e da una
visione artistica messa ben a fuoco. Chiariamolo subito onde evitare i
fraintendimenti: “The Mantle” è il mio album preferito degli Agalloch,
ma non lo proporrei come primo approccio al neofita, in quanto il suo ascolto
potrebbe essere spiazzante. Per metà praticamente strumentale, l’album si
compone per sua gran parte di momenti acustici, che, più che guardare alla
tradizione nord-europea (come fatto per esempio dagli Ulver), sembra derivare
dal folk apocalittico di Death in June e Sol Invictus, fonti di
ispirazione dichiarate per la band. Fra un arpeggio e l’altro, i Nostri
sfoggiano anche la loro passione per i crescendo di matrice post-rock, messi
insieme pensando a band come Mogwai, Explosions in the Sky e Godspeed
You! Black Emperor (che niente c’azzeccano con gli Emperor). Il tutto
allestito con grande libertà, senza un disegno organico che metta in ordine i
pezzi, più o meno collocati “a caso” su un background di fumante e
macilento black metal di natura depressiva (quello che avevamo individuato nel
finto esordio). Questa è al tempo stesso la forza dell’album, che suona genuino
e figlio di un’urgenza comunicativa che non ammetteva mediazioni; ma anche la
debolezza, visto che sembra quasi l’opera di semi-esordienti che non hanno
ancora le idee molto chiare sul da farsi. Per noi questo lavoro potrebbe
costituire l’ideale passo avanti (il classico passo più lungo della gamba) che
la band compie non ancora pienamente consapevole delle proprie potenzialità.
Equilibrio,
organicità, omogeneità: “Pale Floklore” (1999)
Strano
caso quello del reale debutto degli Agalloch, che a parer nostro potrebbe
invece campeggiare con dignità sul gradino evolutivo superiore a “The Mantle”.
L’esordio degli americani è un solido black-doom dalle forti tinte melodiche
che vede come essenziali punti di riferimento Katatonia, Opeth ed
Ulver. Il sound è ricco e variegato, ma anche asciutto e
composto, più di quanto lo siano i lavori da noi precedentemente elencati. In
esso confluiscono con grande sistematicità inserti folk e suggestioni mutuate
dalla dark-wave ottantiana. Forse la band di John Haughm pagava lo scotto di
una personalità non ancora forte e quindi della necessità di poggiarsi con
forza sugli insegnamenti dei maestri. Eppure, se fosse uscito dopo “Marrow of
the Spirit” e “The Mantle”, non ci saremmo stupiti più di tanto, considerati
l’equilibrio e la grazia che lo caratterizzano: forse la band aveva meno idee,
ma esse si manifestavano in modo più chiaro e i musicisti erano in grado di svilupparle
meglio. E’ questa la ragione dell’illusione ottica che si viene a creare in
questo “finto album della maturità”.
Il
capolavoro formale: “Ashes Against the Grain” (2006)
Eccoci
finalmente al definitivo salto di qualità, formale e sostanziale: compatto e
potente come mai lo è stato un disco degli Agalloch, “Ashes Against the
Grain” sembra scaturire, fiorire, germogliare direttamente dalle eleganti
movenze di “Pale Folklore” (senza la necessità di un intervento intermedio da
parte di quel “The Mantle” da vedere come un episodio a sé stante nella
discografia della band). L’evoluzione è netta e tangibile, ma anche coerente:
il sound non viene stravolto, ma arricchito di nuovi elementi (si veda
l’approccio maggiormente post-metal che deriva sicuramente dall’influenza degli
Isis) e curato nei minimi dettagli. La produzione è nitida, gli
arrangiamenti sono raffinati e conferiscono una rinnovata eleganza, ma il post-black
degli Agalloch non perde vigore né intensità. Fondamentale l’apporto del nuovo
batterista Peter Greene, che conferisce dinamismo e calore alle
architetture sonore (sempre più complesse ed al tempo stesse fluide) allestite
dalla band. Una complessità ed una fluidità che verranno paradossalmente perse
con il successivo “Marrow of the Spirit”, anche per colpa del nuovo ingresso
dietro alle pelli, quell’Aesop Dekker batterista dal piglio pestone
e con il difetto (non da poco!) di non capire come deve marciare una canzone
degli Agalloch.
Torniamo
dunque alla realtà. Il percorso che abbiamo delineato è pura fantasia; le
cose sono andate diversamente, gli album sono usciti nel seguente ordine: 1)
Pale Folklore, 2) The Mantle, 3) Ashes Against the Grain, 4) Marrow of the
Spirit. Ma forse è meglio così: fosse andata come da noi indicato, tutto
sarebbe stato più prevedibile, banale, e parte della magia degli Agalloch
sarebbe sfumata.
Quando
si dice che la realtà supera la finzione…