I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL CLASSICO
9° CLASSIFICATO: “TREASURE ISLAND” (RUNNING WILD)
Rimaniamo nel 1992. Quando nel corso di quell'anno i Manowar
editavano il controverso “Triumph of Steel” (che abbiamo avuto modo
di sfiorare parlando della suite “Achilles, Agony and Ecstasy in
Eight Parts”), i Running Wild davano alle stampe uno dei loro album
più belli: “Pile of Skulls”, loro nono full-lenght.
Non ad inizio scaletta (come era successo nel caso dei ben
più coraggiosi Manowar), ma alla fine della stessa, ci imbattiamo nel brano più
lungo dell'album: “Treasure Island”. In questo caso il “contatore” si
ferma a “soli” 11 minuti e 14 secondi, meno della metà dello
“sproposito” messo in musica dai Kings of Metal, ma una lunghezza concettualmente
eccezionale per le visioni limitate del leader Rolf Kasparek.
Rolf Kasparek, in arte Rock'n'Rolf, non è
persona che ama stravolgere consuetudini consolidate. E’ quello che, quando va
dal barbiere (lo stesso barbiere di una vita), si accomoda sul sedile ed enuncia
solennemente “il solito!”. E’ quello che in pizzeria ordina sempre la
margherita, un po' perché non interessato ad assaggiare altro, un po' perché è
veramente convinto che la margherita sia la pizza migliore. Poi ovviamente c'è
l'occasione speciale che deve essere festeggiata con una aggiunta di bufala, o,
se proprio si vuole fare i pazzi, con una salamino-piccante. Una quattro
stagioni, una capricciosa sono semplicemente inconcepibili.
Ci tengo a chiarire che non sono mai stato in pizzeria con Rock’n’Rolf,
ma deduco questo tratto della sua personalità dalla musica proposta dalla sua
band: album tutti uguali, canzoni tutte uguali, poche/pochissime variazioni sul
tema. L'heavy-power piratesco dei Running Wild si è negli anni replicato
implacabilmente, con risultati buoni e a volte meno buoni, dagli esordi fino ai
giorni nostri con le medesime caratteristiche: il loro brano-tipico si muove
fra quattro e cinque minuti, ha un ritmo martellante, riff baldanzosi
eseguiti avendo ben in mente Judas Priest ed Iron Maiden e
ritornelli anthemici per quanto lo potesse consentire la voce roca e
piatta di Rock’n’Rolf. Poi, certo, c’era stato il pezzo cadenzato dai rimandi sabbathiani,
l’introduzione atmosferica, l’episodio strumentale, il brano leggermente più
lungo, tutte piccole deviazioni dal tracciato (del resto si parla di heavy
metal e non di grind), come ci può stare, ogni dieci margherite, una marinara
semplice o un antipasto di salumi. Dati questi presupposti, com’è possibile
immaginarsi una traccia di oltre dieci minuti?
Anzitutto il concetto del brano di estesa durata non è
estraneo al mondo del metal classico, basti vedere l’uso copioso che di questo format
hanno fatto gli Iron Maiden, di cui Kasparek è senz’altro ammiratore:
logico dunque che, almeno secondo l’ortodossia del genere, una “sperimentazione”
in questa direzione è teoricamente concessa. Fa tenerezza però come, timido
tentativo dopo timido tentativo, il Nostro si sia approcciato alla
questione. Il primo brano un po’ più lungo fu sperimentato in “Port Royal”
(1988): parlo di “Calico Jack” (8:14), posto vigliaccamente in chiusura.
Esso, in verità, procedeva come qualsiasi altro brano, solo con qualche
porzione strumentale in più a farcire il classico formato canzone. Un qualcosa
del genere verrà tentato successivamente in “Death or Glory” (1989) con
“Battle of Waterloo” (7:48), che ricalca lo schema maideniano del
brano epico ispirato ad un evento storico (preferibilmente a sfondo bellico).
Eccoci dunque nel 1992 con “Pile of Skulls”, in cui Kasparek
rompe ogni indugio e concepisce/realizza il brano (fino ad allora) più lungo
della sua carriera: “Treasure Island”. Per cotanta impresa il Nostro
dovette ricorrere al top delle sue energie intellettuali, alla Bibbia
della sua biblioteca, l’unico libro forse da lui mai posseduto e letto (oltre
ovviamente al romanzo di formazione “Le avventure di Peter Pan”), quello
che tiene religiosamente sul comodino (anche perché probabilmente la libreria
in casa Rock’n’Rolf non ce l’ha) pronto per essere consultato in ogni evenienza
della vita: “L’isola del tesoro” di Robert L. Stevenson, che
certo non necessita di presentazioni.
Armato di buone intenzioni, Rock’n’Rolf si getta nella
scrittura di questo strabiliante brano, da inserire sicuramente fra i momenti
più alti della sua produzione. Personalmente parlando, dopo averlo riascoltato
diverse volte per poterne scrivere con cognizione di causa, vi giuro che non ho
ancora capito cosa diavolo succede in questo brano per durare così tanto: il riff
portante è tosto, il ritornello ti si ficca in testa fin dal primo ascolto,
ma per il resto cosa accade negli undici minuti di “Treasure Island”? Niente,
e proprio per questa anomalia abbiamo deciso di analizzarla.
Si parte con il rumore delle onde che si rifrangono contro
la costa, mentre una voce narrante introduce l’ascoltatore al mood
avventuroso del brano. E così ci giochiamo già un minuto e mezzo, ma non è
tempo perso, perché già con il becero grido + risata forzatissima del buon Rolf
che squarcia improvvisamente la narrazione è già pelle d’oca mischiata a
simpatia: simpatia per un gran cafone del metal che si è talmente calato nella
parte del filibustiere da rasentare la crisi d’identità. Fraseggi melodici di
chitarra si fanno largo fra le onde ed ecco che parte il riffone
portante, tipicissimo dei Running Wild, che poi non è altro che la bastardizzazione
del riff tipico dei Maiden (fra l’altro, ad ascoltarlo bene oggi, ricorda
da vicino quello di “Fear of the Dark”, che guarda caso aveva visto la
luce qualche mese prima del medesimo anno).
Strofa/ritornello, strofa/ritornello, giungiamo al quarto
minuto come se fosse un qualsiasi altro pezzo della band.. Avrebbero potuto
concedersi una pausa atmosferica, oppure accennare un intermezzo acustico (risate
in sottofondo) ed invece i Running Wild premono sull’acceleratore ed optano per
l’epic-song senza compromessi. Nei minuti che seguono, le strofe
masticate da Kasparek si alternano a pregevoli assolo e fulminee accelerazioni.
Un plauso all’operato del batterista Stefan Schwarzmann,
chiamato a sostituire in questa release lo storico AC, e che, già
dal successivo “Black Hand Inn”, verrà licenziato per essere sostituito
da quella piovra umana che è Jorg Michael (noto anche per aver militato
negli Statovarius). Il drumming semplice ma efficace di
Schwarzmann (ricordo che successivamente verrà reclutato dagli Helloween
e che lui stesso deciderà di tirarsi indietro ammettendo di non essere in grado
di riproporre certi passaggi dei brani della band di Weikath) si sposa alla
perfezione con i limiti di scrittura di Kasparek, conferendo vigore e potenza
al classico riffing al vetriolo. In questo brano, dall’andamento
travolgente, l’approccio da schiacciasassi di Schwarzmann è ottimale.
Se del bassista Thomas Smuszynski non c’è molto da
dire, qualche parola può essere spesa per l’operato del chitarrista Alex
Morgan, che con la sua sei corde decora abilmente questa porzione centrale
del brano: assolo graffianti che non indugiano molto sulla melodia, ma che si
incastonano alla perfezione con i riff granitici della chitarra ritmica,
dando piacevole varietà a questa fase burrascosa della traccia, che ospita
anche un rallentamento (riaffiorano i fraseggi iniziali del pezzo) presto spazzato
via da una nuova vigorosa ripartenza. Ripartenza che conduce ad altri assolo e
la classica chiusura circolare, ossia strofa/ritornello e outro sempre a
base di onde.
L’operazione si rivela un successone e questo perché
la band dimostra un grande pregio: quello di conoscere i propri limiti, non spingendosi
mai al di là della proprie capacità e compattandosi intorno ai propri punti di
forza. Tanto che Kasparek ci prende gusto e deciderà di replicare l’esperimento
nel successivo “Black Hand Inn” con il brano (sempre posto in chiusura,
vuoi mai che qualcuno si sconvolga…) “Genesis (The Making and the Fall of Man)”, che supera
addirittura i quindici minuti. Il copione però rimane lo stesso: la
micidiale doppia-cassa di Jorg Michael ed epici inserti di tastiere gioveranno
al brano, ma la brillantezza di un gioiello come “Treasure Island” (archetipo e
modello per tutti i brani di estesa durata in cui la band si cimenterà in
futuro) rimane ineguagliata.
Un capolavoro di umiltà.