24 gen 2016

ALBUM CHE DUELLANO CON LA MORTE (parte II): ANCHE IL METAL HA GUARDATO NELL'ABISSO...




“…E quando guardi giù, nel profondo dell’abisso, anche l’abisso guarda dentro di te.” (F. Nietzsche)

Abbiamo parlato di David Bowie, abbiamo sfiorato Freddy Mercury e Johnny Cash: degni rappresentanti della categoria “artisti alle prese con la propria morte. Abbiamo dato uno sguardo, seppur fugace, a quelli che nell'empireo del rock potremmo definire album che duellano con la Morte: opere concepite e realizzate da artisti che oramai hanno la Signora con la Falce che li aspetta fuori dallo studio di registrazione.

E nel metal? Abbiamo album che hanno duellato con  la morte?

D'impulso potremmo rispondere di sì: la morte è di casa nel metal, basti pensare a generi come il doom, il death, il black, senza poi stare a scomodare le varie derivazioni funeral, depressive ecc. Ma non è questo il nostro caso: in quegli ambiti spesso ci si limita a parlare di morte, quando invece noi intendiamo trattare opere in cui la morte c’è per davvero, morte che infesta il corpo e lo spirito dell'artista.

Scorrendo la lista dei morti nel metal (perché ahimè da qui si parte), non sono in verità molti coloro che hanno avuto il “privilegio” di affrontare la morte in un'ultima fatale opera: suicidi, morti ammazzati, overdose e complicazioni per cirrosi epatica vanno per la maggiore, tutte situazioni in cui chi muore spesso non ha il tempo per realizzare quello che gli sta accadendo. Non mancano ovviamente casi di malattie, ma spesso queste si sono sviluppate in momenti in cui l'artista aveva già sospeso ogni attività, come se il metallaro, una volta appreso lo stato terminale di una malattia, non ne volesse più sapere di lavorare. Ronnie James Dio, Lemmy, giusto per fare grandissimi nomi, ci hanno lasciati senza un testamento spirituale. Rock or die, per quanto riguarda il primo; Rock until you die, per quanto riguarda il secondo.

Se pensiamo alla Morte, a quella morte reale di cui si parlava, il primo album che senz'altro viene in mente è “De Mysteriis Dom Sathanas” dei Mayhem, che di morti fra le proprie fila ne conta addirittura due (Dead non era più in formazione al momento della registrazione dell’album, ma i testi portavano ancora la sua firma). Dell’album ne abbiamo già parlato, e non a caso il nostro post si intitolava “I morti al potere!”. Ma attenzione: sia Dead, morto suicida, che Euronymous, assassinato, non potevano avere quella consapevolezza che ha necessariamente un malato terminale. Non è dunque nemmeno “De Mysteriis dom Sathanas” l’album che stavamo cercando, ma val la pena comunque citarli, questi norvegesi, perché non sarà certo un caso che, nel medesimo gruppo, capiti che ben due membri, per faccende scollegate fra loro, siano morti di morte violenta, uno facendosi saltare le cervella con una pistolettata, l'altro preso a coltellate.

No, non è un caso. E questo senso di morte incombente era presente nei testi macabri di Dead, come lo sarà nei riff gelidi e taglienti di Euronymous. Un senso di morte che aleggia, che è palpabile, tangibile, ben più che una sensazione evocata ad arte da atmosfere sinistre e versi che guardano morbosamente all'Aldilà. La morte era già presente nella mente annebbiata di Dead, essa era già alle spalle di un Euronymous, che, forse inconsciamente, l'aveva evocata, non solo realizzando quel tipo di musica, ma circondandosi di persone disturbate (disgraziate, depresse o criminali che esse siano state). “De Mysteriis” non è quindi un semplice album maledetto, come possono essercene tanti nel rock o nel metal, perché su di esso non girano leggende: la sua leggenda, ahimé, si basa su accadimenti, fatti reali.

Tornando però al nostro criterio iniziale, potremmo prendere in considerazione i Type O Negative di “World Coming Down”. Peter Steele, tuttavia, non morì durante, o appena dopo, la sua gestazione, in quanto i Type O Negative avrebbero pubblicato successivamente altri due album, “Life is Killing Me” e “Dead Again”: titoli di una eloquenza agghiacciante nel preannunciare il decesso del cantante che avverrà nell'aprile 2010 per un arresto cardiaco. E’ lecito tuttavia pensare che Steele si sia in verità suicidato, considerato che egli soffriva da anni di depressione e che era solito fare abuso di sostanze stupefacenti. Perché allora parlare di un album del 1999, ossia concepito, suonato e pubblicato più di dieci anni prima del decesso? Perché “World Coming Down” preconizzava un percorso verso la Morte già in atto, che Steele aveva coscientemente imboccato. Addirittura tre intermezzi ambientali “celebravano” i tre vizi capitali di Steele: la cocaina, l'alcool e il fumo. Mentre si sprecano i testi in cui la sua vita veniva descritta come un inferno (“E’ un inferno…finirà…ma quando?”). Fra questi spiccano senz’altro i celebri versi “It's better to burn (to burn) quickly and bright/ Than slowly and dull (and dull) without a fight”, che citano direttamente quelli di Neil Young, i medesimi che aveva utilizzato Kurt Cobain nella sua lettera d'addio prima di togliersi la vita.

Apro una parentesi, visto che abbiamo sfiorato la figura di Kurt Cobain, altro morte illustre: forse non tutti sanno che a prestare l'arma da fuoco con cui Cobain si tolse la vita fu Dylan Carlson, coinquilino dello stesso, nonché fondatore e leader degli Earth. Personaggio strano, Dylan Carlson, uno che inventò una musica altrettanto strana, strumentale, lenta, fatta di brani lunghissimi, estenuanti, magari sorretti da un unico riff di chitarra. Lo chiamavano drone metal e di sicuro i Sunn O))) ne sanno qualcosa. Ma se un tuo amico ti chiede una pistola, perché gli serve per difesa personale, e tu gliela presti in buona fede, non è certo colpa tua se poi quello, con la tua arma, si ammazza.

Non è colpa tua, però la morte di un amico può segnarti per tutta la vita, soprattutto se sei parzialmente coinvolto. Quanto la musica degli Earth avrà successivamente risentito della morte di Cobain, questo è impossibile definirlo con esattezza, soprattutto se si considera che si sta parlando di un personaggio non proprio ordinario come Carlson, che fra le altre cose sparirà dalle scene per qualche anno per imprecisati problemi legali e di droga. Andatevi ad ascoltare l’album del mesto ritorno “Hex (Or Printing in the Infernal Method)”, del 2005, e ditemi voi se fra le piaghe di quei suoni lenti, di quelle ambientazioni da western apocalittico, non si sente soffiare il desolante vento della Morte. Non quella di Cobain, ma quella di tutti noi…

Ma tornando al Mondo che Crolla di Peter Steele, è lecito affermare che in quell’album si stava forgiando una progettualità di morte. Peter, come un malato terminale votato al suo destino, era consapevole: voleva morire. E di fatto sarebbe morto un pezzetto al giorno, aiutato dall’alcool, dalle droghe, dagli antidepressivi, scontando quella che lui vedeva come una pena, esattamente come aveva predetto in “World Coming Down”. Verrà accontentato una decina di anni più tardi. Ma quelle di “World Coming Down” non erano profezie, bensì solide realtà che si andavano conformando nello spirito e nel fisico del cantante.

Eppure non abbiamo ancora centrato il punto: “World Coming Down” al massimo flirta con la morte, ma se vogliano andare a vedere opere che realmente hanno duellato con la Morte, dobbiamo andare a trovare Chuck Schuldiner. La frase di Nietzsche che abbiamo scelto per aprire il post non è a caso tratta proprio dal booklet interno di “The Sound of Perseverance”, ultimo album dei Death.

“Morte” era il nome della sua band: un nome che fu scelto da Schuldiner non per dare un tocco macabro alla sua musica, ma per tributare la morte del fratello, deceduto qualche anno prima in un incidente stradale. In un certo senso l’epopea dei Death, che terminerà con la morte del suo deus ex machina, ebbe inizio proprio con una morte. Certo, potremmo concludere che uno che chiama la propria band “Morte” ed è l’iniziatore del metal della morte, era forse predestinato ad assolvere un compito del genere: ossia quello di cantar della Morte, o meglio, della fine della Vita. Ma la musica dei Death non è mai stata depressa, arrendevole: ha sempre racchiuso uno spirito combattivo, forse destinato alla sconfitta (come poi si vedrà), ma tenace nella sua coerenza, nella sua perseveranza.

I suoni della perseveranza. L’ultimo album di Chuck si chiamerà “The Fragile Art of Existence”, rilasciato sotto il marchio Control Denied, altra faccia di quell’arte schulderiana che abbiamo visto progredire e raffinarsi album dopo album. Quell'ultimo atto fu figlio di quella malattia che nel giro di pochissimo tempo ucciderà Schuldiner, strappandolo dalla vita a soli trentaquattro anni. Il nostro Blog ne ha parlato proprio di recente, interpretandone i testi (vedi qui e qui) e sondandone la portata esistenziale (qui e qui), comparandola fra l'altro con il pensiero del grande Stanley Kubrick (!!!). Senza quindi voler ripetere quanto già detto, ci basti aggiungere che l'ultima opera firmata da Chuck, più che duellare con la morte, ha filosofeggiato con la stessa: fino alla fine Chuck avrebbe mantenuto la sua visione cinica ma posata, impietosa ma ponderata, ragionevole ma spietata. Lui si che ha guardato la morte a viso aperto!

“The Fragile Art of  Existence” fu la naturale continuazione stilistica di “The Sound of Perseverance”: quel death metal che oramai gli stava stretto fu lasciato definitivamente alle spalle per tornare a quell’heavy metal classico amato in gioventù e che fu la ragione prima per cui il Nostro imbracciò una chitarra e fondò una band (forse, questo, l’unico sfizio concessosi in un percorso artistico fatto di rigorosa ricerca). Se vi avesse cantato sarebbe stato indubbiamente un album dei Death, ma la ferrea autodisciplina di Chuck, che si sarebbe sentito un buffone a cantare su un album heavy metal, lui che dietro al microfono non si è mai trovato a suo agio, lui che la voce l’aveva utilizzata solo per dare corpo ai suoi versi (parole che divengono inscindibili da quel modo tagliente di scandirle, come fossero lame), gli impose di cedere il microfono ad un cantante professionista, per potersi concentrare sulle parti strumentali, dimensione a lui prediletta.

L’approccio fu sempre più tecnico, chirurgico, la malattia non ebbe modo di abbattere l’incrollabile forza di volontà, lo sguardo profondamente razionale e logico, quasi matematico, di Chuck (nel frattempo fuori pericolo dopo un intervento chirurgico che pareva avesse rimosso il carcinoma), ma lo inasprì nel suo inguaribile disincanto. Come ogni suo album, “The Fragile Art of Existence” era il massimo che al momento potesse esprimere, l’ennesimo esercizio di rigore di un artista che continuava imperterrito per la propria strada. Non c’è resa, non c’è lascivia, ma solo determinazione a dare il meglio di sé, a continuare ad esistere: aspetti che per Chuck sembravano coincidere. Ed è questo a stupire: la volontà di andare avanti senza farsi troppo disturbare dalla morte.

Ma Chuck oramai aveva visitato l’abisso...

Sebbene sia la Morte stessa ad occupare il centro della scena, la parola “perseveranza” compare ancora una volta nel ritornello della title-track, vero testamento spirituale di Chuck:

“La fragile arte dell’esistenza
E’ tenuta in vita dalla pura perseveranza
La fragile arte dell’esistenza”

La vita è dunque votata alla dissoluzione e solo con la tenacia essa può essere mantenuta unita nelle sue parti. Basta un nonnulla per spezzarla: ecco che dopo l’illusoria guarigione, la malattia tornò a prevalere. E sarà velato di perversa ironia il fatto che la vicenda personale di Schuldiner, da sempre attento ai temi del sociale, si andasse ad intrecciare con le inadeguatezze del sistema sanitario americano. Il leader dei Death si ammalerà nuovamente e non avrà i soldi per pagarsi le cure. Non basteranno le donazioni dei fan, né gli introiti ottenuti grazie alla pubblicazione tempestiva di “Live in L.A. (Death & Raw)” e “Live in Eindhoven”, rilasciati entrambi in fretta e furia per batter cassa: poco dopo, il 13 dicembre del 2001 per l’esattezza, il cuore di Chuck Schuldiner avrebbe definitivamente smesso di battere. L'amarezza più grande viene al pensiero di quello che avrebbe potuto ancora dare colui che nell’arco di una carriera impeccabile aveva saputo crescere costantemente, non disperdendo le energie, ma ottimizzandole in ogni momento. Non ci resta pertanto che far tesoro del suo messaggio finale, del suo più grande insegnamento:  

“Non c’è tempo per piangersi addosso
Non c’è tempo per fantasticare su ciò che avrebbe potuto essere
Ma bisogna essere ora”