20 gen 2016

VOID OF SILENCE: "HUMAN ANTITHESIS"




I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL ESTREMO

6° CLASSIFICATO: “HUMAN ANTITHESIS” (VOID OF SILENCE)

Fa un po' strano vedere i maestri My Dying Bride scavalcati da coloro che potrebbero essere considerati loro discepoli, ma vogliamo ricordare che qua la classifica è dei brani, non dei gruppi, né tantomeno delle carriere. E “Human Antithesis” (una suite-spettacolo di venti minuti e sedici secondi) è una concorrente che avrebbe meritato di presenziare ben più in alto in classifica, dato che la sua magnificenza ne fa uno dei più mirabili casi di “brano lungo” partorito dal metal estremo.

Chi sono del resto i Void of Silence innanzi ai My Dying Bride? Gli inglesi il genere lo hanno praticamente inventato, sviluppato, portato a perfezione. Album come “Turn Loose the Swans” e “The Angel and the Dark River”, come già visto, sono pietre miliari che hanno indicato la strada ad un intero movimento: opere ispirate che hanno delineato degli standard ed al tempo stesso hanno gettato le premesse per il loro superamento. Chi sono dunque i Void of Silence?

Definirli dei semplici epigoni della Sposa Morente è riduttivo, ma anche metodologicamente sbagliato: i Nostri provengono semmai dal black metal e fin dai primi passi hanno voluto e saputo intraprendere un sentiero estremamente personale che li ha condotti in territori che nessun altro ha saputo poi battere. Influenze di band come My Dying Bride e Paradise Lost rimangono innegabili, ma nei Void of Silence, che appartengono alla generazione successiva, si va ben oltre: nella loro proposta troviamo ambient, industrial e persino un tocco di neofolk, tanto che i romani si sono meritati nel tempo l’etichetta di doom apocalittico, di cui peraltro rimangono ad oggi (che io sappia) gli unici rappresentanti.

L’abbandono di Malfeitor Fabban, che nei primi due lavori (“Toward the Dusk” e “Criteria ov 666”) aveva messo a disposizione la sua sporca ugola, comportò un cambio di rotta per questo terzo capitolo “Human Antithesis”, rilasciato nell’anno 2004. Le coordinate black metal (principalmente farina del sacco del cantante/bassista degli Aborym) furono parzialmente abbandonate per sprofondare con grande convinzione negli abissi di un doom tanto sinfonico quanto contaminato: contaminato dall'elettronica e da severi umori marziali che sono invece prerogativa del neofolk di Death in June e dell’industrial di act quali Der Blutharsch e primi Blood Axis.

Una formula difficilmente componibile che viene resa credibile da un ensemble che, volutamente lontano dai riflettori (la band non svolge, per esempio, attività concertistica), procede al di fuori degli schemi, forte del solido connubio fra Riccardo Conforti, tastierista straordinario, ed Ivan Zara, abile chitarrista che sa tenergli il passo. Ad accompagnare i due (che si occupano anche delle basi ritmiche, il primo, e del basso, il secondo) troviamo uno special guest d’eccezione, che con il suo talento saprà tingere di sfumature inedite il sound funereo dei Void of Silence: Alan Nemtheanga Averill, già vocalist extraordinaire negli irlandesi Primordial, reclutato dai romani per ergersi cantore dell’Inenarrabile.

Industrial, folk apocalittico, black metal, sentori marziali, ambientazioni belliche: tutto farebbe pensare all’ennesima entità guerrafondaia che costella il panorama estremo (metal e non), ma i Void of Silence ci raccontano l’esatto contrario. Sebbene la fascinazione/attrazione per certe tematiche ed atmosfere sia evidente, il messaggio finale si rivela essere l’opposto di quello atteso, configurandosi “Human Antithesis” come un autentico e sentito manifesto antibellico. Concepita come una suite divisa in tre parti, essa in verità si sviluppa come una impervia successione di frammenti musicali.

Leggiamo undici messaggi speciali: il corriere di Lione; Enrico non studia; sempre più in alto; Maria si prepari; Martino non parte; abbi fede; Anna dorme; la mia barba è bionda; la gavetta è vuota; le sorbe sono acerbe; le castagne sono crude. Ripetiamo:...”

Queste sono le parole con cui inizia il brano. Non è la voce ovattata dell’Istituto Luce, ma quella di Radio Bari, la prima emittente attiva in Italia dopo l'8 settembre del 1943: strumento per la diffusione degli ideali di liberazione nell'Italia occupata, per il coordinamento delle forze della resistenza e mezzo di connessione per i soldati prigionieri nei territori occupati. Tutto l’album, invero, sarà costellato da campionamenti di registrazioni recuperate chissà dove (lo stesso booklet rispecchia questo spirito documentaristico sfoggiando affascinanti foto d’epoca). La registrazione scelta per aprire le danze è la selezione di una serie di messaggi in codice trasmessi a beneficio dei Partigiani: parole che in realtà hanno un valore principalmente evocativo, ma che si slegano dal concept del brano, che invece intende rappresentare la disperazione di un combattente innanzi all'insensatezza della Guerra. Parole che contestualizzano, che introducono il tema, ma che non necessariamente si riferiscono al periodo storico a cui esse appartengono: i Void of Silence ci parlano infatti della Guerra, una guerra idealtipica, la sempiterna guerra madre di morte e distruzione, antitesi dell'Umanità, tragedia imponderabile sofferta in una inconsolabile individualità. Una dimensione in cui la figura di dio (sia pur esso quello Cristiano o persino Allah, peraltro richiamato ad un certo punto del testo) si rivela essere fasulla, impotente.  

C’è da precisare che le liriche sono a carico di Nemtheanga e che a lui solo probabilmente è riconducibile questa inedita verve pacifista (non riscontrabile in passato, quando i testi scaturivano dalla penna di Fabban, che proprio pacifista non era…). Tanto che è lecito pensare che le cose potrebbero essere andate diversamente, con Zara e Conforti che dettano al cantante la via dell’ambiguità: “A ricce’, per i testi si potrebbe fare qualcosa de truce…de gajardo…noo tranquillo, noi semo contro la guerra”, ammiccando, “hai intenso no che semo contro la guerra?”, ammiccando nuovamente, con Nemtheanga che però li prende alla lettera e scrive un testo pacifista per davvero! 

Sia come sia, i primi due minuti sono interamente affidati alle sapienti mani di Conforti, che architetta un incipit a base di ritmiche marziali ed incalzanti orchestrazioni: si tratta di suoni sfocati, l’eco di un passato nefasto. E’ l’evocazione di un incubo, un rito propiziatorio che ha l’effetto di un transfert volto a condurre l’ascoltatore altrove, fra le macerie e le rovine di un’epoca disastrata. E’ l’arrivo di Zara, al secondo minuto, ad introdurre l’elemento squisitamente metal, prima con un arpeggio elettrificato e poi con riff rocciosi che, assieme agli avvolgenti tappeti di tastiere, vanno a generare un'escalation che sembra portar dritto alla tragedia. Se ho sempre mal digerito l’utilizzo di drum machine nel metal, Conforti (peraltro anche percussionista) è in grado di programmare basi impeccabili che con il loro glaciale, inesorabile, solenne incedere, conferiscono ai brani dei Void of Silence una spietatezza che difficilmente un batterista in carne d’ossa avrebbe potuto eguagliare: è il rintocco degli stivali nel fango, il marciare spossato di eserciti fantasma, militi votati alla morte.  

Terzo minuto: l’attacco del recitato di Nemtheanga è pathos allo stato puro ed è un primo assaggio delle eccezionali capacità del cantante irlandese. Siamo solo all’inizio: “The Dream Ends”, prima sezione del brano, si presta ad inanellare una sequenza di trovate da antologia. Collassano le chitarre e si apre un arpeggio ed una desolante voce femminile. Nemtheanga inizia a cantare, il suo timbro forte e nitido tratteggia i contorni di un'evocativa ballata. E poi nuovamente accordi di chitarra classica, squarci di rumorismo a cura del buon Conforti e di nuovo il canto femminile a tessere nenie senza tempo: pare di ascoltare i Death in June di “The World that Summer” (e scusate se è poco!).

Un sussurro, poi l’esplosione della chitarra elettrica e lo screaming agonizzante che si riversa su gelidi paesaggi burzumiani, a tratteggiare uno squarcio improvviso di disperazione. Ma ecco il colpo di genio: ritorna la voce di Radio Bari che riprende a snocciolare le frasi in codice, accompagnata questa volta dalla chitarra folk e sempre dal canto femminile: l’inizio viene riletto alla luce di una nuova consapevolezza. A parere di chi scrive, questo è uno dei momenti più alti del metal tutto: per capacità descrittiva, complessità concettuale e forza emotiva.

Ottavo minuto, inizia “Empty Prayers”, la seconda sezione. Nemtheanga è oramai in palla, perfettamente calato nella parte. Il suo crooning si fa lamento: timbrica oscura, tenorile, piglio teatrale, ma anche intensa interpretazione, con sprazzi di dolore che deformano il suo canto e lo rendono ruggito. Egli, titanico, spazia in lungo e in largo, esplode finalmente in tutto il suo potenziale, solcando i corposi riff e le trame intricate di Zara che edificano il miglior metal gotico possibile: il potere visionario dei primi Tiamat, la tragica eleganza degli Arcturus, la desolazione dei My Dying Bride, un fiume dolente puntellato dal lento procedere della drum machine ed agitato dall'incredibile performance di Conforti, diviso fra “cori” e struggenti partiture di piano. La musica dei Void of Silence non ha fretta, si evolve lentamente e tramite impercettibili variazioni, ora ritmiche, ora cromatiche.

Tredicesimo minuto, il brano torna ad accartocciarsi su se stesso e, come successo prima, si accede tramite le dissonanze al terzo ed ultimo atto: “Black Propaganda”.  Si apre una fase meditativa del brano: tornano i circolari arpeggi di chitarra in perfetto stile neofolk, mesti tappeti di tastiere fanno loro da contorno, riaffiora dalla melma della Storia il solenne recitato di Nemtheanga. Segue, come se si trattasse di una sequenza onirica, un ambient soffuso in cui echeggiano in lontananza le terribili sirene antiraid (come da migliore tradizione apocalittica!). La bravura dei Void of Silence sta proprio nel saper integrare l’approccio minimale del neofolk con la grandiosità del metallo gotico, che torna ad emergere prima con tragiche partiture di pianoforte e poi con il montare minaccioso delle chitarre. Altra caratteristica della musica dei Void of Silence: essa è concreta, asciutta e rifugge futili dispersioni di energie.

Sale la tensione, le ritmiche si fanno incalzati, fino all’inevitabile rilascio della tensione, dove Nemtheanga torna ad impugnare il microfono: è questa la porzione del brano che, più di tutte, trae ispirazione dall’estro sublime della Sposa Morente. Ma nella sua mestizia, la musica dei Void of Silence ospita un dinamismo intrinseco che la rende più scorrevole di quella dei britannici. La struggente coda è tutta dedicata a coinvolgenti melodie di chitarra, con il recitato di Nemtheanga ad enunciare i titoli di coda.

Mi risveglio dal “sogno”: il transfert è terminato. Riapro gli occhi ed è il 2016, ma il mio pensiero corre al 2004, anno di uscita di “Human Antithesis”: vagando per una terribile ed umida serata d'agosto, m'imbattei in quell’album. Non me la passavo affatto bene, i segnali della Fine erano vividi: da tempo non acquistavo più metal, se non sporadicamente e a prezzo di gravosi sensi di colpa. E forse proprio per questo mi avventai sull'allora ultima opera dei Void of Silence: alla stessa maniera con cui il condannato a morte si concede l'ultimo sfizio, l'ultimo pasto da consumarsi con rassegnata avidità.
Ma le cose presero un'altra piega: i giorni del Buio trascorsero ed io, immerso e barcollante nell'abisso, ripresi a salire la china, mano nella mano con Zara e Conforti, giorno dopo giorno, trascinato faticosamente, poi sempre più solertemente, dalle confortevoli spire della loro musica.
L'Arte, appresi, per quanto decadente, per quanto vuota di luce, per quanto vuota di speranza e pregna di disincanto, è Vita. E Vita fu per me la musica dei Void of Silence, che seppe entusiasmarmi ancora una volta, per quegli strani giochi del Destino (del Caso, dell'Umana Idiozia) che nessuno sa spiegare.