Una mia grande fissazione è
sempre stata quella di voler vedere come nascono le cose, rovistare in quel ribollire
primordiale dal quale nuove forme vitali si sintetizzano ed acquisiscono
indipendenza, autonomia, identità. No, qui la chimica non c’entra niente: si
continua a parlare di musica, di metal per l’esattezza.
Ho sempre amato scavare a
fondo, rintracciare le orme nascoste all’ombra della Storia Ufficiale. Frugare,
per esempio, negli stand dei mercati del disco usato alla ricerca di
chicche ignote ai più. E fu proprio in uno di questi banchetti che scorsi una
copertina che richiamò la mia attenzione in modo morboso: in un malefico bianco
e nero, essa ritraeva un losco figuro incappucciato chino su uno scheletro, su mesto
sfondo di cimitero. Ai lati campeggiava una scritta in latino, “In Cauda
Semper Stat Venenum”. Ed in cima il nome della band: Jacula.
Anno di pubblicazione: 1969!
Definire con esattezza il
momento esatto in cui nasce il metal come genere non è cosa semplice. Potremmo
per convenzione fissare la sua nascita con la pubblicazione del primo album dei
Black Sabbath, avvenuta nel 1970. Sebbene già Cream, Led
Zeppelin, Deep Purple fossero stati portatori di un sound
bello tosto, il metal nasceva proprio con i Black Sabbath perché essi non
solo furono i promotori del rock più pesante mai concepito fino a quel momento,
ma concettualmente creavano un nuovo stile per mezzo di Quel mitico riff
che, come una accetta, divise nettamente il rock dal blues (che
invece sopravviveva negli stilemi delle band sopra elencate).
Gli eventi non ebbero però un
corso lineare: il primo album dei Black Sabbath non costituì infatti uno
spartiacque fra un “prima” e un “dopo”, e per molti anni ancora scindere fra
metal e hard-rock non sarebbe stata operazione semplicissima. Gli stessi Black
Sabbath negli anni successivi avrebbero fatto sia passi indietro che in avanti,
mantenendo certamente la pesantezza dei suoni, ma conservando anche un’attitudine
freak/blues/psichedelica che tradiva le loro radici ben affondate nel
retroterra culturale della fine degli anni sessanta. Il metal, con i Black
Sabbath, era forse nato stilisticamente, ma non come movimento: dovremo
aspettare un altro grande gruppo inglese, i Judas Priest, per avviare un
percorso consapevole che fosse anche definizione identitaria.
E’ dunque opportuno intendere
la genesi del metal non come figlia di un unico evento, ma come il frutto di un
“progressivo potenziamento tecnico e tecnologico del suono” (l’utilizzo di
chitarra elettrica ed amplificatori da un lato, l’introduzione di escamotage
stilistici innovativi dall’altro): un cammino partito ben prima del 1970 e
destinato a completarsi molti anni dopo, probabilmente con l’ondata delle band
della New Wave of British Heavy Metal prima e con i gruppi thrash
metal d’oltreoceano dopo.
In questa ottica, potremmo sostenere
che la prima canzone heavy metal mai apparsa su questo mondo fu “You Really
Got Me” a firma The Kinks, anno 1964! Essa presentava un riff
ossessivo ed una ruvidità di suoni che avrebbero anticipato di anni il
modus operandi delle band heavy metal, ma a mio parere, prima ancora che
l’invenzione del genere, la stesura di quella canzone è da intendere come il
brillante esperimento di una band immensamente creativa che in seguito avrebbe
saputo spaziare sui fronti più disparati, innovando un po’ ovunque.
Idem per la “Ticket to
Ride” dei Beatles, che spiccava nell’album “Help!” (1965),
che non definirei esattamente un album heavy metal tout court (i Fab
Four ci riproveranno qualche anno dopo con la devastante “Helter Skelter”,
presente nel “White Album”, anno 1968). The Kinks, The Beatles, The Rolling Stones (ricordiamo i ritmi battenti e il riff martellante di "(I Can't Get No) Satisfaction", anno 1965), The Who (autori, quest’ultimi, di esibizioni dal vivo incendiare, ove,
oltre alle chitarre fracassate, spiccava il talento iconoclasta di Keith
Moon, da ritenere uno dei batteristi più influenti ai fini della genesi
dell’hard-rock e del metal): si parla di band leggendarie dotate di una
creatività che ha fatto la storia della musica. Ma per loro, in molti casi,
l’heavy metal era più un “incidente” di percorso che un discorso programmatico compiuto
con consapevolezza. La genesi del metal passò certamente anche da quelle parti,
come del resto rimanevano imprescindibili per chiunque le lezioni di Jimi
Hendrix (l’inventore della chitarra elettrica moderna), ma di metal in
senso stretto non era ancora lecito parlare.
Volendo restringere il campo
d’azione, è nel triennio 1969-1971 che individueremo quel laboratorio in
cui si è operata consapevolmente la gestazione dell’heavy metal: in quegli anni
emergeranno band la cui ragion d’essere sarà proprio un sound aggressivo.
Torna in mente uno dei nostri primi articoli, in cui si andava ad analizzare le
gesta di Blue Cheer, Grand Funk Railroad e Steppenwolf, una
terna di band che avevamo definito “La triade ombra del proto-metal”.
C’è inoltre da aggiungere che
in quegli anni, negli Stati Uniti, e più precisamente dai bassifondi di
Detroit, stavano emergendo formazioni di ragazzacci scapestrati come The
Stooges e MC5 dediti ad un rock’n’roll sfrenato la cui furia
nichilista (che ripercorreva la via tracciata dai primi Velvet Underground,
autori anch’essi di violentissime orge sonore) avrebbe condotto direttamente al
punk (il quale tornerà utile nel successivo step dell’evoluzione
del metal alla fine degli anni settanta!).
Sempre nel triennio 1969-1971
in Inghilterra riceveva il battesimo il progressive rock, il quale
vedeva l’introduzione di stilemi metal, pur in un contesto di sperimentazione.
I King Crimson, per esempio, aprivano il loro leggendario debutto “In
the Court of the Crimson King” (1969) con una folgorante “21st
Century Schizoid Man”, in cui Robert Fripp si presentava al mondo con
uno dei riff più pesanti mai realizzati, ben un anno prima che i Black
Sabbath facessero il loro ingresso ufficiale nel mercato discografico. A
dimostrazione di quanto il prog abbia dato alla causa del metal, vanno citati
anche i Van Der Graaf Generator del loro secondo album “The Least We
Can Do is Wave to each Other” (del 1970), che con la coda strumentale
di “White Hammer” mettevano in campo uno dei momenti più devastanti ed
oscuri del rock. Senza contare formazioni oscure come Black Widow, Atomic
Rooster e gli stessi Black Sabbath, che conservavano nel loro corpus sonoro
vigorose pulsioni progressive.
E proprio grazie al prog,
dopo questa lunga introduzione, ci riallacciamo alle parole che aprivano il
nostro scritto: gli autori dell’album con quella malvagissima copertina di cui
si parlava all’inizio sono gli italianissimi Jacula del grande Antonio
Bartoccetti. L’ascolto dell’album non sarà meno traumatico della visione
della copertina: estenuanti partiture di organo da chiesa fanno da sfondo a
lugubri composizioni che si fregeranno di pesantissimi riff di chitarra
e di un oscuro recitato che passa con disinvoltura dall’italiano al latino. Scritto
fra il 1966 e il 1969, “In Cauda Semper Stat Venenum”
dovrebbe dunque essere il primo album heavy metal in senso stretto della
storia, visto che anticipava di un anno lo storico debutto dei Black Sabbath.
Purtroppo non abbiamo la
certezza per sostenerlo: l’album che oggi stringiamo fra le nostre mani è infatti
una ristampa rilasciata in anni recenti, mentre le copie originarie sono
praticamente irreperibili.
Le malelingue sostengono che
il prodotto sia stato il frutto di una spregiudicata campagna di marketing
operata dallo stesso Bartoccetti, il quale pare abbia di proposito diffuso voci
inquietanti sull’opera (su essa, infatti, aleggiano leggende metropolitane che
ne accrescono il fascino, seppur da un
punto di vista extra-musicale). Ma soprattutto, accusa ben più grave, sembra
che il chitarrista marchigiano abbia pesantemente messo mano al prodotto in
fase di remastering, modificando in modo rilevante le tracce originarie.
Il dubbio che queste dicerie
non siano del tutto infondate si ha andando ad ascoltare il secondo album
targato Jacula: quel “Tardo Pede in Magiam Versus” la cui uscita nel 1972
è cosa comprovata. Esso presenta un sound meno rivoluzionario del suo
predecessore, assestandosi sugli stilemi di un prog maggiormente figlio dei
suoi tempi, sebbene in esso vi siano innegabili elementi di originalità
(l’impiego massiccio dell’organo a canne, l’utilizzo della lingua latina e il
perseverare morboso su atmosfere macabre: tutti aspetti che avvicinavano la
musica di Jacula ad un rituale esoterico). Ma non vi è traccia delle
scudisciate al vetriolo della chitarra di Bartoccetti, che erano stato il vero
fattore innovativo di “In Cauda Semper”.
Falsificazione storica o
meno, gli album di Jacula e di Antonius Rex (la successiva incarnazione
dell’arte mistica di Bartoccetti) rimangono bellissimi in senso assoluto. Per
me è stato amore a prima vista, un amore che arriva ai giorni nostri, visto che
nel 2005, dopo praticamente venticinque anni di inattività, gli Antonius Rex si
sono riformati sfornando opere superlative come l’EP “Magic Ritual” e
gli album “Switch on Dark”, “Per Viam” e “Hystero Demonopathy”.
Jacula e Antonius Rex saranno
sicuramente tema di approfondimento futuro per Metal Mirror, ma per
oggi, mancando a noi la certezza che Bartoccetti abbia effettivamente suonato
quelle robe prima di tutti gli altri, preferiamo dedicarci ad un excursus
che si focalizzerà sul triennio 1969-1971: tre tappe che
abbiamo voluto vedere come un cammino di ricerca che ha proceduto parallelamente
allo sviluppo del metal. Anticipandolo, sfiorandolo ed infine superandolo….