I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL
APPENDICE II: “WHITED SEPULCHRES” (PAUL CHAIN), “MAGIC RITUAL” (ANTONIUS REX), “CAPISTRANI PUGNATOR” (THE BLACK)
Abbiamo citato Death SS e Paul Chain, ma la
nostra brevissima rassegna sul lato oscuro del metal tricolore (analizzato
dal punto di vista del tema del “brano lungo”, oggetto della nostra classifica)
ha ancora due soste obbligate da rispettare.
Dalle vicine Marche, ecco che troviamo un altro maestro
delle sei corde, tale Antonio Bartoccetti, leader prima dei Jacula,
poi degli Antonius Rex. Avendo come musicista un background
progressivo, egli non ha mai disdegnato il “brano lungo”, sebbene la sua arte
abbia davvero poco a che fare con le suite barocche dei grandi nomi del
progressive rock.
Nella prima parte della carriera i suoi brani non
contemplavano neppure l’elemento percussivo, affidandosi esclusivamente alle
inquietanti liturgie di un organo a canne, qua e là macchiato dalla chitarra
elettrica, la quale sembrava cavalcare in un “nulla” che odorava di esperienza
mistica (e non è un caso che nella formazione presenziasse anche un medium!).
Gli enigmatici versi di Bartoccetti, recitati con serafico distacco dallo
stesso chitarrista, facevano da inafferrabile didascalia ad una musica che solo
con una grande apertura mentale possiamo definire prog. “Magister Dixit”
(10:32), ”In Cauda Semper Stat Venenum” (10:05), “Presentia Domini”
(10:50) sono tutti brani realizzati sotto la ragione sociale Jacula (esperienza
che ebbe vita fra il 1969 e il 1972) e che superano tranquillamente
i dieci minuti. Ma non è che in essi succeda molto, perché evidentemente la
lunghezza del brano era volta unicamente a creare atmosfera, o, come da intenti
dichiarati dei suoi autori, dar vita ad un flusso sonoro che inducesse
l'ascoltatore a trascendere il dominio del Reale.
Con gli Antonius Rex la solfa non cambia, sebbene nel
debutto “Neque Semper Arcum Tendit Rex” (1974) voci e chitarre fossero
maggiormente presenti: l’approccio più pragmatico (più rock, se vogliamo),
faceva sì che i brani non si protraessero per lunghezze spropositate, ma anzi
si muovessero in schemi maggiormente intellegibili. Nel capolavoro “Praeternatural”
(1979), dalle ambizioni più sperimentali, spiccano invece almeno tre brani che
avremmo potuto contemplare nella nostra rassegna: “Halloween” (10:08) “Capturing
Universe” (10:47) ed “Invisible Force” (10:47), brani pressoché strumentali
che vedevano la loro forza nel connubio vincente fra l’estro chitarristico di
Bartoccetti e le prodezze ai synth della moglie Doris Norton (già
presente nella formazione dei Jacula).
La nostra scelta, per non far torto a nessuno, è alla fine
ricaduta sul brano più lungo di tutti, quella “Magic Ritual” che nel 2004
sancì il ritorno degli Antonius Rex sul mercato discografico dopo più di vent’anni
di latitanza. Un ritorno alla grande, con un lavoro “breve” (un EP
contenente un brano di ventun minuti e cinquantasette secondi, seguito
dalla sua versione ridotta, a beneficio degli amanti della sintesi). Sebbene il
concepimento del brano risalisse alla seconda metà degli anni settanta, esso
incarna tutti i crismi degli Antonius Rex del terzo millennio. Suoni un po’
patinati ed ampi spazi all’”orchestra sintetica” ammaestrata dalla fondamentale
Doris Norton: l’utilizzo di strumenti all’avanguardia permette alla musicista
di mettere insieme suoni che vanno dagli archi sintetizzati a rumoracci
d’atmosfera. Sovrapponendo e sovraincidendo, con l’aggiunta di basi
elettroniche (che già erano state introdotte nel citato “Praeternatural”) il
risultato è un po’ pacchiano, ma porta con sé quella grandiosità che di certo
non dispiacerà agli amanti del metal sinfonico.
“Magic Ritual” fa suoi gli assunti dei tre episodi di
“Praeternatural” che abbiamo non a caso citato prima, annettendo a sé, in modo
organico e con grande equilibrio, le costruzioni gotiche, le stratificazioni
dei synth, le architetture più canonicamente prog di “Halloween”; un riff
di chitarra cazzuto che emerge dalle tenebre così come accadeva nella mitica
“Capturning Universe”; l’approccio rituale, la deriva dark-ambient, una ricerca
sonora fatta di “elementi pescati dall’Aldilà”, che avevamo ritrovato in
“Invisible Force”. Voci, sussurri, inserti vocali da parte della medium Monika
Tasnad sono le uniche vocalità presenti in un brano fondamentalmente
strumentale che, ahinoi, rinuncia al suggestivo recitato di Bartoccetti,
ma non, ovviamente, alla sua chitarra!
Per udirla, tuttavia, ci vorranno almeno cinque minuti, nel
corso dei quali si erano succedute imponenti orchestrazioni condite da umori da
seduta spiritica (sussurri di strega, vagiti all’ectoplasma e tutto quello che
ci possiamo aspettare da un brano dei tardi Antonius Rex!). L’ingresso per Magus
Antonio è in punta di piedi: singole note pizzicate di chitarra classica
che si intromettono discretamente sull'incedere à la Carmina Burana
della composizione.
Sarà verso il settimo minuto che, preceduta dal montare del
basso (molto in stile Goblin, direi), si avventa su di noi in tutta la
sua potenza la chitarra elettrica, un bell’esercizio sabbathiano come
Dio (Iommi) comanda: riff taglienti al limite del thrash supportati, per
la prima volta nella storia del gruppo, da un batterista in carne ed ossa (il session-man
Jean-Luc Jabouille). Fa uno strano effetto sentire la batteria in un
album degli Antonius Rex e forse la presenza dello strumento rende tutto più
canonico, ma niente toglie che di tanto in tanto anche il riffing
ossessivo di Bartoccetti possa godere del beneficio di un supporto ritmico.
Anche Doris Norton non si tirerà indietro, fornendo alla “causa rock” il suo
fondamentale contributo con accattivanti linee di tastiere che sicuramente
evocheranno all'ascoltatore l’estro orrorifico del maestro Claudio Simonetti.
Da segnalare un pregevole inserto di pianoforte dagli
eleganti risvolti jazz cortesemente fornito da Rexanthony, il prodigioso
figlio della coppia, che fino ad allora era stato più che altro noto negli
ambienti dell’elettronica più spinta (e danzereccia…). Bartoccetti, verso il
quindicesimo, infila un bell’assolo dei suoi, rendendo ancora più prelibato un
piatto fatto di azzeccate alternanze fra atmosfera e riff martellanti.
La conclusione è invece affidata alle meditazioni della Norton, che negli
ultimi minuti si addentra nei territori dell’elettronica minimale, a dimostrazione
di quanto quella donna (vero motore dell’Antonius Rex Sound) ami tenersi
aggiornata e sperimentare nuove sonorità (è doveroso ricordare che la signora,
negli anni settanta, usava apparecchiature ignote persino a Brian Eno!).
Le frequenti pause, gli scossoni da infarto, fanno sì che la
tensione cresca, proprio come succede in un film thriller, ove si vive
sul chi-va-là nell’attesa che qualcosa accada. E non è un esempio a
caso, quello del film thriller, perché, a detta degli autori, il brano (una sequela
di simbologie difficile da tradurre) si sviluppa sulla base di una sceneggiatura
vera e propria. Ricordiamo infatti che
l’EP uscì nel curioso formato di CD doppio-uso: da un lato audio, dall’altro
video, fungendo dunque anche da DVD, grazie al quale diveniva visionabile un videoclip/cortometraggio
diretto dalla stessa Doris Norton.
Ma “Magic Ritual” non sarà l’ultimo esperimento nella
direzione del brano di estesa durata. La produzione artistica della premiata
ditta Bartoccetti/Norton continuerà ad abbondare di brani lunghi, basti
citare “Switch on Dark” (19:28) e “Fairy Vision (Esoteric Edit)”
(14:26) da “Switch on Dark”. O la raggelante “Antonius Rex Prophecy”
(11:14), da “Per Viam”: struggenti partiture di pianoforte ammorbate
dalle apocalittiche visioni di Charles Tiring (l’oramai defunto
organista ottantenne (!!!) dei tempi dei Jacula) enunciate dal sempre laconico
Bartoccetti.
Parleremmo ore ed ore di Jacula ed Antonius Rex (e
sicuramente torneremo a parlarne), ma per noi è tempo di volgere il nostro
riflettore sul terzo personaggio della nostra mini-rassegna dedicata al
lato oscuro del Bel Paese. Spostiamoci nuovamente a sud e torniamo infine in
Abruzzo (sarà forse la stretta fra Appennini e Mar Adriatico a far germogliare
tali mostruosità metalliche entro i patri confini?): Mario Di Donato è
un’altra eminenza del dark metal nostrano che vale sempre la pena
ricordare. Fattosi le ossa in una serie di formazioni più o meno leggendarie
della New Wawe Of Italian Heavy Metal (U.T., Unreal Terror,
Requiem), egli avvierà il suo progetto solista denominato The Black:
a scapito del monicker in lingua inglese (ma perché?), Di Donato
canterà rigorosamente in latino (salvo qualche sporadico tentativo in
italiano), perché il legame fra il metal targato The Black (Metal Mentis,
“metallo della mente”) e arte (Ars Mentis, “arte fantastica della
mente”) è saldissimo, non foss’altro che Di Donato stesso è ispirato pittore e
i suoi pregevoli dipinti correderanno sistematicamente le confezioni delle sue
uscite discografiche.
Sebbene al suo estro chitarristico sia concesso di
esprimersi con grande libertà, Di Donato ha un approccio più pragmatico e più
canonicamente metal rispetto a Catena e Bartoccetti, per questo il format del
brano lungo non è frequentissimo nella sua discografia. Un bell’esempio lo
troviamo nell’album “Golgotha”, in occasione dell’audace rivisitazione
de “Il Giudizio” dei Il Rovescio della Medaglia, quasi undici
minuti di rovente prog in cui la chitarra di Di Donato spazia in lungo e in
largo mostrando perizia, inventiva e personalità sprizzante da tutti i pori. Ma
il nostro riflettore sarà proiettato altrove.
“Capistrani
Pugnator” usciva nel 2003
in contemporanea con un altro bell’album, “Peccatis
Nostris” (la versione in cd li contiene entrambi) e va a ribadire questo
legame con l’arte, in particolare con quella della terra abruzzese. Il Guerriero
di Capistrano è infatti una statua calcarea risalente alla seconda metà del
VI secolo A.C., oggi esposta nel Museo Nazionale di Antichità di Chieti. L’album
contiene solo cinque brani, ma in compenso l’ultimo, la title-track,
conta ben quattordici giri di orologio. E a mio modesto parere, esso
rappresenta una delle più belle manifestazioni di doom classico mai
partorite dall’heavy metal tutto, alla faccia dei vari Candlemass e Solitude
Aeternus.
In questo gioiello la classe e l’eleganza chitarristica di
Di Donato costituiscono il maggior pregio, sebbene Enio Nicolini (basso)
e Gianluca Bracciale (batteria), vecchie volpi del metallo nostrano, non
siano certo dei comprimari da poco. Ma è Di Donato la Luce che illumina
il cammino, colui che si fa carico della scrittura e del corpus sonoro
dell’intera operazione. Quanto alle parti cantante, a questo giro egli preferisce
cedere il microfono a Eugenio “Metus” Mucci (che aveva cantato nei Requiem)
e Ben “Prime Target” Spinazzola (dei Prime Target, appunto),
facendo sì che la sua affascinante creatura musicale acquisisse nuove
sfumature.
“Capistrani Pugnator” come brano rimane un vero capolavoro,
che potremmo per comodità suddividere in tre sezioni, sebbene il tutto debba
essere percepito come un unicum sonoro e tematico. E’ la prima parte quella più
sensazionale, caratterizzata da un ispirato riffing doom. La
chitarra solista disegna melodie antiche, solenni, magiche (secondo me derivate
dalla musica sacra, di cui sicuramente Di Donato è profondo conoscitore),
mentre il cantato, prima appena sussurrato, poi fieramente epico e graffiante,
dà forza e vigore ad un brano che, salvo queste prime battute, sarò affidato
esclusivamente alle convulsioni strumentali di un grande chitarrista e dei suoi
validi compari. La seconda parte, scandita dal battito regolare della batteria,
assume le sembianze di un antico rituale di guerra, con la chitarra di
Di Donato ancora una volta protagonista nel tessere funeree liturgie di grande
suggestione. La fase finale del brano, caratterizzata da un maggiore dinamismo
a livello ritmico, sarà invece il palcoscenico ideale per le scorribande
chitarristiche del Nostro, diviso fra ritmiche serrate ed assolo di gusto
sopraffino a scaldare il cuore.
Quello che infatti si respira in The Black è il calore
del doom classico, quello schietto di una volta, evocatore di paesaggi
ancestrali e mondi fantastici, ma anche irrimediabilmente animato da un intento
costruttivo in cui batteria, basso e chitarre (lo chiamavano heavy metal…)
dialogano senza tanti fronzoli, edificando alchimie francamente esaltanti.
In conclusione, quello che rappresentano “Whited
Sepulchres”, “Magic Ritual” e “Capistrani Pugnator” è proprio
quell’accezione di doom in cui un solo uomo, solitario, eroico, diviso fra
chitarra e canto, trasforma il rock o il metal, in una estrinsecazione del
proprio ego. Prima ancora che sulla forza di un team, il doom si va a
fondare sulla forza dell’individuo, spesso un profeta capace di celebrare,
illuminare il cammino dei suoi accoliti. Proprio quello che facevano (ed ancora
fanno) Paolo Catena, Antonio Bartoccetti e Mario Di Donato.
Lunga vita ai tre!