In una
ipotetica classifica dei dieci migliori album non-metal che
dovrebbero essere conosciuti dai cultori del Metallo inseriremmo
sicuramente questo “The Seer” degli Swans. Ma perché
andare fuori tema?
Perché
oggi è Pasqua ed avevamo voglia di parlare di Resurrezione,
visto che, ahimè, negli ultimi tempi, nostro malgrado, ci siamo
trovati costretti a parlare più che altro di decessi (vedi le nostre
commemorazioni ai recentemente scomparsi Lemmy, David Bowie
e Keith Emerson). Non che la Pasqua ci renda particolarmente
lieti, però anche a noi di Metal Mirror piace la Vita e la
celebriamo con la rinascita di un grande gruppo: gli Swans.
Attenzione
però, il tema della Resurrezione verrà ulteriormente
approfondito e questa è solo un’anteprima per poi procedere
con un post dedicato alle reunion (più o meno riuscite) nel
Metal: proprio come abbiamo fatto con il post “Album che duellano con la Morte”, introdotto dal nostro scritto dedicato
al Duca Bianco.
Contrariamente
a Bowie, però, gli Swans non sono estranei all'Universo del
Metal, visto che essi sono stati spesso citati come fonte
di ispirazione da grandi nomi del metal: nomi principalmente legati
alla sfera dell’estremo ed in particolare provenienti dalla fascia
grind/noise/industrial/post-hardcore (Napalm Death, Neurosis,
Godflesh, Scorn, Ministry ecc.). Va infatti chiarito fin da subito, o miei lettori sprovveduti, che
la musica degli Swans è fottutamente heavy, nonché
profondamente disturbante, lancinante, devastante, in una parola:
estrema. Ahimè, anche più estrema di molte estrinsecazioni
del metallo di cui andiamo tanto fieri.
Giusto
due parole di presentazione. La band nasce nel 1982 per mano
di Michael Gira, uno che non scherza: Gira viene dalla merda
(la merda vera), forgiato nella dura legge della strada, tossico a
dodici anni, galeotto a sedici. Diviso fra spaccio di droga e
lavoretti saltuari, sbarcherà nel 1979 in quel di New York
per cercare fortuna, fondando, in piena era no-wave, prima i
Circus Mort e poi gli Swans (appunto…). “Filth”
(1983), “Cop” (1984), “Greed” (1986) e “Holy Money” (sempre del 1986) sono i primi passi di
questa realtà oscena che sapeva mettere insieme la pesantezza dei
Black Sabbath, l’ossessività meccanica del movimento
industrial e l’iconoclastia del post-punk. Riff
ossessivamente ripetuti su basi altrettanto ossessive, piglio
noise-rock con sopra le declamazioni di Gira in stile
ubriaco-molesto-a-cui-hanno-appena-tolto-il-fiasco-di-mano.
Gira: sorta di Jim Morrison al quadrato, Iggy Pop al
cubo, santone urbano, arcigno predicatore delle peggiori nefandezze
della nostra società. Roba da far sanguinare orecchie e cervello!
Poi,
nel 1987, il capolavoro “Children of God”, opera della
svolta per i Cigni. Gira, coadiuvato dalla moglie Jarboe
(tegame delle tenebre dotata di un’ugola spettrale), imprime
al suo percorso artistico una direzione meno fisica, più spirituale,
che avrebbe presto collocato gli Swans nei territori del gothic
più terrificante. Dalle grida disperate e disumane di un Inferno
urbano fatto di alienazione-frustrazione-violenza (un
immaginario materiale e concreto fatto di necessità primarie e bassi
istinti, soldi rubati o guadagnati male, dosi iniettate in vena,
sangue versato sull’asfalto ecc.), si accede ad una dimensione più
metafisica: suoni ulteriormente rallentati, voci oscure spalmate su
inquietanti soundscape, chitarre arpeggiate, violini,
inesorabili percussioni, solite deflagrazioni elettriche di matrice
industriale. In altre parole: un capolavoro dell’epopea dark.
Un
percorso di allucinata intimità che vedrà come tappe fondamentali altri
brillanti lavori come “White Light from the Mouth of Infinity”
(1991) e “Soundtracks from the Blind” (1996). Infine lo
scioglimento nel 1997, suggellato dal doppio-live
dall’eloquente titolo “Swans are Dead”, uscito postumo
nel 1998. Terminata l’esperienza Swans, Gira proseguirà da solo,
da un lato come accorto produttore con la sua etichetta Young God
Records (sotto la cui ala protettiva sono cresciuti artisti
rinomati del circuito indipendente come Devendra Banhart,
Akron/Family, James Blackshaw, Lisa Germano,
Ulan Bator ecc.), dall’altro come leader del suo
progetto solista Angels of Light, con i quali egli ha saputo
esplorare una dimensione più prettamente folk/cantautoriale
(solita voce cavernosa, mantra vocali ripetuti allo sfinimento,
accordi di chitarra acustica che ricalcano le antiche ossessioni in
forma bucolica...).
Eccoci
dunque al magico momento della resurrezione: nel 2010, più di
dieci anni dopo il loro scioglimento, gli Swans si riformano
inaspettatamente. Al centro di tutto vi è ovviamente la figura
sciamanica di Gira, sempre più imponente fra le maglie tentacolari
di un collettivo di loschi figuri che comprenderà nuove e vecchie
amicizie (fra cui il bestiale chitarrista Norman Westberg,
ereditato dalla formazione originaria degli Swans). Nel medesimo anno
esce “My Father Will Guide Me Up a Rope to the Sky”, album
più che discreto, ma che non può rivaleggiare con il glorioso
passato della band. Dunque l’ennesima reunion inutile? Non
direi, perché solo due anni dopo, nel 2012 per l’esattezza,
uscirà il capolavoro del nuovo millennio: il
mastodontico “The Seer”. Mastodontico perché i Nostri si
ripresentano nel formato del doppio album, due ore belle piene
di ossessioni e devastazioni sonore che hanno valso per me l’ambito
titolo di “Miglior Album del 2012”.
“The
Seer” è un’opera di eccessi, di contrasti, di sensazioni che
cozzano brutalmente, sia da un punto di vista formale che
concettuale. Qui troviamo, uno accanto all’altra, il minuto e
trentacinque secondi di “The Wolf” (sorta di preghiera
cosmica recitata da una voce spiritata persa nelle spire di un vuoto
siderale) e i trentadue minuti della title-track,
capolavoro indiscusso della nuova era: un viaggio delirante che non avrebbe sfigurato nella nostra classifica dei migliori brani lunghi. Di carattere sostanzialmente strumentale, il brano
esprime un approccio massimalista avvalorato dal prodigioso lavoro
dei due batteristi. Un susseguirsi di riff, prima imponente,
poi via via più incalzante ed infine decelerante, costituisce
l'ossatura della prima parte del brano. Di seguito il tutto
collasserà in una quiete ambientale (in cui primeggerà, come da
tradizione, una paranoica armonica a bocca) e poi riprenderà
inaspettatamente vita in un beffardo saloon infernale, fatto
di frizzanti percussioni e schiamazzi assortiti. Una apocalittica
dimensione Swans-Mondo, in cui tutte le pulsioni
espresse nel corso degli anni vanno a confluire
perfettamente grazie ad un'inedita attitudine totalizzante che
in passato avevamo conosciuto solo in sede live. Il modus
componendi et operandi è infatti legato a stretto filo alla
dimensione concertistica, in quanto le composizioni della nuova era
vedono la luce sul palco tramite una catartica gestazione fatta di
infinite sessioni di improvvisazione: materiale che poi viene
sistematizzato in studio.
Mi sono
soffermato sulla title-track perché è l'esempio massimo di
una strategia che ritrova attuazione in altri episodi come le due
imponenti tracce di chiusura, “A Piece of the Sky” (19:10)
e “The Apostate” (23:01). Il sound torbido degli
Swans è dunque molto diverso da quello crudo e scarno degli esordi,
ma anche da quello “meditativo” della fase di mezzo: esso è
invero la sintesi fra le due fasi, il loro superamento dato dalla
volontà di infrangere ogni confine, soprattutto “spaziale”. Oggi
gli Swans dispongono di un ben più vasto armamentario sonoro:
impetuosi crescendo post-rock (ai limiti del post-metal - roba che spacca letteralmente il
culo), salti senza paracadute negli abissi di un inquieto esoterismo
e fosche ballate folk tributarie della migliore tradizione
cantautoriale americana (Johnny Cash, Steven Van Zandt
ecc.).
Manca a
questo giro la voce stregata di Jarboe (presente solo come guest
nel reprise della title-track), ma francamente non se
ne sente la mancanza. Al di là del fatto che le ugole femminili
saranno comunque presenti (si veda l'invocazione iniziale “Lunacy”
o la breve folk-ballad “Song for a Warrior”,
rischiarata dal canto di Karen O degli Yeah Yeah Yeahs),
la voce imperiosa di Gira governa in modo egregio le mostruose
movenze della sua orribile creatura, spostandosi continuamente fra la
declamazione infuocata e il fascinoso crooning.
Ma non
solo: la musica degli Swans, rispetto al passato, riesce ad essere
ancora meno prevedibile: potremmo infatti definirla musica
totale, dove tutto può capitare e dove persino nel singolo
brano gli scenari possono cambiare più volte. Si prenda per esempio
“Mother of World” (9:57) che è aperta da claudicanti e
infastidenti ritmi spezzati che rompono il cazzo solo come Gira sa fare e che non sembrano portare a niente di
significativo. Grosso errore: mai dare niente per scontato con gli
Swans! Poco dopo, infatti, il brano si tramuterà in un baccanale
western dominato dal caratteristico gemito baritonale di Gira. O
l'eccezionale “Avatar” (8:51), impetuoso crescendo che
parte quatto quatto per poi sfociare, nel finale, in una epica
cavalcata di travolgente e distruttiva bellezza. In tutto questo
capiterà di imbattersi nelle schegge post-grind di “93
Ave. B Blues” (con tanto di clarinetto impazzito che si
intromette fra destrutturanti tirate a metà strada fra metal e
free-jazz), oppure il folk crepuscolare della breve “The
Daughter Bring the Water”.
Torniamo
quindi al tema principe: valeva la pena che gli Swans tornassero?
In un mondo in cui le reunion sono una bella occasione per
vedere dal vivo band ed artisti gloriosi, ma che dal punto di vista
discografico portano spesso magri frutti, la risposta è un SI con
centoventi punti esclamativi, uno per ogni minuto dell'opera.
Personalmente
parlando “The Seer” non solo è un lavoro all'altezza del nome e
della fama della band, ma può essere visto anche come qualcosa di
diverso ed egualmente stupefacente, cosa che non è da dare per
scontata considerato che quando un'entità mitica ritorna sulle scene
dopo tanto tempo, tende a riproporre l'antica formula del successo.
Gli Swans, band unica nel panorama del rock & derivati,
non poteva accontentarsi di una vecchiaia appena decorosa, ma decide,
in piena senilità, di rinascere a terza vita. Aprendo di fatto un
nuovo entusiasmante percorso artistico che vedrà una continuazione
nello speculare “To Be Kind” (del 2014), altro doppio
album che perde la sfida con il predecessore solo perché, muovendosi
sulle medesime coordinate, non può vantare il medesimo effetto
sorpresa.
Vediamo
dunque se anche in campo Metal (negli ultimi anni
teatro di numerose reunion) assisteremo ad altrettanto
prodigiose resurrezioni...