27 mar 2016

RESURREZIONI (prima puntata): DALLA PARTE DEGLI SWANS



In una ipotetica classifica dei dieci migliori album non-metal che dovrebbero essere conosciuti dai cultori del Metallo inseriremmo sicuramente questo “The Seer” degli Swans. Ma perché andare fuori tema?

Perché oggi è Pasqua ed avevamo voglia di parlare di Resurrezione, visto che, ahimè, negli ultimi tempi, nostro malgrado, ci siamo trovati costretti a parlare più che altro di decessi (vedi le nostre commemorazioni ai recentemente scomparsi Lemmy, David Bowie e Keith Emerson). Non che la Pasqua ci renda particolarmente lieti, però anche a noi di Metal Mirror piace la Vita e la celebriamo con la rinascita di un grande gruppo: gli Swans.


Attenzione però, il tema della Resurrezione verrà ulteriormente approfondito e questa è solo un’anteprima per poi procedere con un post dedicato alle reunion (più o meno riuscite) nel Metal: proprio come abbiamo fatto con il postAlbum che duellano con la Morte”, introdotto dal nostro scritto dedicato al Duca Bianco.

Contrariamente a Bowie, però, gli Swans non sono estranei all'Universo del Metal, visto che essi sono stati spesso citati come fonte di ispirazione da grandi nomi del metal: nomi principalmente legati alla sfera dell’estremo ed in particolare provenienti dalla fascia grind/noise/industrial/post-hardcore (Napalm Death, Neurosis, Godflesh, Scorn, Ministry ecc.). Va infatti chiarito fin da subito, o miei lettori sprovveduti, che la musica degli Swans è fottutamente heavy, nonché profondamente disturbante, lancinante, devastante, in una parola: estrema. Ahimè, anche più estrema di molte estrinsecazioni del metallo di cui andiamo tanto fieri.

Giusto due parole di presentazione. La band nasce nel 1982 per mano di Michael Gira, uno che non scherza: Gira viene dalla merda (la merda vera), forgiato nella dura legge della strada, tossico a dodici anni, galeotto a sedici. Diviso fra spaccio di droga e lavoretti saltuari, sbarcherà nel 1979 in quel di New York per cercare fortuna, fondando, in piena era no-wave, prima i Circus Mort e poi gli Swans (appunto…). “Filth” (1983), “Cop” (1984), “Greed” (1986) e “Holy Money” (sempre del 1986) sono i primi passi di questa realtà oscena che sapeva mettere insieme la pesantezza dei Black Sabbath, l’ossessività meccanica del movimento industrial e l’iconoclastia del post-punk. Riff ossessivamente ripetuti su basi altrettanto ossessive, piglio noise-rock con sopra le declamazioni di Gira in stile ubriaco-molesto-a-cui-hanno-appena-tolto-il-fiasco-di-mano. Gira: sorta di Jim Morrison al quadrato, Iggy Pop al cubo, santone urbano, arcigno predicatore delle peggiori nefandezze della nostra società. Roba da far sanguinare orecchie e cervello!

Poi, nel 1987, il capolavoro “Children of God”, opera della svolta per i Cigni. Gira, coadiuvato dalla moglie Jarboe (tegame delle tenebre dotata di un’ugola spettrale), imprime al suo percorso artistico una direzione meno fisica, più spirituale, che avrebbe presto collocato gli Swans nei territori del gothic più terrificante. Dalle grida disperate e disumane di un Inferno urbano fatto di alienazione-frustrazione-violenza (un immaginario materiale e concreto fatto di necessità primarie e bassi istinti, soldi rubati o guadagnati male, dosi iniettate in vena, sangue versato sull’asfalto ecc.), si accede ad una dimensione più metafisica: suoni ulteriormente rallentati, voci oscure spalmate su inquietanti soundscape, chitarre arpeggiate, violini, inesorabili percussioni, solite deflagrazioni elettriche di matrice industriale. In altre parole: un capolavoro dell’epopea dark.

Un percorso di allucinata intimità che vedrà come tappe fondamentali altri brillanti lavori come “White Light from the Mouth of Infinity” (1991) e “Soundtracks from the Blind” (1996). Infine lo scioglimento nel 1997, suggellato dal doppio-live dall’eloquente titolo “Swans are Dead”, uscito postumo nel 1998. Terminata l’esperienza Swans, Gira proseguirà da solo, da un lato come accorto produttore con la sua etichetta Young God Records (sotto la cui ala protettiva sono cresciuti artisti rinomati del circuito indipendente come Devendra Banhart, Akron/Family, James Blackshaw, Lisa Germano, Ulan Bator ecc.), dall’altro come leader del suo progetto solista Angels of Light, con i quali egli ha saputo esplorare una dimensione più prettamente folk/cantautoriale (solita voce cavernosa, mantra vocali ripetuti allo sfinimento, accordi di chitarra acustica che ricalcano le antiche ossessioni in forma bucolica...).

Eccoci dunque al magico momento della resurrezione: nel 2010, più di dieci anni dopo il loro scioglimento, gli Swans si riformano inaspettatamente. Al centro di tutto vi è ovviamente la figura sciamanica di Gira, sempre più imponente fra le maglie tentacolari di un collettivo di loschi figuri che comprenderà nuove e vecchie amicizie (fra cui il bestiale chitarrista Norman Westberg, ereditato dalla formazione originaria degli Swans). Nel medesimo anno esce “My Father Will Guide Me Up a Rope to the Sky”, album più che discreto, ma che non può rivaleggiare con il glorioso passato della band. Dunque l’ennesima reunion inutile? Non direi, perché solo due anni dopo, nel 2012 per l’esattezza, uscirà il capolavoro del nuovo millennio: il mastodontico “The Seer”. Mastodontico perché i Nostri si ripresentano nel formato del doppio album, due ore belle piene di ossessioni e devastazioni sonore che hanno valso per me l’ambito titolo di “Miglior Album del 2012”.

“The Seer” è un’opera di eccessi, di contrasti, di sensazioni che cozzano brutalmente, sia da un punto di vista formale che concettuale. Qui troviamo, uno accanto all’altra, il minuto e trentacinque secondi di “The Wolf” (sorta di preghiera cosmica recitata da una voce spiritata persa nelle spire di un vuoto siderale) e i trentadue minuti della title-track, capolavoro indiscusso della nuova era: un viaggio delirante che non avrebbe sfigurato nella nostra classifica dei migliori brani lunghi. Di carattere sostanzialmente strumentale, il brano esprime un approccio massimalista avvalorato dal prodigioso lavoro dei due batteristi. Un susseguirsi di riff, prima imponente, poi via via più incalzante ed infine decelerante, costituisce l'ossatura della prima parte del brano. Di seguito il tutto collasserà in una quiete ambientale (in cui primeggerà, come da tradizione, una paranoica armonica a bocca) e poi riprenderà inaspettatamente vita in un beffardo saloon infernale, fatto di frizzanti percussioni e schiamazzi assortiti. Una apocalittica dimensione Swans-Mondo, in cui tutte le pulsioni espresse nel corso degli anni vanno a confluire perfettamente grazie ad un'inedita attitudine totalizzante che in passato avevamo conosciuto solo in sede live. Il modus componendi et operandi è infatti legato a stretto filo alla dimensione concertistica, in quanto le composizioni della nuova era vedono la luce sul palco tramite una catartica gestazione fatta di infinite sessioni di improvvisazione: materiale che poi viene sistematizzato in studio.

Mi sono soffermato sulla title-track perché è l'esempio massimo di una strategia che ritrova attuazione in altri episodi come le due imponenti tracce di chiusura, “A Piece of the Sky” (19:10) e “The Apostate” (23:01). Il sound torbido degli Swans è dunque molto diverso da quello crudo e scarno degli esordi, ma anche da quello “meditativo” della fase di mezzo: esso è invero la sintesi fra le due fasi, il loro superamento dato dalla volontà di infrangere ogni confine, soprattutto “spaziale”. Oggi gli Swans dispongono di un ben più vasto armamentario sonoro: impetuosi crescendo post-rock (ai limiti del post-metal - roba che spacca letteralmente il culo), salti senza paracadute negli abissi di un inquieto esoterismo e fosche ballate folk tributarie della migliore tradizione cantautoriale americana (Johnny Cash, Steven Van Zandt ecc.).

Manca a questo giro la voce stregata di Jarboe (presente solo come guest nel reprise della title-track), ma francamente non se ne sente la mancanza. Al di là del fatto che le ugole femminili saranno comunque presenti (si veda l'invocazione iniziale “Lunacy” o la breve folk-balladSong for a Warrior”, rischiarata dal canto di Karen O degli Yeah Yeah Yeahs), la voce imperiosa di Gira governa in modo egregio le mostruose movenze della sua orribile creatura, spostandosi continuamente fra la declamazione infuocata e il fascinoso crooning.

Ma non solo: la musica degli Swans, rispetto al passato, riesce ad essere ancora meno prevedibile: potremmo infatti definirla musica totale, dove tutto può capitare e dove persino nel singolo brano gli scenari possono cambiare più volte. Si prenda per esempio “Mother of World” (9:57) che è aperta da claudicanti e infastidenti ritmi spezzati che rompono il cazzo solo come Gira sa fare e che non sembrano portare a niente di significativo. Grosso errore: mai dare niente per scontato con gli Swans! Poco dopo, infatti, il brano si tramuterà in un baccanale western dominato dal caratteristico gemito baritonale di Gira. O l'eccezionale “Avatar” (8:51), impetuoso crescendo che parte quatto quatto per poi sfociare, nel finale, in una epica cavalcata di travolgente e distruttiva bellezza. In tutto questo capiterà di imbattersi nelle schegge post-grind di “93 Ave. B Blues” (con tanto di clarinetto impazzito che si intromette fra destrutturanti tirate a metà strada fra metal e free-jazz), oppure il folk crepuscolare della breve “The Daughter Bring the Water”.

Torniamo quindi al tema principe: valeva la pena che gli Swans tornassero? In un mondo in cui le reunion sono una bella occasione per vedere dal vivo band ed artisti gloriosi, ma che dal punto di vista discografico portano spesso magri frutti, la risposta è un SI con centoventi punti esclamativi, uno per ogni minuto dell'opera.

Personalmente parlando “The Seer” non solo è un lavoro all'altezza del nome e della fama della band, ma può essere visto anche come qualcosa di diverso ed egualmente stupefacente, cosa che non è da dare per scontata considerato che quando un'entità mitica ritorna sulle scene dopo tanto tempo, tende a riproporre l'antica formula del successo. Gli Swans, band unica nel panorama del rock & derivati, non poteva accontentarsi di una vecchiaia appena decorosa, ma decide, in piena senilità, di rinascere a terza vita. Aprendo di fatto un nuovo entusiasmante percorso artistico che vedrà una continuazione nello speculare “To Be Kind” (del 2014), altro doppio album che perde la sfida con il predecessore solo perché, muovendosi sulle medesime coordinate, non può vantare il medesimo effetto sorpresa.

Vediamo dunque se anche in campo Metal (negli ultimi anni teatro di numerose reunion) assisteremo ad altrettanto prodigiose resurrezioni...