13 mag 2016

LE DIECI PIU' BELLE COVER NEL METAL

 


Visti nella premessa alcuni esempi di band metal che coverizzano altre band metal, passiamo al nocciolo della questione, ossia le dieci migliori cover che il metal abbia partorito guardando a band o artisti non-metal:


10) “The Sound of Silence” (Nevermore)
Partiamo subito con un bluff: raccontatemi quello che vi pare, ma “The Sound of Silence” dei Nevermore non può essere in nessun modo la cover del classico intramontabile che tutti noi siamo abituati a conoscere. Eppure tecnicamente lo è perché i crediti vanno proprio agli autori ed interpreti Simon & Garfunkel, che nel 1964 rilasciavano quello che diverrà il loro brano più noto. Almeno il testo è quello dell’originale, ma quanto alla musica, beh, non ci poteva essere niente di più lontano dalla ninnananna acustica che i due cantavano con un filo di voce. L’unico richiamo esplicito all’originale è l’incipit del brano, che appunto in pochi accordi sporchi ne riprende l’essenza. Ma quel che segue è un’altra storia, un’altra canzone riscritta di sana pianta. I Nevermore, per l’occasione, non si accontentano di calibrare il proprio sound lungo le coordinate del loro consueto thrash/power (via, chiamiamolo così), ma anzi premono ulteriormente sull’acceleratore, confezionando forse il loro brano più violento di sempre, con inaspettate punte di death metal. Anche il canto di Warrel Dane per nulla si accorda alle vocalità pacate degli interpreti originali, accordando alla velocità del pezzo grida lamentevoli pervase da quella tragica enfasi che gli è caratteristica. Ma al di là che il pezzo dei Nevermore è un gran bel pezzo, non vi è da vedere nell’operazione una provocazione fine a se stessa: la sua inclusione nella scaletta di un album cupo e cinico come “Dead Heart in a Dead World” (2000) acquisisce senso se si va a vedere il significato originario del brano, che non fu, come molti credettero, scritta di getto all’indomani dell’assassinio di Kennedy, bensì un attimo prima, nel 1963, ed aveva come tema l’incapacità dell’uomo di comunicare: un tema che ben si incastona fra quelli cari alla band americana e che si cala perfettamente nei torbidi scenari dell’album, coerentemente al messaggio di dura critica sociologica di cui esso è portatore.   

9) “Wuthering Heights” (Angra)
Dalla violenza dei Nevermore, alle delicatezza degli Angra. Siamo nel 1993, anno di uscita del debutto “Angels Cry”. Il power stava per entrare nel suo periodo migliore, ma i brasiliani già si distinguevano rispetto ai canoni delineati dai colleghi europei negli anni appena precedenti. Un elemento di distinzione, fra i tanti, era la voce cristallina e celestiale di André Matos, cantante incredibile e per certi aspetti inarrivabile. Se si vuole saggiare le sue immense qualità canore, basta andarsi a risentire proprio questa “Wuthering Heights”, originariamente rilasciata da Kate Bush. Scelta alquanto azzardata, visto che la cantante inglese non rientra generalmente negli ascolti dei metallari, nemmeno quelli più smaliziati. E c’è da dire che gli Angra, nella loro versione, non ci pensano nemmeno un secondo a smorzare la dolcezza e la zuccherosità del brano (cosa che ci saremmo aspettati da una rivisitazione metal). I nostri, dunque, aggiungono al piatto solo un po’ di chitarre elettriche (e nemmeno troppe) e confezionano il tutto con le accortezze di un ensemble impeccabile da un punto di vista tecnico. Ma è la voce di Matos a volare alto, non sbiadendo al confronto con una gigantessa come la Bush: un saggio di bravura ed ambizione che solo i più grandi si possono e si sanno permettere. (Un'impresa del genere è stata poi tentata dagli italiani Labyrinth con la rivisitazione di “Ti sento” dei Matia Bazar, dove il Tiranti si è dovuto confrontare con la grandissima Antonella Ruggiero.) 

8) “Enjoy the Silence” (Lacuna Coil)
Ci dispiace dover includere nella nostra rassegna una band mainstream come i Lacuna Coil, ma c’è da dire, onore al merito, che questa cover dei Depeche Mode gli è venuta fuori davvero bene. I Depeche Mode, del resto, piacciono al metallaro medio e lo dimostrano le svariate cover che molte band hanno dedicato loro (basti citare i Moonspell di “Sacred”, gli In Flames di “Everything Counts”, i Novembre di “Stripped”, il Marylin Manson di “Personal Jesus”). Il talento melodico di Martin Gore, la voce magnetica di Dave Gahan hanno da sempre molto appeal nei confronti del popolo metallico, che dei Depeche ama l’intelligenza compositiva, le melodie accattivanti e il mood oscuro e malinconico. Ma fra tutti riteniamo che la partita l’abbiano vinta proprio gli italiani Lacuna Coil. Lasciamo perdere il fatto che la scelta è stata molto probabilmente frutto di una furba operazione di marketing e che la buona riuscita dell’operazione sia dovuta tanto alla produzione quanto agli arrangiamenti di accorti tecnici dell’industria discografica (e non ci stupiamo affatto che il brano sia stato scelto come singolo e trasmesso in heavy rotation, per quanto un brano (pop) metal possa esserlo): al di là di tutte le paraculate che possono venirci in mente (non ultimo l’esposizione del fascino magnetico di una bellezza nostrana come Cristina Scabbia), i Nostri sono bravi per davvero ad incanalare le eleganti forme synth-pop della versione originale lungo i solidi binari di un bel goth-metal in stile Evanescence (come andava nel periodo – siamo nel 2008): groove modernista, riff di stampo epico, tastiere gotiche al punto giusto, quel pizzico di elettronica che non guasta mai ed una Scabbia in stato di grazia (da pelle d’oca i gorgheggi nel finale) sono gli ingredienti del successo, che arriverà puntuale. La verità è che “Enjoy the Silence” è così bella che renderebbe bene anche in versione orchestrina da sagra di paese cantata da Mario Merola, ma dobbiamo rendere merito ai Lacuna Coil di aver saputo sfruttare in modo eccellente un’idea sulla carta banale, portandosi nei fatti ben oltre la dimensione dello spauracchio radiofonico da una stagione e via. 

7) “Sweet Dreams (Are Made of This)” (Marylin Manson)
Se ci dispiaceva includere i Lacuna Coil, figurateci quanto ci addolora contemplare Marylin Manson, ma la nostra onestà intellettuale deve andare oltre i pregiudizi. E il dato di fatto è che il Reverendo le cover le sa fare, anzi, forse gli vengono meglio dei pezzi suoi! E il Nostro (o chi per lui), cogliendo questa qualità, ha ben visto di addentrarsi assai spesso nel campo della “simulazione”, uscendone così bene da far sì che nella maggior parte dei casi proprio le cover sono state scelte come singoli (fra tutte citerei “I Put a Spell on You” degli Screamin’ Jay Hawkins e “Tainted Love” dei Soft Cell). Ma la cover per eccellenza di Marylin Manson rimane quella “Sweet Dreams (Are Made of This)” che nel ‘95 coincise con il vero e proprio lancio del “personaggio Manson”, appena un attimo prima del successo planetario di “Antichrist Superstar”. Rivedere il videoclip a distanza di anni è quasi un’esperienza commovente: esteticamente imbarazzante, invecchiato male ed inguardabile con gli occhi di oggi, esso ci riporta ad un’epoca in cui il rock stava tramontando, ma riusciva ad assestare gli ultimi colpi vincenti, lasciando alla sua storia l’ultimo grande entertainer! Glam macabro, mostruoso, deforme, per certi aspetti disturbante, un glam aggiornato ai tempi moderni. Alla base di tutto c’è l’irriverenza, la volontà di dissacrare, di destabilizzare e violare i canoni classici della cultura “pop”, ma l’opera di destrutturazione perpetrato contro l’hit degli Eurythmics non è solo vuota provocazione, ma anche rilettura artistica intelligente e personale. La voce raschiante e strascicata di Manson va a sostituire quella vigorosa ed imperiosa di Annie Lennox, stravolgendo il senso del brano, non più un ritmato brano synth-pop dagli arrangiamenti barocchi, ma un sabba industrial-rock scosso da repentine esplosioni di groove metal: un grottesco “circo freak” (vedere il video per credere) che si cala perfettamente in un’epoca (la prima metà degli anni novanta) intrisa di disillusioni e paure.
 
6) “Knockin’ on Heaven’s Door” (Guns N' Roses)
Ok, i Guns N’ Roses: dopo Lacuna Coil e Marylin Manson, adesso ci potete anche trucidare, ve lo permettiamo. Per noi questa scelta è dolorosa ma necessaria, foss’anche solo per il fatto che Axl e soci spesso si sono cimentati nella “sfida della rivisitazione” (rilasciando persino un album di sole cover, il pessimo “The Spaghetti Incident?”, anno 1993, epitaffio della prima parte della carriera della band – da cui salviamo almeno l’audace riproposizione di “Since I don’t Have You”, targata nientemeno che 1959!). Un attimo prima del disastro, nel 1991 per l’esattezza, i Nostri cavalcano l’onda del successo ed impazzavano per MTV con i due tomi di “Use Your Illusion”, dove di cover interssanti ve n’è più d’una, fra cui sicuramente l’adrenalinica “Live and Let Die” degli Wings di Paolone McCartney e mogliera. Ma “Knockin on Heavens Door” rimane quella sicuramente più leggendaria. Se non ci credete andate su Youtube e digitate il titolo della canzone: troverete prima la versione dei Guns che quella di Bob Dylan. Il brano, in effetti, non è il più noto di Dylan, che lo scrisse per la colonna sonora del film western “Pat Garret & Billy the Kid” di Sam Peckinpah (1973). Quando i Nostri iniziarono a riproporla, in molti del pubblico la scambiarono per una loro canzone, tanto il marchio Pistole & Rose era impresso in ogni singola nota. Saranno stati anche dei paraculi, ma i Guns ci sapevano decisamente fare, perché non è da tutti tramutare uno scarno brano folk-country in una power-ballad con i controfiocchi. Ma non è soltanto l’inconfondibile voce stridula di Axl a marcare la differenza, quanto lo sforzo di un collettivo in stato di grazia che viveva un momento irripetibile, dove ogni componente aveva una sua personalità oramai definita (persino quel gonfio di Duff McKagan, che era tanto se si reggeva in piedi). Uno Slash gigantesco che ci piazza nel mezzo un assolo dei suoi, è sicuramente una ragione in più per inserire il brano fra le più belle cover rock/metal di sempre.

5) “I Want You (She’s so Heavy)” (Coroner)
Da Bob Dylan ai Beatles il passo è breve. Credete quello che volete, ma il mondo del rock deve pagare un bel dazio ai quattro di Liverpool. Ed anche in questo aspetto il metal non fa eccezione. Svariati infatti sono i brani dei Fab Four che via via sono stati ripresi da band metal: dagli insospettabili Running Wild, che fecero di “Revolution” un granitico brano heavy-power dal ritornello anthemico alla loro maniera, ai sospettabilissimi Type O Negative, che per i loro beniamini piazzarono addirittura un medley in fondo a “World Coming Down”. Nel calderone optiamo per i Coroner, che nel corso della loro carriera si sono distinti per un’altra interessante cover, la devastante versione di “Purple Haze” di Jimi Hendrix. Ma di Beatles si parlava ed ecco fuori dal cilindro degli svizzeri (era il 1991, anno di uscita del capolavoro “Mental Vortex”) la rivisitazione di “I Want You (She’s so Heavy)”, uno dei brani più sperimentali di Lennon, che, come noto, era divenuto sul finire degli anni sessanta alquanto insofferente nei confronti della classica canzoncina melodica. Come tipico delle ultime testimonianze discografiche della formazione inglese (erano del resto i Beatles in piena disgregazione di “Abbey Road”, anno 1969), il brano porta con sé una certa irrequietudine e si presenta, già nella sua versione originaria come un viaggio inquietante e morboso nella sua ossessività. I Coroner dunque trovano la via spianata, conservando sostanzialmente la struttura e lo sviluppo del brano, ma al contempo non rinunciando alle loro peculiarità. Premono dunque il piede sul distorsore ed alzano il volume dei propri amplificatori, sfoggiando peraltro una preparazione tecnica che i Beatles si sognavano. Il brano acquista dunque vigore e precisione nell’esecuzione, con il drumming impeccabile di Marquis Marky a dettare i tempi. Il grugnito da psicopatico di Ron Royce non è forse l’aspetto più edificante dell’operazione (soprattutto se si pensa che si tratta di una canzone d’amore…), ma i fraseggi elettroacustici con cui il brano si apre e si conclude (una coda strumentale protratta all’infinito e destinata all’improvvisa interruzione, come nell’originale) sono da manuale. Non ci stupiamo di certo: il talento chitarristico di quel genio di Tommy T. Baron, applicato alla scrittura di un autore come Lennon, non poteva che portare a risultati non meno che esaltanti.

4) “Got the Time” (Anthrax)
Le band thrash metal si sono dimostrate fra le più avvezze a giocare con le cover. Gli Anthrax in particolare si sono mossi spesso in questa dimensione, sciorinando perle del calibro di “I’m Eighteen” (Alice Cooper), “Antisocial” (Trust), “Protest and Survive” (Discharge), “Parasite” (Kiss), “Black Lodge” (Angelo Badalamenti) ecc. Ma quella che preferiamo è la fulminante “Got the Time”, tanto più che viene inserita in un album oscuro e denso di pezzi lunghi e tortuosi come “Persistence of Time”, del 1990. Con il suo giro di basso irresistibile, le vocalità a mitraglia di Belladonna e il ritornello incalzato dai botta-e-risposta dei cori del gruppo, nei suoi due minuti e quarantaquattro secondi essa costituisce una vera boccata d’aria, tanto che venne scelta come (fuorviante) singolo apripista (dico fuorviante perché è il brano più orecchiabile del lotto e poco ci azzecca con gli umori dark e claustrofobici che ammorbano il resto del materiale). La sua inclusione si viene comunque a giustificare concettualmente, andandosi ad amalgamare alla perfezione con il concept dell’album: il tempo. Quanto agli aspetti formali, sebbene l’originale di Joe Jackson (bel singolo del 1979!) rimanga riconoscibile nelle melodie e nel cantato, dello scanzonato impianto new-wave originario rimane poco o niente, rimpiazzato in toto dal thrash “pogaiolo” del quintetto americano, che con questa azzeccata cover segna una dei momenti più memorabili della sua carriera. Ti ti ti TUM!

3) “Dance on a Volcano” (Mekong Delta)
Giungiamo al podio con una chicca che molti non conosceranno, ma che sicuramente rappresenta un momento di grande qualità in merito al tema che stiamo trattando. La preparazione tecnica dei Mekong Delta è indiscutibile e il fatto che i teutonici si siano spesso e volentieri confrontati con la musica classica ne è la prova più evidente. Ma non è da tutti confrontarsi con dei mostri sacri come i Genesis e non sbiadire miseramente al confronto. Il progressive, si è visto, ha costituito una grande influenza per gli sviluppi dell’heavy metal classico e di sicuro come genere è stato tributato svariate volte. Fra gli esempi più illustri troviamo senz’altro i Voivod di “21 Century Schizoid Man” dei King Crimson (registrata ai tempi del furibondo “Phobos” con la voce raschiante di Eric Forrest, mica cazzi!). Fra quelli meno illustri, invece, indichiamo i Saxon (!!!) che rileggono, sempre del Re Cremisi, la leggendaria “In the Court of the Crimson King” trasformandola in una power-ballad dallo svolgimento piuttosto prevedibile (più che altro non si capisce come mai una band con l’approccio grezzo e diretto come i Saxon abbia sentito l’impulso di confondersi con l’universo prog). I Mekong Delta, dal canto loro, decidono di far rivivere i Genesis, per l’esattezza quelli di “A Trick of the Tail” (1976), già orfani di Peter Gabriel. Proprio per l’assenza del carismatico cantante, l’album fu concepito inizialmente come interamente strumentale, e solo a lavori finiti si decise di promuovere il batterista Phil Collins dietro al microfono. Questa scelta fa sì che l’album presenti delle parti strumentali sopraffine, aspetto che ha di certo attirato l’attenzione di Ralph Hubert, il quale con “Kaleidoscope” (1992) dava alle stampe il suo album più prog (e certo la scelta di riproporre un brano dei Genesis stava probabilmente in quelle che erano le voglie e le aspirazioni del momento). Il brano originale, già molto bello di suo ed impreziosito con trame chitarristiche da sogno, è dunque pane per i denti del quartetto tedesco: quel che ne viene fuori è una versione ovviamente più potente, laddove gli accordi di chitarra elettrica evidenziano i passaggi più significativi e la voce cristallina di Doug Lee è forse anche più espressiva di quella di Collins. Imperdibile.    

2) “Anarchy in the UK” (Megadeth)
E’ un contrasto non proprio piacevolissimo passare di colpo dalle raffinatezze del prog dei Mekong Delta al thrash rozzaccio dei Megadeth di “So Far, So Good…So What!”, anno 1988, ma la cover del classico per eccellenza dei Sex Pistols (e manifesto del punk inglese) è veramente una delle migliori partorite dal metal (tanto che fu utilizzata come singolo e poi di seguito riproposta dal vivo come se fosse un classico della band!). Dave Mustaine e soci non ci servono certo la novità del secolo, considerato lo stretto legame che c’è sempre stato fra il punk ed il thrash metal. Bene o male tutte le vecchie glorie del thrash si sono cimentate con delle cover punk (i Metallica con i Misfits, gli Slayer addirittura con un album intero di cover punk, “Undisputed Attitude”). Gli stessi Sex Pistols saranno spesso oggetto di rivisitazione (si pensi alla versione, sempre di “Anarchy in the UK”, fatta dai Motley Crue o alla tosta “God Save the Queen” riletta successivamente dai Motorhead). Ma i Megadeth battono tutti, centrando in pieno il bersaglio con un brano furiosamente thrash, dove la voce di Mustaine è cattivissima e meno nasale del solito (cosa che non ci dispiace affatto). Concludono il quadro una sezione ritmica secca e potente ed il pregevole lavoro svolto dalle chitarre soliste, che va esprimere una tecnica a cui il quartetto americano decide di non rinunciare, pur in un contesto in cui se ne sarebbe potuto anche fare a meno. Non costituisce eresia sostenere che questa versione sia migliore anche dell’originale, spompata e sgrammaticata rispetto alla rilettura vigorosa e tecnica effettuata dai Megadeth. E se questo vi pare poco… 

1) “Astronomy Domine” (Voivod)
Al primo posto non poteva non esserci una cover dei Pink Floyd, la band extra metal più conosciuta dal metallaro medio. Tuttavia non sono molte le cover dei Pink Floyd che s’incontrano nel mondo metal, forse perché la bislacca psichedelia barrettiana, le sonorità sognanti e languide di Gilmour o i soliloqui isterici di Waters non si sposano alla perfezione con doppia-cassa e riff spezza-collo. Per questo la vittoria dei Voivod è doppia: perché, oltre a confezionare un ottimo prodotto, riescono a far rivivere i Pink Floyd psichedelici di “The Piper at the Gates of Dawn” partendo dagli elementi caratteristici del thrash, genere concreto e pragmatico per eccellenza. La bravura dei canadesi è tanta che si viene a creare uno strano paradosso: da un lato la loro versione risulta molto simile a quella originale, dall’altro essa suona Voivod al 100%. Com’è dunque possibile, se, stilisticamente parlando, Voivod e Pink Floyd sono due entità molto diverse fra di loro? Possiamo dare tre risposte. La scelta del brano, anzitutto, è orientata verso uno delle composizioni più rock e potenti della discografia dei Pink Floyd, con in primo piano la chitarra frastornante di Syd Barrett, cosa che ben si collega al thrash claustrofobico dei canadesi. Inoltre la maturità dei Voivod (che sfornavano il loro capolavoro “Nothingface”, anno 1989) è tale che le lezioni dei loro maestri vengono recepite, assorbite, elaborate, trasformate in propri mezzi espressivi e ricomposte nel loro stile peculiare. Le due dimensioni, infine, vengono accomunate dai temi fantascientifici, cosicché il medesimo alone di “follia spaziale” ammanta entrambe le versioni. Nei fatti, la voce allucinata di Denis Bélanger, il drumming preciso e potente di Michel Langevin e soprattutto la chitarra poliedrica del geniale Denis D’Amour riconducono il volo fracassone dei primi Pink Floyd nei cieli degli anni sessanta ad una ortodossia metallica che mette tecnica e lavoro di squadra al servizio della scrittura eccelsa del genio fanciullesco di Syd Barrett. Un capolavoro.   

Bene, prima che apriate la bocca per dire “brutti incompetenti, vi siete dimenticati di…”, vi cheto bruscamente dicendovi: aspettate domani per offenderci, visto che, per voi e solo per voi, ci sarà un’appendice al discorso appena fatto…