2 mag 2016

RECENSIONE: LITURGY, "AESTHETHICA"




In una ipotetica classifica dei dieci migliori album di post-black metal (che forse un giorno stileremo) non metteremmo di certo questo “Aesthethica” dei Liturgy. Semplicemente perché non riteniamo che sia fra i dieci migliori parti di questo sotto-genere, anche se di diritto un posticino in classifica spetterebbe probabilmente anche a loro…

Perché da un punto di vista concettuale “Aesthethica” è un manifesto consapevole della volontà di superare gli stilemi classici del black metal. Il leader Hunter Hunt-Xendrix ci ha pure scritto un libro sul black metal: “Trascendental Black Metal”, saggio che analizza l’emergere di un “nuovo” black metal americano. E su questo siamo d’accordo: a partire dai seminali Weakling (ed in particolare del loro unico lavoro dato alle stampe, “Dead As Dreams”, del 2000), il continente nord-americano è stato un gran proliferare di band black metal che hanno saputo rileggere ed aggiornare le lezioni della grande scuola norvegese degli anni novanta. Sia sul fronte del depressive (Xasthur, Leviathan ecc.) che su quello del post-black metal (Agalloch, Wolves in the Throne Room, Nachtmystium ecc.).

Alla base della teoria di Hunt-Hendrix vi è un’accezione del black metal come estasi annichilente, un vuoto perfetto: una trascendenza che trasforma il nichilismo in affermazione e che si ottiene attraverso la frenetica reiterazione. Una reiterazione supportata da quello che egli definisce il burst-beat, ossia un blast-beat fluido, capace di contrarsi e dilatarsi. Il black metal ha però d’essere “de core” e, come già sostenuto una miriade di volte, è uno dei generi più malleabili che ci sia: contaminatelo con il post-rock, macchiatemelo di shoegaze, buttateci la psichedelia, strizzatelo nelle mille dissonanze come fanno i Deathspell Omega, ma non meccanizzatemelo, per carità! Tutti gli esperimenti volti a disumanizzare il black metal, a prelevarne gli stilemi per disporli in un nuovo ordine sul tavolo operatorio in un “ambiente sterile”, sono stati a mio parere fallimentari. A questi esperimenti appartiene anche quello dei Liturgy, di stanza a New York.

Come gli Orthelm, altri inquilini della Grande Mela, la creatura di Hunt-Hendrix attua una metodologia da “catena di montaggio” e tenta la via del minimalismo isterico, improntando le composizioni su un concetto di ripetizione: una modus operandi che non ha niente a che fare con il moto oscillatorio della musica di Burzum, ma che si avvicina semmai all’universo del math-rock (c’è addirittura chi ha tirato in ballo colte influenze extra-metal come i noiser Boredoms e Lightning Bolt). Quindi frasi spigolose ripetute nervosamente alla velocità delle luce, riff stridenti mutuati certamente dal black metal, ma smontati e rimontati e disposti su geometrie cervellotiche che precludono ogni possibilità di coinvolgimento emotivo da parte dell’ascoltatore. E con sopra una voce che si muove coerentemente con il resto della baraonda: ossia un monotono ed indistinto stridere di aquila privo delle benché minima espressività (a venire in mente sono le vocalità acute e frastagliate degli In the Woods… della loro opera prima “Heart of Ages”).

Ok, tutto intrigante, il fatto però è che sessantotto minuti sono tanti e dopo un po’ questa musica, oltre che annoiare, inizia a dare anche un po’ di fastidio. Non è un caso che i brani più gradevoli alle orecchie siano proprio quelli meno tirati, ossia le due strumentali “Generation” e “Veins of God”: la prima un assalto math-rock in crescendo protratto con grande energia per più di sette minuti; la seconda un esercizio sabbathiano che finirà per tramutarsi in thrash metal tout court.

Salvo il singoloneReturner” (di cui circola anche un curioso videoclip), che ha il buon cuore di durare non più di tre minuti, e qualche breve siparietto (le vocalità a cappella di “True Will” e “Glass Earth”, i landscape frippiani di “Helix  Skull”) c’è ben poco da ricordare. E se ci ho tenuto a rammentare la provenienza del quartetto, è perché la mente, durante l’ascolto, non può non andare al controverso “Metal Machine Music” di Lou Reed, altro newyorkese doc, se non IL musicista newyorkese per eccellenza. Se l’intento dei quattro blackster è comunque costruttivo e non esclusivamente provocatorio quale è stato quello dell’ex Velvet Underground, gli esiti non cambiano di molto.    

Il fatto è che, se l’album si fosse chiamato “Dark Woods of Evil” e non “Aesthethica”, e se vi fosse stata in copertina una testa di caprone o una foresta, invece che essere figa & minimal, completamente bianca con due croci stilizzate (una rovesciata, l’altra no), non so quanto oggi staremmo a parlare dei Liturgy.

Il black metal non passa da New York.