10 giu 2016

C.O.C., IMMERSI PIACEVOLMENTE NEL FANGO


I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI '90)

1994: "DELIVERANCE"

Se lo filano proprio in pochi. Lo Sludge Metal, intendo. Se ne parla proprio pochino. Il che è comprensibile, ben inteso. Non è che sia un sottogenere così “popolare” e i suoi stilemi non rendono di certo facile una sua diffusione. Noi stessi di Metal Mirror, in 15 mesi e passa di vita, lo abbiamo toccato solo una volta, fugacemente e con un taglio alquanto ironico nel post sui Melvins e i Crowbar.

E allora proviamo a rimediare a questa nostra “mancanza” nell’ambito della Rassegna sulle cult band anni novanta con coloro che reputo i migliori esponenti di questo metal del fango. E cioè i Corrosion Of Conformity dello straordinario Pepper Keenan.

A cura di Morningrise

Metto subito le mani avanti: i C.O.C. non sarebbero di per sé una cult band. Hanno avuto nella decade novantiana un più che discreto successo, sempre in relazione al genere naturalmente. Hanno rilasciato parecchi video musicali, due o tre dei quali per dei brani che sono entrati persino nelle classifiche americane dedicate ai singoli, e i full-lenght che li contenevano hanno trovato addirittura uno strapuntino su Billboard.

E allora perché dentro la nostra Rassegna? Sostanzialmente direi per due ragioni

La prima attiene a un’esigenza di completezza: si può parlare di anni ’90 e quindi, come ci eravamo riproposti nella succitata Anteprima, di contaminazione, senza includere lo Sludge? Ecco, per me non è possibile. E allora non si può che andare a parare sui C.O.C. I più grandi nel settore…

La seconda motivazione risiede nel semplicissimo fatto che è lo stesso gruppo della North Carolina a essersi impelagato autonomamente in uno status da cult band, visto che Keenan, vero e indiscusso fulcro, leader e mastermind del complesso, non pubblica una mazza coi C.O.C. da ben 11 anni!! Undici!! Dal non indispensabile ma onestissimo “In the Arm of Gods” (2005). 
Certo, in questo enorme lasso di tempo un paio di dischi col monicker della band sono usciti, i trascurabili “Corrosion of Conformity” e “IX”, ma senza Pepper è difficile considerarli davvero dischi della stessa band che aveva, con dei dischi da infarto, fatto cose strabilianti nella decade oggetto della nostra trattazione!

Lasciando da parte l’incredibile “Blind” (1991) che meriterebbe un'analisi a parte data la particolarità del disco, vero ponte tra passato e futuro, è col qui presente “Deliverance” che i Nostri cominciano a scrivere la loro meritata pagina all’interno dei libri della Storia del Metal. Perché è qui che si spogliano delle influenze hard-core e crossover degli esordi per sposare in realtà un’altra specie di crossover; e cioè quel mix malato di southern rock, voce urlata in stile hard-core, doom metal e neonato stoner che è appunto lo Sludge.

Già i primi 15’ del disco potrebbero bastare: sono un compendio fondamentale di cosa sia lo sludge, di come vada composto, suonato e interpretato. Un quarto d’ora composto da tre delle più celebri canzoni del combo di Raleigh, e del sottogenere tutto.

Heaven’s Not Overflowing” marchia indelebilmente l’inizio del disco, facendoci subito capire che siamo davanti a un'opera che segnerà un genere, appunto. Riff schiacciaossa di sabbathiana reminiscenza, assoli acidi, incedere elefantiaco ma dinamico al contempo, voce aggressiva a tratti filtrata e sezione ritmica potente, assolutamente decisiva nell’economia del brano. Pezzo perfetto.

Ma se i C.O.C. sono riusciti a farsi un nome anche al di fuori dello stoner/sludge è per “Albatross” e i suoi 5 minuti spettacolari che fanno il paio con i tre e mezzo della successiva “Clean My Wounds” con i suoi fraseggi stoppati che trovano la loro catarsi nelle aperture del bridge. Due brani che sono diventati meritatamente hits con tanto di video, esempi fulgidi, e difficilmente ripetibili, di come rendere un genere tutt’altro che accessibile, quasi “commerciale”, senza per questo ovviamente essere banali.

Ma “Deliverance” non è solo questo. “Without wings”, dolce strumentale acustica di meno di due minuti, allenta la tensione enorme creata precedentemente prima che “Broken Man” irrompa pachidermica sprigionando una potenza devastante. Un brano importantissimo in quanto emblema della capacità dimostrata dai C.O.C. all’epoca di poter rivaleggiare, e non era semplice, con la devastante proposta dei coevi Crowbar.

La formula poi rimane più o meno la stessa per l’intera durata del platter, con l’alternanza di brani più tirati (“Senor Limpio”, “My Grain”) ad altri più cadenzati come “Shake like you” o la splendida “Seven Days” in cui la voce di Keenan, più dolce e pulita (quasi pattoniana, mi verrebbe da dire) fa risaltare il motivo portante di grande malinconia melodica, elevando il brano al "titolo" di gemma nascosta.

Ma anche in questi frangenti più “accessibili” non si perde, come si sarà capito, un briciolo di potenza e conturbante oppressività. Il tutto dato da questi riff stra-feedbackati, pesantemente distorti, che si insinuano sotto pelle come serpenti velenosi e non ti mollano più.

Del periodo hard-core rimangono poi i temi socio-politici trattati dalla band nelle lyrics, invettive contro i dogmi che vincolano la vita delle persone, usate dal potere costituito per rafforzarsi sempre più. Testi sempre intelligenti e ficcanti, che trovano un mirabile esempio nella title track (paradossalmente il brano musicalmente più debole del lotto; non a caso l’unico in cui Pepper non ci mette mano in fase di scrittura).

Un plauso speciale poi a Reed Mullin, drummer e “seconda mente” della band. Il suo apporto dietro le pelli risulta decisivo affinchè un genere, che sulla carta non avrebbe grossissimi margini di manovra per differenziare sufficientemente un brano dall’altro, risulti invece sempre fresco donandogli un tocco unico: grazie al lavoro di Mullin il “pericolo” è quindi scongiurato brillantemente.

Ultima nota sulla geniale conclusione affidata all’acustica “Shelter” che, come da titolo, sembra davvero offrire all’ascoltatore, piagato dalle ferite sonore prodotte dall’ascolto del disco, un riparo accogliente dove riposarsi. 
Almeno per tre minuti e mezzo scarsi, perché la final track, “Pearls Before Swine”, se vogliamo è un episodio unico all’interno di “Deliverance” e ancor più devastante di ciò che l’ha preceduto: la sua iniziale calma apparente, che veicola fin dai primi secondi un malsano disorientamento, è pronta ad esplodere in un malatissimo chorus segnato da un’elettricità obliqua. E’ davvero quanto di più angosciante lo sludge avesse creato fino a quel momento: una song incredibile nella sua marcia essenza, e che sembra essere stata composta proprio con materiale preso direttamente dalle fogne, scarti sonori magicamente assemblati assieme in un tutt’uno organico dalla mente di Keenan.

La dedizione di Pepper nell'ultimo decennio per i fenomenali Down portò a una fisiologica diaspora degli altri membri storici della band (Woody Weatherman, Mike Dean e il già citato Mullin) che seguiranno legittimamente progetti paralleli. Da un paio d’anni a questa parte c’è stata la reunion, con lo stesso Keenan e vedremo cosa saranno in grado di produrre in futuro i Corrosion.

Per i più nostalgici come il sottoscritto, per fortuna, rimane la possibilità periodica di tornare ad ascoltare il trittico di dischi succitato (dove “Wiseblood” e “America’s Least Wanted” completano la “triade” con l’album oggetto di questo post).

Fango e liquami di scolo...con i C.O.C. diventano acque dolci dove nuotare fino allo sfinimento...