In una ipotetica classifica
dei dieci migliori album non metal che dovrebbero ascoltare anche i cultori
del metallo, inseriremmo sicuramente il seminale album di debutto dei Killing
Joke ("Killing Joke", appunto).
Dico seminale perché in quei
nemmeno quaranta minuti si vengono a profilare con anni di anticipo almeno due
generi nuovi per noi interessanti come l'industrial rock/metal e il thrash,
senza contare le manciate di semi gettate su altri terreni, fra cui ovviamente
la techno degli anni novanta.
Ecco, per descrivere il
carattere seminale di quell'opera, basta pensare a quanto erano già "anni
novanta" i Killing Joke nel lontano 1980. Ma per avere un'idea
ancora più chiara di quanto il verbo dei Killing Joke sia stato importante per
il rock e in particolare per il metal, basta andare su Wikipedia a leggersi la
lunga lista di band che a loro si sono ispirati, fra cui spiccano i nomi di Nirvana,
Nine Inch Nails, Primus, Metallica, Tool, Korn,
Ministry, Prong e Napalm Death.
Non è un caso che di solito
il metallaro medio viene a conoscenza dell'esistenza dei Killing Joke non
direttamente ma grazie alla cover di "The Wait"
rilasciata dai Metallica nel leggendario "The 5.98$ E.P.: Garage
Days Re-Revisited", del 1987. Invero, la versione originale è decisamente
migliore rispetto a quella dei Four Horsemen, della quale essi ci
consegnano una visione sì più pesante, ma anche più lenta e con minore
mordente, priva di quella verve che possiede l'originale.
Sebbene io sia fermamente
convinto che il thrash metal abbia fatto la sua prima apparizione su questa
terra nel 1975 con "Symptom of the Universe" (ma che grandi i Black
Sabbath!), in "The Wait" possiamo trovare in embrione quello che
sarà il fenomeno che verrà innescato successivamente da Metallica, Exodus,
Slayer ed Anthrax.
Che poi, c'è da dire, la
formula dei Nostri è semplice semplice: ritmi martellanti e riff secchi
e duri di chitarra. Si potrebbe dire che i Killing Joke, radunabili ancora
sotto la bandiera del post-punk di fine settanta (Joy Division, Gang
of Four, primi Cure), anticipavano il thrash, non con la violenza,
ma con l'intelligenza. Grazie anche a qualche incursione nell'avanguardia
e all'attrazione per atmosfere oscure, tese, apocalittiche (in linea con quanto
professato dai maestri Pere Ubu), essi finirono per tracciare un
percorso parallelo a quello dei connazionali Motorhead, che invece ci
davano di sudore, velocità e doppia-cassa.
Sul genio artistico di Geordie
Walker c'è poco da aggiungere: il suo stile asciutto, privo di fronzoli e
morbidezze blues, direttamente ereditato dal punk, è una fonte inesauribile di riff
che cavalcano in modo ricorsivo i ritmi meccanici della batteria (lo
chiameranno groove...un bel po' di anni dopo...).
Nei colpi implacabili di Paul
Ferguson, nei tribalismi che rompono improvvisamente la linearità delle
ritmiche, negli energici schiaffi ai piatti che trasmettono i giusti accenti
senza stemperare la tensione, sono da rinvenire certi cliché del modo di
suonare la batteria nel thrash metal (e, sempre rimanendo in tema di Metallica,
io ci sento molto Lars Urlich).
Lungo questo asse si spianò
dunque una strada che sarebbe stata poi percorsa da molti: un sound moderno
ed inedito che trovava ulteriori peculiarità (come se non bastassero quelle
già enunciate) nelle gesta dei due figuri che completavano la formazione
originaria.
Da un lato il basso pulsante
di Martin "Youth" Glover, destinato a divenire un guru negli
ambienti techno-rave (ma guarda caso...), nonché produttore di grido che
tutti, dai Verve ai Take That, passando per Orb e Pink
Floyd, vorranno.
Dall'altro l'ugola al
vetriolo del cantante (pure ai sintetizzatori) Jaz Coleman, sorta di
nuovo angosciante Alice Cooper dell'era dell'alienazione
post-industriale. Siamo dalle parti dei versi declamati in tipico stile
post-punk: un range vocale, il suo, che va dall'urlo aizzatore al pulito
che raggela i cuori, con quella propensione alla parola ripetuta che diviene
giocoforza anthem. Un carisma ed una presenza scenica (leggendario
l'inquietante make-up che spesso coinvolge i due occhi spiritati) che lo
renderanno un'icona indiscussa del rock "alternativo".
Di recente mi è capitato di vederli
dal vivo, e chi sostiene che oramai i Killing Joke siano un gruppo
imbolsito sul palco si sbaglia di grosso. A partire dalla figura allucinante di
Coleman, oscuro sacerdote che con pochi gesti e sguardi riesce a tenere in
pugno folle deliranti. A dirla tutta il suo ingresso mi ha fatto lacrimare
dalla contentezza: tripudio generale, urla, fischi, applausi, batteria, basso,
chitarra a palla e poi lui, nero vestito (tenuta da Renato Zero
dell'Oltretomba), fermo, immobile, quasi contrariato, non si capisce se per
motivi coreografici o perché rallentato da decenni di vita da rocker.
Ma è soprattutto la Storia
a parlare per chi sta sul palco. Il repertorio dei Nostri, alla fine, si
compone di un'unica canzone riproposta in tutte le salse, che però, come nel
caso degli AC/DC, funziona sempre: ritmo e riff, riff e ritmo, e
pazienza se la voce di Coleman va e viene, l'importante è che egli sia sul
palco ad ipnotizzarci con la sua presenza, tanto i ritornelli li canta il
pubblico. Ed anche se le canzoni non si conoscono tutte, i ritornelli si
imparano a memoria già dopo averli sentiti una sola volta.
Riascoltare "The Wait",
che quest'anno compie trentasei anni, è sempre un'esperienza sconvolgente: il
pogo esplode, si vedono persone che nuotano e rimbalzano sulla folla, non c'è
rispetto per nessuno, nemmeno per le donne, tant'è che anche i più grossi e
grezzi si indignano, respingendo con violenza i più violenti e scoordinati, che
sembrano più casi umani che iper-fan dei Killing Joke. Beninteso si parla di
tossici o di ex tossici sulla quaranticinquina. E poi quel ritmo e quel
riff, tanto alla fine sempre là si va a cascare.
Nella sequela mozzafiato di
ritmiche implacabili e riff vorticosi, si ha la conferma di quanto siano
moderni ed attuali i Killing Joke, che, ripeto, potrebbero tranquillamente
essere una band emersa negli anni novanta, se non fosse per le rughe sui volti
dei componenti.
L'impressione generale, durante
questa carrellata di classici che copre una carriera quasi
quarantennale, è che costoro abbiano inventato la musica…
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