2 feb 2017

LA FINE: BLACK SABBATH, LIVE AT O2 ARENA - LONDON, 29/01/2017




Ognuno potrà dire la sua: che vedere dal vivo per l'ultima volta i Black Sabbath è un'esperienza mistica e che in quanto tale rifugge da ogni possibilità di giudizio obiettivo. Oppure, dal lato opposto, che si sta parlando solo di intrattenimento, mero intrattenimento da parte di navigati professionisti del music business.

Non conosco i retroscena, ma tenderei a non pensare che musicisti affermati con conti in banca da nababbo, una carriera cinquantennale alle spalle, un'età che oramai si avvicina ai settanta, abbiano avuto davvero bisogno di imbarcarsi in questa ultima avventura solo per soldi: fare le valige, ripartire per il mondo, affrontare continui spostamenti, la vita disagiata del tour, la quale, se da un lato oggi la si può trascorrere in hotel a cinque stelle, dall'altra la si deve affrontare senza l'energia e l'entusiasmo dei vent'anni, magari nella più assoluta sobrietà imposta doverosamente dall'avanzare dell'età. Che palle...

E parlo soprattutto di Ozzy, del goffo e rintronato Ozzy, che già diversi anni fa dovette ricorrere alla formula dell'Ozz Fest (un pugno di canzoni cantate dopo vari ed importanti gruppi spalla) per alleggerire gli oneri da sostenere dal vivo: suppongo che per lui, fra tutti, questo ultimo tour abbia costituito il sacrificio maggiore, fisico ed anche mentale, visto che dei Sabbath aveva saputo fare a meno per più di trenta anni. Eppure Ozzy c'è: fermo, aggrappato al microfono, che corre impacciato, che batte le mani alla sua maniera, che recita insulse frasi telecomandate fra un pezzo e l'altro. Ozzy dunque c'è, e c'è la sua voce che miracolosamente si riversa nelle nostre orecchie forte e chiara dall'inizio alla fine.

E c'è ovviante Tony Iommi, che invece i Black Sabbath se li porta sul groppone da sempre, che li ha guidati, li ha tenuti insieme fra le mille difficoltà, fra le incomprensioni e le bizze degli svariati musicisti che si sono avvicendati nel corso degli anni. C'è al 3000%, Iommi, con la sua chitarra tempestata di croci, con le sue dita che nonostante le protesi si spostano agilmente su di essa, con gli occhialetti da sole e il timido sorriso. C'è anche Geezer Butler, che dimesso contribuisce ad un muro di suono che ha fatto la storia.

Ma c'è soprattutto Tommy Clufetos...e chi cazzo è, direte voi, Tommy Clufetos? E il turnista a cui è stato affidato l'ingrato compito di occupare il posto che fu di Bill Ward. Mi spiace per il buon vecchio Ward, ma qua forse è stato un bene che ci sia stato un giovane torello a trottare imperituro e a condurre con rinnovata energia i classici immortali dei Sabbath. Il ragazzo proprio mi piace, nello stile mi ricorda molto Nick Menza, pestatore instancabile con il pallino delle rullate e degli stop & go, irrequieto sostenitore del cambio di tempo perpetuo e schiaffeggiatore di piatti a più non posso. Anche esteticamente si presenta bene: fisico asciutto, look anni settanta, posizionato in alto, al centro dello stage, a figurare come un oracolo esagitato in una corona di luci. E il suo infinito assolo di batteria, benché sia chiaramente il classico escamotage per far riposare i tre vecchietti, sarà inaspettatamente un momento esaltante della serata, con il Nostro che con le sue prodezze e a suon di mazzate spedirà in uno stato di trance il pubblico estasiato.

Già, il pubblico, il vero protagonista della serata. L'O2 è un'ampia arena coperta che si riempirà lentamente di cinque generazioni di rockettoni, dal ventenne col ciuffo emo al classico padre di famiglia con prole a seguito, passando per il bestione stempiato che la fica non l’ha vista nemmeno in cartolina. La platea è vasta e variegata, a conferma dello status di vera leggenda fuori dal tempo di cui il Sabba Nero gode: gente apparentemente rispettabile si mescola a personaggi che hanno certamente visto tempi migliori, mentre i casi umani, di tutte le età, si sprecano. Ragazze: tutto sommato, in quantità moderata.

Entra in scena il gruppo spalla. I Rival Sons, che sono uno sfacciato mix di Led Zeppelin, Deep Purple e Whitesnake con un cantante veramente in serata, inanellano tutti i cliché possibili dell'hard rock/blues di settantiana memoria e sono semplicemente perfetti per scaldare la situazione, tanto che qua e là inizia a scoppiare qualche rissa, e per i motivi più futili: scintille che scoccano nel momento in cui maldestri figuri ubriachi, molesti per natura o per effetto di droghe, entrano in contatto con lo spazio vitale di giovani rissosi ed altrettanto ubriachi in cerca di pretesti e di facili prede su cui scaricare la propria tensione. Poi si spengono le luci e tutti si azzittiscono, inizia a scrosciare la piaggia ed una campana batte a morto: che il rito abbia inizio...

E' facile, anzi ovvio, affermare che assistere ad una data del "The End Tour" dei Black Sabbath è qualcosa di speciale, eppure alla vigilia i dubbi erano molti: una scenografia essenziale a fare da sfondo, musicisti statici, una scaletta che si sarebbe composta quasi esclusivamente di brani pescati dai primi quattro album e dunque epurata da tutte quelle interessanti e provvidenziali "variazioni sul tema" che il vasto mondo sabbathiano ha saputo ospitare: dagli episodi più sperimentali alle gradite tendenze progressive esplorate con "Sabbath Bloody Sabbath" e "Sabotage", passando per quei gioielli acustici che via via hanno fatto capolino nella discografia dei Nostri (il sospetto è che siano stati selezionati i brani più facilmente gestibili da Ozzy). Non avrebbero dunque guastato pezzi come "Hole in The Sky", "Symptom of the Universe", "Spiral Architect", la stessa "Sabbath Bloody Sabbath" (accennata solo nel riff iniziale in un medley insieme a "Supernaut" e "Rat Salad", prima del drum-solo), o anche più semplicemente una "Solitude", una "Planet Caravan", una "Changes", se non altro per spezzare l'impero delle distorsioni.

Ed invece niente di tutto questo: i Black Sabbath per il loro tour d'addio hanno puntato all'osso, all'essenziale. E così brani come "Into The Void", "Behind The Wall of Sleep" o "Hand of Doom", brani senza ritornelli memorabili e basati soprattutto su storici riff di chitarra, posti nel mezzo del set possono rivelarsi bocconi duri da digerire. "Fairies Ware Boots" tanto tanto ancora si è salvata perché inserita come secondo pezzo, quando ancora tutti eravamo freschi, curiosi ed eccitati!

Assistere ad un concerto dei Black Sabbath, del resto, è come visitare il "Museo delle invenzioni seminali dell'umanità", dove in una sala puoi ammirare la ruota e dove in un'altra la guida ti mostra come accendere il fuoco: tutte cose talmente geniali ed indispensabili da risultare quasi banali, perché divenute di uso comune e nel tempo perfezionate. L'ho sempre detto e questo concerto ne è stato una conferma: i Black Sabbath più che scrivere canzoni hanno inventato un linguaggio.

Ascoltandoli dal vivo si ha l'impressione che l'heavy metal sia stato un cortocircuito del rock, un qualcosa di sbagliato e sviluppato morbosamente, fuori da ogni controllo: privo di sensualità, per niente ammiccante come sapeva essere l'hard rock, lontano dall'eleganza del blues o del jazz, estraneo alle melodie ed ai passaggi sfavillanti del prog. No, il metal forgiato dai Sabbath è un qualcosa di mostruoso nelle forme, irrazionale nel suo muoversi: "Under the Sun/Everyday Comes and Goes" è eloquente al riguardo, rivelandosi un pachiderma sonoro fatto di chitarre ancestrali ed evocative, riff schiacciasassi e continui cambi di tempo, con voce cantilenante ad ingenerare estraneità nell'ascoltatore. Un affannarsi quasi fine a se stesso: ma che bellezza!

Fa impressione pensare che brani di tal potenza (fra l’altro: ottimi i suoni, limpidi e potenti al tempo stesso) siano stati concepiti e realizzati fra il 1970 e il 1972! Il paradosso è che tutto suona tremendamente attuale senza perdere il suo spirito squisitamente seventies: lo spirito di quei seventies acidi e psichedelici scimmiottati dallo stoner che verrà (e qui i colori, le proiezioni colorate, le luci variopinte, i piatti schiaffeggiati con gran violenza hanno arrecato un gran bel contributo).

Perché infine si capisce che i Nostri sono brava gente e che in passato hanno adottato un immaginario oscuro, trattato tematiche fantasy e persino horror solo perché tutto questo apparato lirico ed estetico era l'ideale e funzionale complemento, in quel dato periodo storico, alla musica dura che i quattro si erano proposti di suonare. Perché quei signori sul palco son tutto tranne che persone malvagie o depresse. Per dire: Ozzy avrebbe potuto assumere tranquillamente atteggiamenti enfatici, autocelebrativi, ed invece eccolo con addosso una semplice maglia nera a battere le mani fuori tempo, esattamente come faceva quasi cinquant'anni fa. Neppure ci è lecito usufruire dello sguardo allucinato del madman, visto che il posizionamento delle luci fa sì che i suoi occhi spiritati, salvo sporadici momenti, siano sempre velati dalle ombre.

Iommi, dal canto suo, pare restio ad assumere pose da guitar-hero, concentrandosi con onestà sul suo strumento, e c'è da dire che la musica ne giova: la sua prestazione è impeccabile, precisa e calorosa al tempo stesso, le ritmiche trascinanti, ogni singolo assolo da applausi. Iommi, sebbene abbia ideato i riff più influenti dell'heavy metal e molti di essi di una mestizia inconcepibile per l'epoca in cui sono stati generati, non è quel guru, quel sacerdote della chitarra che potrebbe permettersi di essere, ma sembra ancora l'operaio di Birmingham che si dedica con passione al suo strumento e che si rivolge oggi, con semplicità e con grande rispetto, al suo pubblico che per così tanti anni lo ha seguito e supportato. Probabilmente Iommi è un sentimentale e distaccarsi per sempre dalla sua creatura dev'essere un processo doloroso, per questo motivo, perlomeno in lui, non vedo malafede. E vien da pensare che "Dirty Women" (unico estratto dal non certo imprescindibile "Technical Ecstasy" ed opinabilmente posta fra i super-classici a due brani dalla fine) l'abbia voluta a tutti costi lui, per poter riproporre per un'ultima volta quello splendido assolo.

E poi, gente, ci sono ovviamente i cavalli di battaglia, a partire da Lei, colei da cui è tutto iniziato, posta significativamente come apertura del concerto alla stregua di un rito di iniziazione: "Black Sabbath". Se anche i Nostri avessero scritto solo questo brano, sarebbero comunque entrati di diritto nella Storia, perché in essa sfila già tutto l'heavy metal che verrà: doom, heavy-classico, epic metal e persino thrash nella clamorosa accelerazione nel finale (preceduta dal proverbiale segno della croce di Ozzy) che ha visto letteralmente impazzire la folla.

E poi la scoppiettante "After Forever" (una boccata di aria fresca), "War Pigs" (un colpo di genio dopo l'altro), "Snowblind" (da pelle d'oca il rallentamento centrale), "N.I.B" (con Butler finalmente in primo piano), "Iron Man" (ogni commento è superfluo) e le immancabili "Children of the Grave" e "Paranoid", durante le quali si è consumato un momento di delirio collettivo in cui il pogo sfrenato si è “scontrato” con il lancio sul pubblico di palloni giganti e coriandoli in quantità industriali: una scena surreale.

La band saluta e abbandona il palco, la gente grida in coro "one-more-song! one-more-song", ma io lo so che è finita, e mentre i titoli di coda sfilano con in sottofondo ancora la musica dei Sabbath, questa volta però registrata e in filo diffusione, mi avvio verso l'uscita con un insopportabile senso di perdita, con un vuoto incolmabile dentro di me, con la dolorosa consapevolezza che la fine è giunta per davvero. E forse solo in questo frangente me ne rendo davvero conto, mentre un energumeno truccato da Ozzy mi taglia la strada e una tenera coppia di sessantenni, lui capelli lunghi bianchi ed occhiali da sole, lei claudicante con il bastone, spariscono nella folla. 

Si parla molto dello stato di salute di Tony Iommi, ma sinceramente, dopo questa esperienza, la sensazione è che quelli che possono morire adesso siamo tutti noi...