14 mar 2017

1967 - 2017, CINQUANTA ANNI DI ROCK: I MIGLIORI DIECI ALBUM DEL 1967





Il 1967: l'anno d'oro del rock.

Per noi metallari è forse ancora presto per godere appieno: dovremo infatti aspettare il triennio 68-70 per poter assistere a quella ulteriore spinta che condurrà al nostro genere preferito. "Wheels of Fire" dei Cream (1968), i primi due album dei Led Zeppelin (entrambi del 69), "In Rock" dei Deep Purple e il leggendario debutto dei Black Sabbath (usciti nel 1970) saranno le pietre miliari che traghetteranno il rock, ancora fluttuante in un crogiolo di rock'n'roll, blues, folk, beat e psichedelia, verso i granitici lidi dell'hard-rock e dell'heavy metal. Ma è nel 1967 che il rock cambiò veramente volto e nel quale furono gettati i semi che presto sarebbero germogliati nelle forme a noi care.

Il 1967 fu un anno incredibilmente prolifico. È vero che quella era un'epoca in cui si pubblicava un album "ogni qualche mese", ma anche tenendo presente questo assunto la lista degli artisti dediti alla "musica popolare" che si sono affacciati discograficamente nell'anno 1967 è impressionante. Solo considerando i nomi più noti, ne abbiamo scovati cinquanta (perché a noi piacciono i numeri tondi): Miles Davis, Elvis Presley, Chuck Berry, Frank Sinatra, Tom Jones, James Brown, Ray Charles, Stevie Wonder, Otis Redding, Marvin Gaye, Sly and the Family Stone, Bee Gees, senza dimenticare John Mayall e Johnny Cash. E poi Bob Dylan, Van Morrison, Cat Stevens, Scott Walker, persino un giovanissimo David Bowie. Ed ancora: Ella Fitzgerald, Aretha Franklin, Nancy Sinatra, Barbra Streisand, Joan Baez e Nico. Ma era nell'ambito più ristretto del rock che stava accadendo qualcosa di particolare: The Beach Boys, The Who, The Kinks, The Byrds, The Yardbirds, The Electric Prunes, 13th Floor Elevator, Traffic, Buffalo Springfield, Grateful Dead, Captain Beefheart, Procol Harum, The Mamas & The Papas, tutti con il loro buon album dato alle stampe nel 1967.

I più bravi in matematica avranno notato che i nomi elencati sono al momento trentotto: ne mancano dunque dodici. Fra questi dodici, Metal Mirror ne ha selezionati dieci e ha stilato la sua personale classifica dei migliori album del 1967: una classifica che sovverte gerarchie e farà storcere il naso a qualcuno. A partire dal fatto che ci siamo permessi di escludere da questa top-ten due nomi intoccabili: i Rolling Stones di "Their Satanic Majesties Request" e i Love del loro capolavoro "Forever Changes". Nel primo caso si parla dell'album meno Stones degli Stones, impegnati ad inseguire i rivali Beatles sui territori della psichedelia con arrangiamenti stralunati e fiumi di archi e fiati: un lavoro oggetto di rivalutazione che ha il pregio di consegnarci Mick Jagger e compagni in una versione insolita, ma sinceramente preferiamo i Rolling Stones più blues e cattivi. Quanto ad Arthur Lee e i suoi Love, non si arrabbino i fan della band, ma l'album, con le sue influenze pop e flamenco (!!), chiamato anch'esso a rincorrere la colorata psichedelia dei quattro Scarafaggi di Liverpool, ci è sembrato privo di novità rilevanti e un po' moscetto per i nostri gusti. Vediamo invece chi è che si è meritato di rientrare fra i primi dieci posti di questa "opinabile" classifica...

10) Jefferson Airplain: "Surrealistic Pillow"
Iniziamo il nostro viaggio con gli artisti più legati (intrappolati, direi) alla loro epoca: dalla beat generation alla controcultura hippie, fra LSD, vestiti sfarzosi, utopia e contestazione, la band di San Francisco è sicuramente uno nei nomi più rappresentativi della Summer of Love. Resta il fatto che questo secondo loro album, complice l'ingresso in formazione della carismatica singer Grace Slick e il supporto, non accreditato, del guru Jerry Garcia dei Grateful Dead, è una raccolta di brani imperdibili, certi dei quali finiti di diritto nell'immaginario collettivo, a partire dai singoli di successo "Somebody to Love" e "White Rabbit". Uno sforzo corale (perché molte erano le anime creative nella band e prodigiosa la loro sinergia) che traghetterà il folk-rock delle origini verso la psichedelia lisergica della maturità (così come professato dall'imprescindibile Dylan ed anticipato dai vari Byrds and Mamas and Papas), senza dimenticare certe "sporcizie" blues: un salto di qualità che varrà ai Nostri lo status di acid-rock band per eccellenza.

9) Cream: "Disraeli Gears"
Sebbene noi continuiamo a preferire il successivo "Wheels of Fire", c'è chi definisce questa opera seconda il miglior parto discografico del trio britannico, e certo non ce la sentiamo di smontare in toto la tesi. Eric Clapton (chitarra), Jack Bruce (basso e voce) e Ginger Baker (batteria), tutti e tre provenienti dagli ambienti del "blues bianco", danno del tu ai rispettivi strumenti e possono essere definiti come una sorta di Emerson, Lake & Palmer ante litteram: nelle loro infuocate jam dal vivo, ampliate a dismisura, troviamo di tutto, non solo blues incendiario, ma anche tracce di prog e di quell'hard rock che gli stessi Cream contribuiranno successivamente a forgiare. Sebbene un po' di magia vada perduta fra le quattro pareti dello studio di registrazione, il talento dei tre virtuosi è frastornante, tanto che Eric Clapton (celebre il suo wah-wah) finirà per contendere a Jimi Hendrix la palma di miglior chitarrista rock dell'epoca, senza peraltro sovrastare l'ego dei due compari, a dimostrazione della straordinarietà di quel team.

8) Tim Buckley: "Goodbye and Hello"
Se Miles Davis ha rivoluzionato la tromba e Jimi Hendrix la chitarra elettrica, il merito di aver "cambiato" il modo di cantare spetta di diritto a Tim Buckley, cantante alieno affermatosi nella seconda metà degli anni sessanta. Dotato di una ampiezza vocale decisamente estesa, il singer americano sarà in grado di trasformare la voce in uno strumento vero e proprio, cosa che sarà lampante nel proseguo della sua carriera. In questo secondo album, ancora ancorato allo schema della folk-ballad intimistica, si iniziano ad affacciare i primi arrangiamenti jazz e barocchi che lo avvicineranno al movimento prog, sebbene egli non ne farà mai parte in senso stretto. A fare la differenza con gli altri cantautori dell'epoca, quella voce irraggiungibile, a tratti fragile, in altri forte ed epica, che costituirà sicuramente il punto di partenza per ogni cantante rock a venire.

7) Leonard Cohen: "Songs of Leonard Cohen"
Sebbene il cantautore canadese niente abbia a che fare con il mondo del rock, abbiamo voluto imporlo di prepotenza per il potere evocativo della sua musica. Nel 1967 nessuno era oscuro come lui, poeta di una profondità esistenziale sconcertante, fiorito artisticamente proprio negli anni in cui la solarità della cultura hippie dettava legge, e per questo, almeno inizialmente, non del tutto compreso. Una voce appena sussurrata, una chitarra acustica, qualche povero arrangiamento era lo scarno armamentario di cui erano dotate le malinconiche ballate di questo cantastorie apocalittico, a cui gli universi del dark e del gothic dovranno necessariamente pagare un forte dazio.

6) Frank Zappa & The Mothers of Invention: "Absolutely Free"
Brillante seguito del folgorante esordio dell'anno precedente (il geniale doppio album "Freak Out!"), "Absolutely Free" conferma lo spirito irriverente e dissacrante di Frank Zappa, artista che ha saputo fare dello sberleffo e della trasfigurazione la propria cifra stilistica. Sotto la sua regia, prendono forma folli collage che, fra il surreale e il dadaista, sembrano avere come missione quella di sovvertire le regole conosciute del rock e smontare e rimontare a proprio piacimento, e nelle modalità più imprevedibili, i "mattoni" che lo compongono: jazz, avanguardia, psichedelia, art-rock copulano selvaggiamente, ma l'anarchia  delle origini viene mitigata da una accorto e più ragionato lavoro di taglia-e-cuci che conferisce all'opera sfumature persino progressive (per esempio i bozzetti della prima facciata sono assemblati in modo da formare un lunga suite). Genio e sregolatezza allo stato puro.

5) The Beatles: "The Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band"
Qualcuno dissentirà innanzi alla nostra scelta di collocare i Fab Four e la loro opera più celebre solamente al quinto posto della nostra classifica, e quindi vogliamo fugare ogni dubbio: amiamo i Beatles!  Riteniamo che in una certa fase della loro storia siano stati per davvero i più grandi, ma parliamo dei Beatles di album come "Rubber Soul" e "Revolver": opere che (insieme alla parallela azione dei Beach Boys, ed abbiamo in mente un album epocale come “Pet Sounds, del 1966!) hanno letteralmente tirato su le fondamenta del rock come oggi lo conosciamo. Apprezziamo il talento melodico di Paul McCartney e il genio visionario di John Lennon: il loro canzoniere è il più brillante che il rock abbia conosciuto. Ma li apprezzeremo ancora di più a fine carriera, quando decideranno di uscire dalla canzonetta d'amore (e brani come "Helter Skelter" e " I Want You (She’s So Heavy)" non dovrebbero lasciare indifferenti nemmeno noi metallari). Riconosciamo, infine, l'enorme valore storico di "Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band", il quale – si dice – abbia in un sol colpo spalancato le porte della psichedelia e del rock progressivo. E sebbene Syd Barrett piangesse ininterrottamente giudicando irraggiungibile l'arte dei quattro di Liverpool, e Greg Lake avrebbe successivamente affermato che essi sono stati i veri iniziatori del progressive, da amanti della musica quali siamo, non potevano mettere questa opera al di sopra di chi, nel medesimo anno, scriveva brani come "Interstellar Overdrive", "The End", "Venus in Furs" e "Heroin". L'impressione è che, come tutto il movimento psichedelico, anche "Sgt. Pepper's..." e l'immaginario che si porta dietro, siano rimasti un po' legati a quegli anni, mentre altri artisti erano già proiettati decisamente più in avanti. Ed infine, a voler essere severi, niente ci toglie dalla testa che, spogliate dagli elaborati arrangiamenti, le canzoni in sé, ad eccezione di qualche caso, siano nel complesso un po' sempliciotte. Ma forse è proprio questo il grande merito dell'album, che va giudicato nell'insieme in un'ottica concettuale, avendo previsto esso un utilizzo creativo dello studio di registrazione. Gran parte del merito della buona riuscita del prodotto va dunque al "quinto membro" dei Beatles, il produttore George Martin, regista dell'operazione, moderatore delle quattro personalità ed artefice di un mosaico dove ogni tassello si trova veramente al posto giusto. E poi, diciamola tutta, "A Day in the Life" è un vero capolavoro: degna chiusura di un album dalle mille sfumature e che non conosce momenti di cedimento.

4) Pink Floyd: "The Piper at The Gates of Dawn"
Amiamo i Pink Floyd in tutte le loro forme e forse la loro incarnazione scanzonata del loro debutto non è neppure la nostra preferita. Ma come rimanere indifferenti al genio sfasato e bambinesco di Syd Barrett? Il leader della formazione originaria dei Pink Floyd, fra filastrocche fanciullesche e torrenziali jam chitarristiche, è autore di una visione artistica che, a nostro umile parere, diventa superiore persino a quella dei suoi dichiarati maestri Beatles. Ad emergere con prepotenza, due dei brani più emblematici della stagione psichedelica: l'irruente opener "Astronomy Domine", scossa da fremiti elettrici che i Fab Four nemmeno si sognavano, e "Interstellar Overdrive", un viaggio cosmico di quasi dieci minuti dove i quattro inglesi creano un maelstrom di dissonanze e allucinazioni sonore come nessuno aveva mai osato fare prima di allora!

3) The Doors, "The Doors"
In molti pensano che i Doors siano stati poco più di una sopravvalutata boy-band per via del fascino iconico di Jim Morrison, ma in verità, ad uno sguardo ben attento, si capisce che la grandezza della band va ben oltre la bellezza del suo cantante. Morrison era anzitutto un poeta, un poeta che sul palco diveniva uno sciamano, celebratore di un rito collettivo che univa le folle in un’unica esperienza spirituale, mistica. Visioni apocalittiche, immagini ancestrali, fosche profezie si fondono al rock notturno ed energico di un ensemble veramente ispirato che vede al suo centro l'organo di Ray Manzarek, senza nulla togliere a Robby Krieger (chitarra) e John Densmore (batteria), tutt'altro che degli sprovveduti. E "Break on Through (to the other Side)", "The Crystal Ship", "Light My Fire", "End of the Night", nonché la mitica "The End" (vero monumento del rock, con il suo celebre arpeggio, lo stream of consciousness di Morrison, l'esplosione drammatica nel finale) sono brani avulsi dal loro tempo, che affondano le loro radici nell’arte dei poeti maledetti dell’ottocento, nella cultura degli indiani d’America, nella psicoanalisi, nel teatro e chissà in quanti altri dotti riferimenti letterari: un saper “vedere oltre” che ha determinato una modernità di suoni e visioni che era preclusa a molti altri grandi artisti dell'epoca.

2) The Jimi Hendrix Experience: "Are you Experienced"
Non poteva mancare ai piani alti della nostra classifica colui che letteralmente inventò la chitarra elettrica. Non si agitino i fan di Eric Clapton, ma non c'era proprio partita: Jimi Hendrix è stato un genio assoluto, forse il più grande talento che il rock abbia conosciuto, e il suo contributo alla causa del verbo elettrico è stato incommensurabile. Tutto dovrà necessariamente passare dalle note uscite dagli amplificatori di questo venticinquenne con il fuoco nelle vene, autentico genio delle sei corde. Egli cercò di tirare fuori il più possibile dal suo strumento, arrivando persino a distruggerlo: un campionario di riff, ritmiche, assoli, fughe, feedback, effetti e distorsioni che sono entrati nel DNA del rock. E grazie a musicisti portentosi come Noel Redding (chitarrista prestato al basso) e Mitch Mitchell (batterista virtuoso dalle solide basi jazz), egli forgiò brani leggendari ("Foxy Lady" e "Fire" i più noti di questa release) che avrebbero condotto direttamente all'hard-rock e all'heavy metal, nonché ispirato ogni chitarrista rock sulla faccia della terra.

1) The Velvet Underground & Nico: "The Velvet Underground & Nico"
Chitarristi virtuosi, poeti maledetti, cantautori impegnati, audaci sperimentatori... ma alla fine, a tutto questo, abbiano deciso di anteporre le nevrosi di Lou Reed, la cadenza sorniona della sua voce, il caos delle chitarre distorte, i suoni sporchi e volutamente lo-fi. Lo scarso successo commerciale (nonostante dietro al progetto vi fosse quella vecchia volpe di Andy Warhol - sue la celebre copertina) è stato ampiamente compensato dall'enorme lascito nel mondo della musica rock che verrà. Da qui germoglieranno il punk, il kraut-rock, l'industrial, la new-wave, il noise-rock, il post-rock e mille altri generi. I viaggi colorati del coevo movimento Flower Power sembrano giochi di bambini in confronto alla cruda metropolitanità di Reed, che eleva a poesia storie di strada, droga, sesso, spacciatori e prostitute. Del resto era la stessa differenza che correva fra LSD e l'eroina. La musica, di pari passo, si fa selvaggia, disperata, rumorosa, sospinta dal background avanguardista di John Cale (viola elettrica e basso), fondamentale nella definizione del suono dei primi Velvet. In tutto questo la magnetica voce della tedesca Nico è un prezioso suppellettile che conferisce al sound dei newyorkesi ulteriori sfumature. La beffarda "Sunday Morning", la frastornante "I'm Waiting for the Man", l'inquietante e morbosa "Venus in Furs", la paranoica ed angosciante "All Tomorrow's Party", la strabiliante "Heroin", con i suoi alti e bassi che vanno a descrivere il Paradiso/Inferno di un tossico, sono brani che non trovano eguali nel panorama dell'epoca. E per questo motivo, di diritto e con prepotenza, conquistano il primo posto della nostra classifica.

Buon compleanno Rock!