NOTA BENE: si avvisano i gentili
lettori che l’autore del presente post è ben consapevole che il Sommo Poeta, ovvero
Dante Alighieri, in questo momento si starà rivoltando nella tomba.
Lungi
dalle mie intenzioni farne “il verso” o mancargli di rispetto…
In questi primi mesi del 2017 mi
ha preso così: a suon di ricorrenze, compleanni e anniversari. E come non
considerare in quest’ottica “Into the
Pandemonium” dei Celtic Frost? Cavoli, compie 30 anni tondi. Non potevamo
esimerci…
Ma, come già ci è capitato di dire in proposito, ITP non è un disco qualunque, di cui si può trattare
in maniera canonica. E’ un album troppo fuori dagli schemi per parlarne in
maniera didascalica.
E così, lasciandomi ispirare dalle note del
buon Thomas G. Fisher, mi sono lanciato in questa ridicola composizione a
terzine incatenate (senza però gli endecasillabi…), con la speranza di rendere
il giusto omaggio a questo disco memorabile.
Tom Warrior…ispirami! Accompagnami, come un novello
Virgilio, nei recessi dell’infernale pandemonio da te creato 30 lunghi anni
fa...
UN CANTO PER I CELTIC FROST
Tra le nostre mani il misterioso manufatto si presenta
con una notte oscura discesa su una città infernale;
un’immagine che potremmo definire assai violenta
e dalla quale subito s’intende che l’opra non sarà banale.
Anime dannate in paesaggio fatto di montagne bizzarre
ove siam certi dimori e domini un Male abissale.
Si comincia e dal primo secondo udiam un ronzar di chitarre:
è una cover, “Mexican
Radio”, che così ci accoglie,
e immediatamente da essa ci si lascia attrarre.
Ma è solo l’inizio giacchè un’ipnosi sonora le nostre volontà scioglie:
“Mesmerized”, non a caso, è lo
strumento dai tre elvetici usato.
“Inner Sanctum” è
un gioiello che l’essenza del metallo coglie,
il suo incedere è potente, e il rifferrama di Fisher
acuminato.
Ma poi, che sorpresa! Musica di violini, un cantato in
francese!
Il nostro stupore aumenta in questo clima fatato;
è “Tristesse de la
lune”, che annienta le nostre ultime difese
prima che “Babylon
fell” e la sua thrasheggiante durezza
ci ricordi che in fin de' conti è sempre metal con cui siam alle prese.
Non si ha tempo di riposare: “Caress into oblivion” dà gelida ebbrezza;
di un doom magico, sabbathiano, è ciò di cui essa è composta,
pesante e aggressiva, con maligna e luciferina asprezza
martella le nostre malcapitate orecchie senza sosta.
Continui cambi di ritmo, umori d’Oriente, soluzioni geniali
è metal d’avanguardia, fuor di dubbio, che fermenta sotto
crosta.
Non ci credete? Sto esagerando? Volete altre credenziali?
Eccovi accontentati: “One
in their pride” è la prova definitiva:
nei suoi tre minuti di voci filtrate e campionamenti
digitali
colui che è pronto ad aprire la sua mente subito colpiva.
Ma si cambia ancora, non c’è nemmeno il tempo di respirare:
“I won’t dance (The
Elder’s orient)” si presenta con furia distruttiva
in un rebus musicale intricato ed impossibile da dipanare.
Il viaggio scorre: giungiamo a “Rex Irae”, il gran capolavoro:
descriverla? E’ canzone sì bella che appieno non la si può afferrare.
E’ pura avanguardia dell’allora conosciuto spettro canoro,
talmente moderna, così “avanti” nei suoi bislacchi elementi
che per parlarne servirebbero parole ch’io ignoro.
Alla fine del viaggio, questi tre svizzeri ci han resi quasi
dementi,
con sinfonia marziale “Oriental
masquerade” l’opera conclude;
epica strumentale che di questo abisso serra i battenti,
breve e demoniaca marcia che di certo non delude.
Un disco geniale, infine, senza schemi e dallo spirito
imbelle
che tanti spunti ha dato e nuovi orizzonti ancor oggi
schiude.
A cura di Morningrise