Il pionerismo dei Boston; il
folk-prog dei Kansas; il rock apparentemente “semplice e canonico” dei
Foreigner; il concept teatrale degli Styx; l’elegante soft rock dei Toto;
l’arena rock dei Journey; l’epic fantasy dei Magnum; il caldo hard n’ heavy dei
Whitesnake; il rock glamour dei Winger e la robustezza hard dei Giant.
Finisce tra oggi e domani, con le
immancabili conclusioni, il nostro viaggio cominciato il 21 luglio scorso nel
mondo dell’A.O.R.
Troppo pochi ovviamente 10 dischi
(più uno) per fornire una panoramica onnicomprensiva. Abbiamo cercato di farlo,
mettendo in evidenza, come su elencato, le numerosissime tipologie e le
molteplici sfaccettature di questo modo di intendere il Rock. Un Rock che
guardava sì all’appeal radiofonico e a un modo di fruire la musica non troppo
impegnato, ma che al contempo ricercava la qualità di scrittura e la perfezione
formale ed esecutiva. Una concezione, quindi, che non disdegnava le hit da far
girare in heavy rotation ma che avessero quella qualità tale da non essere
canzoni “usa e getta”.
Non ne sarebbero bastati
cinquanta di dischi per rendere ragione al fenomeno trattato, ma il fascino e
lo stimolo di una “top ten” è proprio quello della “selezione”, dell’essere il
più possibile esaustivi valorizzando quelli che sono stati gli album decisivi,
ovviamente secondo una visione e una metodologia di sintesi che non può che
essere iper-soggettiva. Con la chiara consapevolezza che ne avremmo lasciato
fuori tanti validissimi e che avrebbero meritato altrettanta visibilità.
Utilizziamo quindi le nostre
canoniche conclusioni sia per segnalare gli “esclusi eccellenti” dalla top ten
(album che ci hanno fatto venire profondi sensi di colpa); sia per fare un
bilancio non tanto delle caratteristiche tecnico-stilistiche dell’AOR (già peraltro
emerse sia nell’Anteprima che negli undici capitoli successivi ad essa), quanto
per ribadire il perché del suo valore e importanza all’interno dell’Universo
Rock.
Partiamo dal primo punto, mantenendo
la metodologia temporale con un
riassunto year-by-year rigorosamente ottantiano (perché è inutile girarci
attorno: AOR è fondamentalmente sinonimo di anni ’80!).
1980: comincerei dai REO
Speedwagon e dal loro pluripremiato “Hi
Infedelity”. In realtà non amo granchè la band dell’Illinois ma una super
ballad come “Keep on loving you” la conoscono anche i muri. E va perciò citata.
Ma è soprattutto la tipologia di produzione di H.I. che diventerà standard di
lì in avanti in un certo modo di intendere il rock popular. Quindi una tappa
decisiva per tanto AOR a venire.
1981: se non ci fossero stati i Toto, i Balance avrebbero potuto presenziare con il loro debut omonimo per
rappresentare la parte più soft dell’AOR. Trainato da un singolone come
“Breaking away”, i Balance, nella loro brevissima carriera, furono un ottimo
esempio dell’importanza dei musicisti professionisti per dare eleganza formale
alle composizioni AOR. La voce di Peppy Castro, un session di lusso come Chuck
Burgi al drum kit e un certo Bob Kulick alla sei corde (Lou Reed, Kiss e Wasp
ne sanno qualcosa di questo chitarrista) garantirono classe sopraffina a un
pop-rock tipicamente da costa occidentale.
1982: anno di grazia del leggendario debut omonimo degli Asia. Immagino che tutti gli esperti di
AOR si sarebbero aspettati la band inglese nella nostra top ten. E a ragione.
Il motivo della loro esclusione però è presto detto: gli Asia, più che un
gruppo sono…un supergruppo! Steve Howe e Geoff Downes (Yes), Carl Palmer
(EL&P) e John Wetton (King Crimson)…della serie ti piace vincere facile…quattro
mostri del loro strumento, una all-star band che non poteva fallire. E infatti non
fallì: il loro “Asia” è un grandissimo disco, trainato da una top-song come
“Heat of the moment”. Però…dai ragazzi…così non vale!
1983: uno degli anni d’oro dell’AOR, basti pensare, oltre al già
descritto “Frontiers” dei Journey, alle uscite di I-Ten (“Taking a cold look”), Le
Roux (“So fired up”) e l’omonimo debut di Michael Bolton. Però AOR americano non vuol dire solo Usa…c’era
anche il Canada a sfornare dischi più che validi, come “Lonely at night” degli Orphan.
Un disco particolare, caratterizzato dalla voce quasi smithiana di Chris
Gaffney. E una canzone come la title track fa ancor oggi venire i brividi…
1984: alzi la mano chi di voi non si sia entusiasmato a seguire le
gesta di Rocky Balboa, i suoi allenamenti spezza-ossa, i suoi epici match
all’ultimo sangue, l’emozione di “Gonna fly now” mentre corre sulla scalinata
di Philadelphia…ma, per chi ha seguito anche i successivi capitoli della saga,
non potrà non avere nel cuore le mitiche “Eye of the tiger” e “Burning heart”.
Ecco…gli autori di quei brani immortali, per chi ancora non lo sapesse (e io mi
beavo di quelle melodie senza saperne l’autore), sono i Surviror di Jim Peterik, chitarrista/tastierista tra i più ispirati
dell’intero pianeta-AOR. Il loro “Vital
signs” è un album di un’eleganza e classe incredibili, dove il connubio
tipicamente AOR tra chitarra e tastiera troverà una delle sue espressioni più
riuscite.
Ma 1984 è l’anno di uscita di un
altro album immortale, quel “Tour de
force” dei 38 Special che creerà
una nuova sfaccettatura ancora inesplorata del Rock. Una sorta di AOR dalle
venature southern, retaggio del passato della band di Jacksonville, che verrà
ripreso (senza la stessa qualità, va detto) a fine anno anche da altri campioni, anch’essi floridiani, del southern americano: i Molly Hatchet di “The deed is
done”, che con questo loro sesto album in studio decideranno di virare verso
sonorità più radio-oriented. L’album è buono e niente più, ma un brano come
“Stone in your heart” lo possono vantare in pochi nella propria carriera…
Bella carrellata, eh...e siamo a metà strada. Per gli ultimi cinque anni, dovrete aspettare domani...
A cura di Morningrise