31 dic 2017

2017, FINE DELL'ANNO. 1997: FINE DEL METAL



1997: Fine del metal.

Per celebrare la Fine dell'anno abbiamo pensato alla Fine del metal. Abbiamo così deciso di ruotare le lancette in senso antiorario ed approdare a venti anni fa esatti, al 1997: anno di auto-negazione del metal per eccellenza. E se ci leggete capirete perché.

Spesso celebrare significa anche semplificare: unire con un filo immaginario due o tre opere significative ed individuare un trend, trascurando tutto il resto. Forse fra venti anni potremo dire quale è stato il profilo dominante del 2017. Oggi, con maggiore sicurezza, possiamo gettare uno sguardo disincantato su cosa accadde esattamente venti anni fa entro i confini del nostro genere preferito. O sarebbe meglio dire “cosa accadde fuori dai confini del metal”?


Per chi lo ha vissuto il 1997 non fu poi così diverso dagli anni appena precedenti o da quelli appena successivi. Ma se si vuole catturare lo spirito generale in poche parole potremmo dire: c’era voglia di guardare avanti, di varcare confini, di superare limiti.

Si veniva dalle convulsioni dei primi anni novanta (con il ciclone grunge a movimentare il tutto), a cui erano seguiti anni in cui certi generi erano morti e certi altri nati: possiamo sostenere che il quinquennio 1992-1996 è stato l'ultimo periodo veramente creativo del metal.

Power metal, prog-metal, groove-metal, nu-metal, industrial-metal, post-metal, black metal, melodic death metal, gothic metal: tutti questi generi e sottogeneri fiorirono o iniziavano a germogliare in quegli anni lungo coordinate arzigogolate e pronunciandosi in tendenze contrastanti. Certi generi furono realmente innovativi, forgiarono nuovi linguaggi; altri innovavano prendendo mondi distanti e mescolandoli fra loro; certi altri si limitarono a sistematizzare stilemi sorti negli anni precedenti; altri ancora guardavano senza mezzi termini ad un recupero coatto del passato: se volete avere un’idea di cosa accadde nella prima metà degli anni novanta andatevi a rileggere l’introduzione e le conclusioni della nostra rassegna sul “Nuovo Metal”.

In questo indecifrabile laboratorio fu proprio in seno al gothic metal che attecchirono i semi più coraggiosi, quelli che spinsero l’evoluzione così oltre da determinare la fuoriuscita del metal dal metal: una lunga ricorsa che, passo dopo passo, ci porta al nostro 1997, l’anno della grande fuga dal Reame del Metallo.

Paradise Lost, My Dying Bride ed Anathema, originati dalle efferatezze del death, si erano aperti varchi innovativi che facevano presagire evoluzioni interessanti. Nel biennio 1994-1995 suddette band avevano già pubblicato i loro lavori della maturità (rispettivamente "Draconian Times", "The Angel and the Dark River" e "The Silent Enigma") con i quali dettero il là a tutti coloro le cui le pesanti vesti del metal iniziavano a stare strette.

Dalla Svezia Tiamat e Therion rispondevano con gli ancora più rivoluzionari "Wildhoney" e "Theli". Nel frattempo facevano capolino grandi interpreti femminili che portarono gentilezza ed una nuova sensibilità al metal: dall'Olanda spuntarono i Gathering che con il gioiello “Mandylion” lanciavano la divina Anneke Van Giersbergen; dalle fredde lande norvegesi giunsero gli avanguardisti The 3rd and the Mortal che avrebbero ospitato nel loro organico prima Kari Rueslatten e poi Ann-Mari Edvardsen. E mentre la Germania contribuiva alla causa con quei Pyogenesis che in "Twinaleblood" individuavano la sintesi perfetta fra metal e sonorità alternative, il sud d'Europa non se ne stava con le mani in mano grazie a dei Moonspell in stato di grazia che consolidavano la loro fama con il capolavoro “Irreligious”. L'America, indubbiamente più pigra sotto questo aspetto, buttava sul piatto una delle entità più influenti del gothic-metal di sempre: i Type O Negative.

In tutte queste band il growl, laddove sopravviveva, era ridotto ai minimi termini, mentre la melodia prevaleva su tutto il resto: tastiere, orchestrazioni, arrangiamenti sinfonici soppiantavano i muri di chitarre. Quale sarebbe stato il passo successivo?

Per molte di queste band l'evoluzione era divenuta una irrinunciabile cifra stilistica. Erano finiti gli anni delle certezze, l'epoca d'oro del metal in cui ci si poteva permettere di portare avanti all'infinito la medesima formula. Evolversi o morire: questa era divenuto un dettame sacro da rispettare... fino alla morte! Fu così che qualcuno realizzò che i tempi erano maturi per fare il "grande salto", ossia lasciarsi alle spalle il caro e vecchio metal e dare sfogo a tutte quelle pulsioni extra-metal che nel passato avevano nutrito l'impianto metal per rianimarlo. E così quelle stesse influenze (Pink Floyd, Depeche Mode, The Sisters of Mercy ecc.) da linfa vitale si trasformarono in pozioni velenose capaci di eliminare il metal stesso.

Ecco perché ci piace la sentenza “1997: Fine del metal”: perché il metal nel 1997 compì un gesto estremo (forse il più estremo che si possa concepire) per rinnovarsi, ossia smettere di essere metal. Negare se stesso.

Tre sono le opere emblematiche che marchiarono a fuoco il 1997 sotto questo aspetto: "One Second" dei Paradise Lost, "A Deeper Kind of Slumber" dei Tiamat e "Design 19" dei Sundown.

Partiamo da questi ultimi, i meno significativi. Per quanto il progetto fosse il parto di due menti illuminate, ossia Mathias Lodmalm (ex Cemetary) e Johnny Hagel (ex Tiamat), il loro fu un sottoprodotto di quel nuovo approccio che vedeva procedere a braccetto metal, dark-wave e pattern elettronici. I Sundown, per quanto pionieri, offrivano il lato meno interessante e più insipido della faccenda: il metal, da un lato, perdeva quanto a complessità, diveniva sempliciotto, banale, suonato approssimativamente; il dark, dall'altro, si appiattiva sul fronte emotivo, smetteva di essere lacerata interiorità. In questo modo la somma delle parti diveniva inferiore rispetto alle stesse prese singolarmente: questa, del resto, fu una trappola in cui sarebbero caduti in molti altri.

Ma non Johan Edlund, rimasto titolare unico dell'etichetta Tiamat. Nel 1997 il metal non morì, ma per la prima volta una band metal si avventurò per sentieri cantautoriali, abbracciando in toto trame pinkfloydiane, l’elettronica soffusa e persino il synth-pop. Parlo di "A Deeper Kind of Slumber", che abbiamo già analizzato nella nostra rassegna sui migliori album non metal fatti da band metal. Non ci dilungheremo pertanto, anche perché il gesto della band fu così estremo che nell'immediato non provocò effetti diretti. Solo i metallari più audaci riuscirono a comprendere le visioni di un artista strettamente interessato ad inseguire i fantasmi interiori. Ma il popolo metallico, nella sua maggioranza, non intraprese quella strada ignota, troppo rischiosa e ricca di insidie.

Ci voleva la mezza rivoluzione dei Paradise Lost, un nome importante, un nome autorevole, per incuriosire il metallaro senza impaurirlo. Ed infatti andò così: il decennio successivo fu instradato da quell’"One Second" che trascinava prepotentemente il metal verso la dark-wave più catchy, mantenendo però energici riff di chitarra e ritornelli anthemici. Quella stessa dark-wave che, filtrata attraverso gli stilemi del death metal, aveva in origine ispirato l'intero movimento gotico, adesso smetteva di essere influenza per uscire allo scoperto e divenire componente predominante.

Ma cosa succedeva esattamente in "One Second"? Concettualmente il passo fu coraggioso, ma da un punto di vista stilistico, creativo e formale, l'album era, e tutt'oggi rimane, un lavoro capace di convincere solo a fasi alterne. Scrittura così così, arrangiamenti così così, produzione così così: all'epoca fece notizia, ci piacque per tre canzoni o quattro, ma anche senza saper leggere né scrivere si capiva che i cinque di Halifax si giocavano tutta la partita sull’effetto sorpresa, finendo però per snaturarsi, perdere certi loro tratti identitari e scimmiottare le gesta altrui.

Al posto delle belle trame chitarristiche di una volta trovammo elementari giri di tastiera; la voce pulita di Holmes, che aveva perso le ultime tracce di raucedine, faticava a diversificare i dodici brani in scaletta; inserti di elettronica assai dozzinale erano il pepe su una pietanza tutto sommato povera a base di tracce brevi e ritornelli molto simili fra loro. Eppure, nel frizzante 1997 brani come "One Second", "Say Just Words" e "Mercy" erano quello che ci voleva: una vera boccata d’aria fresca. La nuova formula ebbe così grande successo, sospinta in parallelo dall'ascesa del "love metal" degli Him e dell’industrial-rock edonistico dei Marylin Manson, altre entità bastarde che riuscirono ad infiltrarsi nei gusti del popolo metallico, nonostante le critiche dei più.

Il trend oramai era inarrestabile: il metallaro aveva voglia di leggerezza, per certi aspetti subiva il fascino di quegli strani esseri (le donne) che iniziavano ad avvicinarsi al metal proprio grazie a queste sonorità (con il cortese aiuto dei Cradle of Filth e compagnia black sinfonica). I Paradise Lost ne uscirono vincitori: potettero guardare per un istante ad un pubblico più ampio, accattivandosi l'interesse di certe frange del popolo dark, senza però perdere il rispetto della maggior parte dei loro fan.

Ciò servì dunque a consolidare popolarità e status della band, la quale però iniziò da un punto di vista artistico a battere la fiacca e a percorrere una china discendente: una via di gloria destinata a divenire un pantano, dal quale si fu in grado di uscire solo con vigorose marce indietro. Per un po' i Nostri avrebbero proseguito sulla strada della evoluzione a tutti i costi, spingendosi fino ai lidi del synth-pop depechemodiano di "Host": un album che aggiustava certi vizi di forma del predecessore, ma che rendeva la musica del Paradiso Perduto un involucro vuoto e privo del guizzo creativo di un tempo. Per questo motivo la band decise gradualmente di invertire la rotta nel tentativo di riappropriarsi della propria identità e di tornare a muoversi con disinvoltura in vesti in cui potesse sentirsi a maggiore agio, fino a riabbracciare le sonorità death-doom delle origini.

Questo, tuttavia, non fu il destino dei soli Paradise Lost: passato il periodo di ubriacatura di elettronica e ritornelli radiofonici, svanito l'effervescente effetto della novità, tutte le band di quella generazione dovettero ritornare, chi più chi meno, ai fasti delle sonorità estreme, fatta eccezione per coloro che avevano mostrato maggiore convinzione nel loro percorso di emancipazione dal metal (Anathema ed Ulver sono i primi nomi che vengono in mente).

Il metal non morì nel 1997, il metal anzi in quell'anno brillava e viveva una delle sue fasi più abbaglianti e rigogliose. Chi lo sa, forse quel bagliore fu soltanto l’ultima fiammata, il gesto fatale, l’estremo ricorso a nani e ballerine per nascondere una profonda crisi d’identità che il metal viveva nel corso degli anni novanta.

Si, perché il metal non avrebbe cessato di esistere, in realtà non ha mai veramente rischiato di estinguersi: ha solo dovuto capire che il mondo cambia, che tutto cambia, che niente è immortale. Ha dovuto rinunciare a qualche abitudine e a qualche certezza.

E forse questo salto negli “abissi” della dark-wave, del synth-pop, del trip-hop, del cantautorato, della psichedelia, questa sorta di “morte apparente”, di negazione del Sé servì al metal per rigenerarsi e confluire con una maggiore consapevolezza nell’elettricità commovente del post-metal e nelle raffinatezze ed introspezioni del neo-prog odierno, figlie in parte di quella stagione di pazzi coraggiosi che si avviarono per i mari impervi oltre le colonne d’Ercole del Reame del Metallo… nel 1997… 

P.S. proposito metalmirroniano per il 2018: smetterla di parlare degli anni novanta!