Perché
ci piacciono così tanto i Wolves in the Throne Room?
Sono derivativi, non hanno
inventato nulla, sono arrivati almeno dieci anni dopo tutti: saranno forse sopravvalutati?
No, i Wolves in the Throne
Room non sono sopravvalutati; essi sono un gruppo fuori dall'ordinario e stasera l'ho capito in modo chiaro e definitivo. Anzi, stasera ho capito
l'essenza stessa del black metal.
Tante
barbe. Se mi chiedete da chi è composto il pubblico dei Wolves
in the Throne Room vi rispondo: tante
barbe. Poi magari non tutti hanno la barba, ma è come se ce l'avessero.
Giovani aitanti, belli, pieni di salute e barbuti che fino ad oggi pare che non
si siano cibati altro che di mele e di noci. E che siano venuti qui cavalcando
alci. Oppure vecchi saggi e sorridenti che sembrano emergere da un passato
ancestrale: a tratti pare di trovarsi ad un concerto
prog a Genova.
L'impressione complessiva è
che abbiano aperto le fattorie: un'impressione strana ma positiva, che mi
riporta alla mente l'atmosfera pre-concerto vissuta con i Neurosis, e le analogie con la tribù
di Oakland non si fermano certo qui. Poco a che spartire, tutta questa brava gente, con l'universo strambo ed
intellettualoide che ruota attorno ai SunnO))), che anche loro verranno in mente più di una volta durante la serata.
Ma procediamo con calma.
Aprono le danze gli Aluk Todolo. La presenza massiccia di
francesi fa pensare che vi sia qualcuno anche per loro. L'ingresso dei tre però
è maldestro: entrano nel silenzio più imbarazzante, nessuno li riconosce, in
molti probabilmente li scambiano per tecnici che devono ultimare il sound-check. Poi il chitarrista urla
come un cafone rivolgendosi a qualcuno dalla parte opposta del locale e per
magia il loro logo viene proiettato
sullo sfondo della parete.
Per loro sarà una partenza nell'oscurità,
rischiarata dal pulsare di una grande lampadina che pende dal soffitto e
stanzia a mezz'aria davanti alla batteria, posta al centro ed in posizione
avanzata sul palco. Musicalmente invece si parte velocissimi: è "Occult Rock"!
Le prime due sezioni di questa colossale suite fanno faville. La prima è un inesorabile crescendo di tensione
con blast-beat persistente, un basso
roboante suonato ad occhi chiusi e le virate eclettiche delle sei corde, fra riff zanzarosi ed effetti psichedelici.
Il brano successivo invece mostra il vero volto dei francesi, fautori di un post-rock acido e dissonante
continuamente pervaso da fantasmi kraut:
a venire in mente continuamente sono infatti nomi come Can, Neu! e Amon Duul II.
Il mix di sonorità è intrigante e dal vivo esse ben si amalgamano in
un rock dell'occulto che corre
travolgente fra derive lisergiche e sentieri trascendentali: in
questa schizzata psichedelia
sopravvivono qua e là riff al
tremolo, ma è palese, stasera più che mai, il fatto che per questi signori il
black metal è solo un elemento fra i tanti del loro sound,
e nemmeno quello principale.
Agli Aluk Todolo piace vincere facile e nella loro jam ininterrotta emerge più attitudine
che idee vere o emozioni da esprimere. Quanto a me, diviso fra palco, bar e
cesso, li seguirò in modo scostante, sfruttando il loro set a scopi biecamente preparatori per il vero evento della serata:
l'esibizione dei Lupi d’Olimpia. Al
termine di tutto ho la possibilità di portarmi fra le prime file munito di
serenità, la giusta dose di alcool in corpo e la vescica piacevolmente vuota. E chi mi ammazza?
Un cenno al cambio
palco (perché tutto stasera è speciale, anche i dettagli apparentemente
più futili). I Wolves sono un gruppo magico e questa magia la si può saggiare
anche nei preparativi che precedono il loro ingresso sul palco. Tornano gli
eterei fraseggi di organo e tornano le luci azzurrine che, viste da sotto il
palco, generano un'atmosfera irreale, magica (appunto). Una ragazza (che poi
scopriremo essere la tastierista) asperge incenso nell'ambiente, perché quello a
cui stiamo per assistere non sarà un concerto, ma un’esperienza dai contorni mistici. Dei teli costellati di simbologie
appesi sullo sfondo e lo stemma acuminato della band posto al centro del palco
costituiscono la scenografia povera per questi musicisti che puntano tutto
sulla forza della loro musica.
L'introduzione ambient si fa
irrequieta, le luci si spengono e i cinque prendono le loro posizioni sugli
assi. Ad affiancare i fratelli Weaver
ed il nuovo ingresso Kody Keyworth, troviamo
Peregrine Sommerville (cortesemente
in prestito dai Sadhaka) alla terza
chitarra e Brittany McConnell (Wolvserpent) alle tastiere.
A rompere gli indugi è
l'arpeggio iniziale di "Born from
the Serpent's Eye", stupenda opener
dell'ultima fatica discografica "Thrice Woven", e sono già emozioni incredibili. Le tre chitarre garantiscono
profondità e sfumature, mentre il drumming
impeccabile di Aaron Weaver pone un
argine a dei suoni leggermente impastati che invero giovano al black metal
viscerale dei Lupi, conferendo ad
esso un gradito tocco di Emperor.
La mia posizione privilegiata
sotto il palco fa sì che l'attenzione cada subito sulla figura del
batterista, che mi impressiona per la performance
ma anche per il suo strano atteggiamento. Avete presente quei casi di
persone affette da balbuzie che, cantando, di colpo smettono di balbettare
sfoggiando una insospettabile bellissima voce? Aaron Weaver dà una impressione
analoga, come di ragazzo geniale con forti problemi relazionali che vive
isolato nel suo mondo e che solo quando è alle prese con il suo strumento tira
fuori se stesso e il suo talento, forse come molti altri che hanno fatto la
storia del black metal.
Gli occhi sbarrati fissano il vuoto,
le braccia si muovono a velocità supersonica sulle pelli; nelle pause però il
Nostro, da uomo-macchina infallibile,
diventa scoordinato, dondolando il busto in avanti e indietro: il suo sguardo
(se così si può definire) è rivolto verso una dimensione solo a lui conosciuta. In quei movimenti, in quella espressione,
riconosco un disagio che definirei
tipicamente black metal: lo sguardo vitreo di Varg Vikernes, le fobie di Dead,
il dorso ricurvo di Frost che si
allontana dal palco terminata l'esibizione dei Satyricon.
Abbiamo sempre considerato il
black metal una faccenda geografica, ma stasera capisco che il black metal non
è una questione di paesaggi, di foreste, ma di disagio, interiore e dunque
sociale. E se i Wolves in the Throne Room sanno suonare black metal, non è
perché vivono in una fattoria spersa nei boschi dell'incontaminata Cascadia, ma
perché sono dei disadattati, o almeno Aaron lo è, fragile fratello minore con
problemi, accudito e protetto da Nathan.
Nathan, che pure guadagna la
posizione centrale sul palco, non può essere definito un front-man carismatico, e di certo la sua piccola taglia non lo
aiuta. Il suo atteggiamento è defilato e fisicamente è oscurato dall'imponente
Kayworth, slanciato e di corporatura possente, ma il suo screaming lancinante buca con vigore il muro delle chitarre.
Eccoci finalmente alla pausa
centrale del brano, banco di prova per testare il lato più melodico della band.
Si sceglie di non riprodurre la registrazione della voce di Anna Von Hauffwolff e di ovviare alla
sua mancanza con degli accorgimenti in sede di arrangiamento, perché la musica
dei Lupi non conosce espedienti,
artifici, sovra-incisioni: essa deve sgorgare spontanea e naturale in ogni
momento dalle mani e dai cuori dei musicisti, e non da altre parti. Test
superato: l'ultima rincorsa del brano, che parte da arpeggi e tappeti di tastiere,
cresce fra linee melodiche che si annodano, ripartenze in doppia cassa ed ugole
al vetriolo che si alternano. Quando Kayworth giunge in soccorso dietro al
microfono con il suo screaming
abrasivo che poco di discosta da quello di Nathan, non possono che venire in
mente Steve Von Till e Scott Kelly che si danno il cambio in
una terremotante "Locust Star",
forse il momento più apocalittico vissuto dal sottoscritto in un concerto. Ma il meglio
dovrà ancora venire.
È il turno dell'immancabile
accoppiata "Dea Artio"/"Vastness and Sorrow", dal
capolavoro "Two Hunters".
La prima rappresenta per chi scrive l'apice emotivo della serata: uno
strumentale dai toni pacati che offre il lato più post-rock (dream-pop??) dei
Nostri. Chitarre zanzarose che si intrecciano sorrette dal battito ieratico
della batteria: un lento crescere dalle tenebre alla luce che sembra voler
celebrare il risveglio della natura al chiarore di un'alba che si amplia su un
gelido paesaggio invernale. E di fatto con il crescere dell'intensità del brano
(ben più di un intro) le luci offrono un coerente spettacolo, determinando il
passaggio graduale e stupefacente dall'oscurità
della notte al bagliore del sole al mattino e al saettare di fendenti rossi
come il fuoco della vita. Anche qui è
Kayworth a recitare la parte del leone, catalizzando l'attenzione dei presenti
con i suoi lenti movimenti di chitarra in perfetta armonia con la solennità
espresse dalle note del brano. Si respira indubbiamente una sacralità che
ricorda i "riti elettrici" dei SunnO))).
Senza stacchi esordisce la
feroce "Vastness and Sorrow", quasi un quarto d'ora di poesia squisitamente black metal: con il suo
susseguirsi di idee, melodie e cambi di tempo, secondo quanto insegnato da Emperor e Burzum, essa si conferma uno dei migliori episodi (se non il
migliore) del repertorio della band. Da infarto l'epico mid-tempo centrale, seguito da una delle accelerazioni più efficaci
che il genere intero conosca.
Ma il cuore dei provati
spettatori dovrà ricevere un ulteriore colpo, ossia l'esecuzione di "The Old Ones are with Us", pezzo
di punta del nuovo album. Anche in questo caso si decide di fare a meno della
voce di Steve Von Till, il quale aveva
impreziosito con il suo suggestivo recitato la versione in studio. Ma la resa
finale non ne risente, grazie ad arrangiamenti studiati appositamente per la
dimensione live. Con piacere mi
tornano alla mente gli Anathema di
"The Silent Enigma",
ispiratori primi di sublimi impasti sonori fatti di poderosi accordi, arpeggi e
magie pinkfloydiane, resi in modo
divino dell'assetto a tre chitarre + tastiere (il contributo di queste ultime è
chiaramente più incisivo nei brani più recenti - peccato solo che non si sia
voluto stasera mettere in scena il lato più ambient della band, magari pescando
qualcosa dal bellissimo "Celestite").
Fortunatamente
arriva "Prayer of Transformation"
(da "Celestial Lineage"),
un pezzo che non ho mai amato particolarmente. Dico “fortunatamente” perché essa mi permette con serenità di andare al
bagno e fare un altro salto al bar. Il brano rende comunque molto bene dal
vivo, rinforzato da avvolgenti tastiere e valorizzato nel suo lento incedere da avvolgenti luci verdi/azzurrine e zaffate di fumo. L'aver perso la
posizione sotto il palco non si rivela un male assoluto, visto che da lontano i
Nostri offrono un discreto colpo d'occhio. Ad ogni modo è facile dribblare gli
spettatori davanti a me (il locale registrerà il pienone stasera, ma non
potremo dire che straboccherà di gente) ed in poco tempo mi trovo in una buona
posizione per assistere al resto del concerto. Da notare che stasera nessuno,
dico nessuno, poga, nemmeno fra le prime file, ed è una cosa decisamente
insolita in un concerto di metal estremo. E' semmai tutto un ondeggiar di teste
ed occhi chiusi, braccia levate al cielo che accompagnano con gesti lenti gli
sviluppi dei brani. Come dicevo all'inizio, del resto, l'aria che si respira
non è quella del concerto, ma quella trasognata del rito collettivo.
È la volta dei venti minuti di
"I will Lay Down my Bones among the
Rocks and Roots", e le nostre vite non saranno più le stesse. Con i
suoi continui saliscendi emotivi, la suite
che chiudeva “Two Hunters” è un vero monumento di black metal evoluto costruito
con le regole del post-hardcore. In
essa pare possa succedere di tutto, impossibile descrivere a parole la forza impattante di
questo brano: un gioco di arpeggi, refrain
melodici, sfuriate, pause e ripartenze che potrebbe andare avanti all'infinito.
Mi sento di citare, in questo regno delle meraviglie, un
frangente che mi ha colpito, catapultandomi per un istante in un altro concerto
dai forti contorni mistici, quello degli Swans
di qualche mese fa (ma non credo sia fuori luogo tirare in ballo la
immaginifica “A Plague of Lighthouse
Keepers” dei Van Der Graaf Generator):
feedback di chitarra a sporcare il
silenzio, buio, e poi un grande riff spremuto
dalle corde solitarie della chitarra di Kayworh. Dalla destra del palco si
rianima per l'ennesima volta quella maestosa creatura che è il black metal dei Lupi, incalzato da dietro dalle
percussioni tribali che traghetteranno il brano verso un finale catastrofico di
neurosiana memoria. E’ importante
sottolineare il fatto che il brano si sia rigenerato da una posizione specifica
del palco perché il carattere spaziale dell’esibizione diviene importante
laddove la musica proposta ha la capacità mesmerica di svellere le coordinate
spazio-temporali conosciute, per tracciarne altre appartenenti all’universo
artistico degli artisti che si muovono nell'area a loro disposizione.
Si capisce che i Wolves sono
l'esatto contrario degli Aluk Todolo: laddove per i francesi è la formula a
vincere (una bella confezione riempita alla meno peggio con estro, attitudine e
cliché), per gli americani la musica (anch’essa
ricca di cliché) è un veicolo per
trasmettere all’esterno un qualcosa che si cova
dentro, per colmare di contenuti emotivi e significati gli stampi offerti dal black metal e dal post-metal. E forse è proprio questo aspetto a renderli diversi da tutti gli
altri: l'onestà che li anima e che li
spinge ogni volta a non cedere alla tentazione di optare per la via comoda
(quella del mestiere, quella della soluzione scontata, quella dell'automatismo
dell'abitudine), ma di cercare fieramente la via delle emozioni,
l'unica praticabile per i loro spiriti puri. Quella stessa onestà che ad un certo punto ha persino messo in pericolo l'esistenza della band.
Con soli sei brani i Lupi d'Olimpia
portano a termine il loro set di
un'ora e mezza: un'ora e mezza che ha la valenza dell'eternità. E quello che abbiamo vissuto stasera lo custodiremo nel cuore
per molto molto tempo ancora.